NON TUTTI AL CIMITERO PIANGONO “Sol chi non lascia eredità d’affetti, poca gioia ha nell’urna) (U.Foscolo)
Non c’è nulla di più triste né di più allegro che andare al cimitero: tutto dipende dall’età. Ricordo che da bambino il cimitero, quando nel Giorno dei Morti o la vigilia di Natale era affollato come i Grandi Magazzini nei giorni dei saldi o la vigilia di Natale, rappresentava per me il parco dei divertimenti più ambito. Nulla di certo poteva sostituire le corse tra le tombe, il giocare a rimpiattino dietro le lapidi, il saltare due, talvolta tre tumuli con un sol balzo per ricadere nella terra soffice o tra molli zolle. Non c’era pericolo alcuno di farsi male perché nei cimiteri la terra è sempre soffice come nei campi dopo l’aratura. Mia madre mi faceva gli occhiacci da lontano, ma si guardava bene dal rincorrermi per non venire meno a quella austerità e a quel decoro che il luogo e la giornata richiedevano. Sapevo che un bel ceffone, non appena rincasato, non me l’avrebbe tolto nessuno, ma ne valeva la pena, almeno una volta l’anno. Poi sono cresciuto e col crescere mi sono guastato; ho voluto imitare gli altri un po’ per uniformarmi, un po’ per convenzione. Sta di fatto che al cimitero ci andai sempre più compunto e sempre più di rado. Accade però che un bel momento ci si debba andare per forza e ci si ritorni per ricordare tutto ciò che c’è stato di bello nella nostra vita e di cui non ci siamo accorti minimamente. Il ricordo torna lì per lì, mentre te ne stai di fronte ad una lapide e ad una stinta fotografia e guardi una lucertola che di tra i sassi occhieggia. Ma a che giova rivangare il passato – concludi d’un tratto. – Un cimitero non è un campo dove semini e qualcosa cresce. Qui non nasce nulla. Probabilmente è proprio per questo che ognuno porta dei fiori o che si costruiscono tombe sormontate da policromi marmi o da stupende statue: ci pensano i vivi far nascere i ricordi, quelli buoni, ché quelli cattivi rimangono occulti, appesantiti, soffocati dal peso dei marmi, nascosti sotto il basamento. E’ questo pensiero che sovente mi assale quando attraverso le lunghe gallerie di Staglieno, quelle che conducono, per mezzo di lunghe scalette, verso l’alto, verso il sole, verso il verde. Ho sempre invidiato quei fortunati defunti che godono di un pezzo di terra esposