Fernando (per me semplicemente
Nando) scrive:
Cassini ritorna spesso alla sua
Isolabona che ha assunto i mitici e pur così realistici contorni
dell’isola non trovata da Gozzano, della Islabonita di Nico Orengo, per
ritrovare la sua Itaca dove pure Argo, il cane di Ulisse, è morto.
Nell’isola-rifugio che consente solo brevi viaggi nel mar giallo del gioco
poliziesco ed enigmistico, là dove l’odore del mare risale fino ai paesini
delle Alpi Marittime mescolandosi ai profumi del basilico e delle altre
piante ed erbe che danno i gusti ai piatti di ravioli, di coniglio con le
olive, di capra e fagioli, c’è un sospetto di disincanto, di pessimismo
che però trova conforto nella scrittura: in fondo restiamo sempre quelli
che siamo nati e dove sempre torniamo, come scrive Kavafis:
“Itaca t’ha donato il bel viaggio
Senza di lei non ti mettevi in
via.
Nulla ha più da darti.
E se la ritrovi povera, non t’ha
illuso.
Reduce così saggio e così esperto,
Avrai capito che vuol dire un’
Itaca.”
Versi che mi hanno dato l’input
per iniziare la mia nuova avventura nel mondo di internet, attraverso una
breve biografia, per presentarmi al lettore. Il momento è quello adatto:
ottant’anni sono ormai alle spalle e i ricordi possono riaffiorare.
Molti di questi sono sparsi a
piene mani nei libri che ho scritto per i giovani, in particolar modo
Tempo d’odio e tempo d’amore, I ricordi di Cirò e Vacanze
movimentate.
Non intendo certo sostenere che
ricordo quel 29 maggio del 1931, quando aprii gli occhi sul mondo.
Quello che accadde il giorno della
mia nascita mi fu raccontato con dovizia di particolari anni dopo. Mentore
fu la madre di mia madre, Nonna Finetta. Nonna Finetta, rimasta presto
vedova, con tre maschi e una femmina da accudire, riversò su di me, il
primo e unico nipote, tutto l’affetto possibile, dandomi a piene mani
quello che aveva tolto, o meglio che non aveva potuto riversare sui suoi
figli, perché impossibilitata dalle necessità familiari. Per questo Nonna
Finetta è sempre stata presente nei miei pensieri, tanto da diventare una
dei protagonisti dei miei romanzi autobiografici I ricordi di Cirò
e in Tempo d’odio e tempo d’amore.
Durante la prima infanzia mio
padre e mia madre erano assenti per buona parte dell’anno dal paese. Il
lavoro li costringeva a lunghi soggiorni in terra di Francia. Fu nonna
Finetta a seguire i miei primi passi, a udire le mie prime parole, ad
asciugare le mie prime lacrime. Mi ha seguito quando all’asilo ebbi il mio
primo contatto con altri bimbi della mia età, e quando alle elementari
cominciai ad imparare l’abc. La sua presenza reale o immaginaria era
costante. Si è idealmente seduta al mio fianco quando, sui banchi della
scuole medie, leggevo i versi del Carducci che parlavano di una nonna
“alta, solenne, vestita di nero”; sui banchi del liceo, quando mi
appassionavo nella lettura di racconti e leggende e quando, all’università,
studiando letteratura per l’infanzia, ricostruivo attraverso una visione
più razionale e logica le fiabe che mi aveva raccontato vicino al focolare,
nelle notti d’inverno. Fiabe paesane di vita in cui fate, gnomi
e principesse dai capelli biondi non esistevano, ma erano invece presenti
personaggi più veri, più sanguigni, più vitali, sempre alle prese con i
misteri della sopravvivenza e della vita.
Quando, annualmente, torno alla
mia Itaca per trascorrere una vacanza, la prima visita è al Campo Santo
dove, per me, esiste la tomba più bella, la sua. O meglio: dove non esiste
nessuna tomba perché nel luogo dove fu sepolta non c’è alcuna lapide e non
c’è alcun vaso in cui porre un fiore. Sulla sua
sepoltura, col passar dei decenni
sono nati due alberi, oggi alti una ventina di metri. In quelli c’è lei.
Quale miglior riposo all’ombra di due cipressi sempre verdi!
“Deh come bella, o nonna, e come
vera
è la novella ancor! Proprio così.
E quello che cercai mattino e sera
Tanti e tanti anni in vano è forse
qui,
sotto questi cipressi, ove non
spero,
ove non penso di posarmi più:
forse, nonna è nel vostro cimitero
tra quegli altri cipressi ermo
lassù.”
(Giosuè Carducci- Davanti San
Guido)
Con nonna Finetta trascorsi gli
anni della primissima infanzia, quando mi portava a Mentone dove mia madre
e mio padre lavoravano come impiegati nell’Hotel de Venise, un Hotel, oggi
si direbbe, a cinque stelle, frequentato da VIP, da signore ingioiellate
che guardavano con occhi stupiti quella donna austera, ammantata di nero che
teneva tra le braccia una minuscola mummia vivente. Infatti, seguendo gli
usi del mio paese, gli infanti sino all’età di tre anni venivano fasciati
in lunghe bende odorose di lavanda e somigliavano a minuscole mummie,
impossibilitati com’erano di sgambettare e capaci di esprimersi solo con
gli occhi e col sorriso.
Continuò a portarmi in Francia
ogni mese affinché trascorressi una giornata con i miei e continuò anche
nel periodo in cui i Francesi cominciarono a odiare Mussolini e a chiamare
gli italiani con l’epiteto di “Macaronì”.
Vi racconterò un episodio. Avevo
circa quattro anni. Eravamo alla stazione di Mentone in attesa di un treno
per Ventimiglia. Attorno a noi un via vai continuo di passeggeri, di gente
con valigie, di facchini, di agenti di frontiera.
Stavo in silenzio vicino
a nonna Finetta e osservavo. Ad un tratto, senza una ragione, mi misi a
gridare ad alta voce “Evviva Tulini! Evviva Tulini!” Lei mi diede un
pizzicotto al braccio che mi lasciò il segno e con voce irata mormorò in
dialetto: “Sta chiato, brùtu porco. A semu en Fransa, nu a l’Isura. ” (Sta
zitto, porcellino, qui siamo in Francia e non a Isola). Una signora che mi
aveva udito, disse al marito: “Et voilà. En Italie a quattre ans les
enfants commence dejà a crier : Vive Mussolini!”
( Trad. Ma guarda un pò, in
Italia a 4 anni i bambini cominciano già a gridare : W Mussolini!)....
)
In seguito rimasi in Francia con i
miei sino all’età di sei anni. Vivevamo ad Antibes dove, volendo tentare
la fortuna nel commercio, mio padre aveva rilevato un negozio di
commestibili. Sembrava che la mia famiglia avesse imboccato una via giusta.
Frequentai la prima elementare
alla Scuola “Paul Aréne”; parlavo francese. Ma il momento non era propizio
per gli italiani perché i rapporti politici, burrascosi, tra Italia e
Francia costrinse i miei a ritornare a Isolabona nel 1938,
poco prima che scoppiasse la guerra, e a riprender l’antico mestiere del
contadino. Gli anni dal 1938 al 1945 furono duri. Anni che lasciarono
ricordi poco piacevoli, convulsi dal punti di vista politico e da quello
bellico. Tutti ricordi che in seguito fissai in episodi sparsi in alcuni
libri. Frequentai in quel periodo la Scuola media “Regina Margherita” a
Ventimiglia e poi il ginnasio, il liceo ad Alessandria e, infine,
l’università a Genova, Facoltà di lettere moderne.
Per me quelli furono anni di
formazione, di intense letture, di conoscenze … ma anche anni di goliardie
con gli amici. Fu nella loggia dell’Università di Via Balbi che conobbi
Marisa, la mia futura moglie. Si era iscritta inizialmente alla Facoltà di
Medicina, che subito abbandonò per passare a Lettere. Legammo subito,
anche perché, come seppi in seguito, era rimasta colpita piacevolmente
dalla mia sciatteria. Mi confessò che a colpirla era stato il fatto che quando
ci incontrammo la prima volta indossavo una calza di un colore e una di
colore totalmente diverso. Forse la considerò una stranezza. Io so solo
che non facevo caso a quello che indossavo. In seguito, per caso,
incontrammo suo padre, un ragioniere che lavorava presso la Banca San
Paolo di Torino. Vedovo da pochi mesi, viveva con la figlia e con la
suocera. Era piccolo, stempiato, rotondetto, sempre allegro e pronto alla
risata; ma era miope peggio di una talpa. Mi colpirono i suoi occhiali le
cui lenti erano spesse come il vetro di un bicchiere di birra. Come
facesse a vedere non lo so. Un giorno mi
raccontò che alla fermata di un tram una vecchietta gli aveva chiesto se
il tram che stava arrivando era il numero 18. Le rispose che lui, pur
indossando gli occhiali, il tram non lo vedeva neppure! E si fece una
risata.
I miei rapporti con sua figlia si
erano stabilizzati su una base goliardica, sebbene la vicinanza e lo
studio comune agissero lentamente sui nostri sentimenti senza che ce ne
accorgessimo. Chi se ne accorse fu il padre, il signor Saettone, col quale
ero ormai in confidenza e mi stimava come un figlio.
Un giorno, mentre lo accompagnavo
sino a casa, la figlia non c’era, mi disse che sua suocera doveva
assentarsi per lungo tempo e che in casa rimanevano solo lui e sua figlia.
E poi accompagnò la notizia con una inattesa proposta che non mi aspettavo.
Sorridendo disse: “Allora, come la mettiamo con mia figlia? Mia suocera se
ne va per non so quanto tempo. Vedi, io non sono un padre all’antica e non
voglio certo diventare un cerbero che vigili continuamente. Ho capito che
fra voi due c’è più che amicizia. Perché non vi sposate?”. Trasecolai.
“Signor Saettone, – gli risposi – io mi laureo tra un anno e poi devo
ancora fare il servizio militare. Non ho arte ne parte, come farei a
pensare a sua figlia?
Mi rispose ridendo: “Se il
problema è tutto lì è bello che risolto, perché dove si mangia in due si
mangia anche in tre!”. Io ribattei: “Ma sarebbe come se io venissi a
vivere in casa sua, appendendo semplicemente il cappello all’attaccapanni!”.
(Solo adesso mi accorgo che stavamo usando entrambi modi di dire comuni).
Quell’estate, con il beneplacito
dei miei, li invitai a trascorrere le loro ferie a Isolabona, dove il
signor Saettone (quanto odiava essere chiamato così, lui che solitamente
con gli amici amava essere chiamato Pippo!) ebbe occasione di parlare con
i miei. Che cosa si dissero non lo so. Il risultato fu che dopo tre mesi ci sposammo! Continuammo
entrambi a studiare con grande divertimento degli amici e dei professori
che, dopo un esame (che ovviamente affrontavamo in contemporanea),
discutevano con noi sul voto da darci. Conseguita la laurea, venne il
periodo del richiamo alle armi. Credevo di poterlo evitare, essendo
sposato, ma, nulla da fare. Fui inviato a San Benedetto del Tronto per un
periodo di addestramento in un corso per allievi ufficiali di complemento;
poi, nominato sottotenente, trascorsi dieci mesi in un reggimento di
fanteria di stanza a Palmanova nel Veneto. Ero addetto al reparto collegamenti e avevo a
disposizione voluminose macchine rice-trasmittenti, delle quali conoscevo
solo le funzioni più semplici. Io e la tecnologia non eravamo molto
affiatati … e ancora oggi alle prese con Pc e telefonini mi trovo sempre
in difficoltà … e dire che ho scritto per i giovani, racconti e avventure di fantascienza dove la tecnica è
sovrana! Un conto è la fantasia, altro è la realtà.
Tutto sommato fu un periodo
piacevole anche perché il grado di sottotenente mi permetteva di poter
ricevere visite frequenti da parte di mia moglie, la quale, quando in
seguito ricordava quel periodo era solita usare la frase: “Quando facevo
il militare”, con grande stupore di chi l’ascoltava . Quel periodo, in
fondo spensierato, durò poco. Dopo il congedo militare mio suocero morì
improvvisamente di edema polmonare e io, con la sola laurea in lettere e
nient’altro in tasca, iniziai a cercar un lavoro qualsiasi. Cominciai con
un incarico serale presso l’istituto privato “Giacomo Leopardi” di Via XX
settembre a Genova. Non mi dispiacque. I corsi erano frequentati da
studenti lavoratori che, dopo aver faticato mattino e pomeriggio,
cercavano di prepararsi per ottenere un diploma. Ricordo che ogni sera,
dalle otto alle undici, qualcuno di loro reclinava la testa sul banco e si
addormentava … non per quello che spiegavo, ma per la fatica! Avevo preso
l’abitudine di preparare degli appunti che consegnavo loro al termine
della lezione … quando si svegliavano. Poi il direttore del Leopardi mi
affidò anche un lavoro mattutino con ragazzi delle scuole medie. Quelli
però non dormivano, tutt’altro. E fu allora checapii di aver preso all’università
un indirizzo sbagliato. Ero perfettamente negato a svolgere il compito di
educatore di giovani perché non riuscivo a mantenere la disciplina. Non
avevo alcun carisma. Diversamente dal giornalista Mosca, non avevo una
fionda a portata di mano, né avrei mai potuto centrare un insetto fermo
sul muro per ottenere rispetto e considerazione. Tra me e Guglielmo Tell
c’è un abisso! Ripiegai su un concorso per entrare in Comune … e fu la mia
fortuna. Lo vinsi … bastava avere la licenza media! Fui assegnato alla
segreteria dell’Istituto Universitario di Magistero “Adelchi Baratono” e,
qualche anno dopo, quando il Comune riassorbì tutti gli impiegati di
segreteria, venni inviato alla Ripartizione Istruzione - Settore
Biblioteche, diretto dal Prof. Giuseppe Piersantelli.
Questi, proprio in quel periodo,
stava seguendo una sua idea bibliotecaria: la creazione di una emeroteca
nei Parchi di Nervi, nella quale raccogliere giornali e riviste italiane e
straniere da mettere a disposizione dei turisti che venivano a trascorrere
periodi di riposo al sole della Liguria. Un’ idea che il professore “covò”
a lungo, fino a quando non incontrò una signora tedesca, Jella Lepman,
fondatrice a Monaco di Baviera della Jugend Bibliothek. La Lepman lo
dissuase da quell’idea, prospettandogli, invece, la creazione in pieno
centro-città di una biblioteca destinata esclusivamente ai ragazzi dai
quattro anni all’adolescenza. Un’idea che lo attrasse subito. Venne
fondato il CSLG (Centro Studi di Letteratura Giovanile) del Comune di
Genova di cui, dopo alcuni anni dalla sua fondazione entrai a far parte.
Il lavoro del Centro fu quello di preparare il terreno all’apertura della
Biblioteca per ragazzi “E. De Amicis”. Per la sua creazione e direzione,
Piersantelli cominciò a pestare i piedi, chiedendo che per la nuova
struttura bibliotecaria lui voleva che fosse posto “un uomo” in quanto
tutte le Biblioteche genovesi di quartiere erano guidate a donne. E il
moderno Diogene in cerca dell’uomo lo trovò nel sottoscritto. Gli feci
notare che non avevo nessun diploma di biblioteconomia. L’unico contatto
con i ragazzi era la pubblicazione di alcuni libri con la Casa editrice
Mursia. “Nemmeno io – mi rispose – sapevo qualcosa del funzionamento delle
biblioteche quando mi affidarono l’incarico di dirigerle. Io mi sono
arrangiato. Arrangiati pure tu!”
Mi arrangiai “copiando “ il
sistema della Jugendbibliothek di Monaco di Baviera e quello della
Biblioteca di Clamart-sur-Seine, nella banlieu parigina. Una biblioteca ad
uso esclusivo dei Ragazzi.
Furono anni intensi durante i
quali utilizzai tutta la mia esperienza per “creare” sistemi a dimensione
dei ragazzi perché capii subito che i sistemi utilizzati in una biblioteca
per adulti, mal si adattavano alla mentalità dei giovani. Ricordo di aver
avuto un ottimo risultato utilizzando i colori per individuare subito i
vari generi letterari e introducendo nell’animazione giochi enigmistici
per spiegare l’uso dei cataloghi per autore, per soggetto, per
titolo, per
collane e per abituarli ad un self-service bibliotecario.
Mi venne poi affidata anche la
direzione della Rivista di letteratura giovanile “LG Argomenti”
(ex “Il Minuzzolo”, creato anni prima da Giuseppe Piersantelli). Nel
frattempo continuai a scrivere romanzi per ragazzi. Una passione che era
iniziata nel 1964 con un libro di Fantascienza. Ne seguirono una trentina
nei quali toccai diversi generi: fantascienza, storia antica e moderna,
gialli, romanzi autobiografici, libri gioco, umorismo, mistero e suspence,
enigmistica …
A questi si aggiunsero articoli si
varie riviste, oltre a quelli che scrivevo su “LG”.
Nel frattempo la Biblioteca De
Amicis (la DEA come confidenzialmente veniva chiamata dagli addetti ai
lavori) dovette essere spostata, per questioni di spazio, dalla suggestiva
Villa Imperiale, in Via Archimede, vicino alla stazione Brignole. Dal
verde di un parco, al grigio dei caseggiati. Non fu un passo all’indietro;
si trattò solo di una perdita di colore, perché la DEA nel frattempo
continuò a crescere, tanto che, dopo la Fiera Internazionale delle
COLOMBIADI del 1992, dovette essere nuovamente spostata e trasferita in
locali più ampi vicino al mare, nei Magazzini del Cotone del Porto Antico
di Genova, restaurati dall’architetto Renzo Piano. Iniziò così il periodo
blu.
L’ultimo trasferimento non l’ho
seguito. Ormai ero in pensione. Se ne occupò il mio delfino Francesco che
sta continuando il mio lavoro in modo egregio e con idee manageriali che
io non avevo.
La mia DEA è in buone mani.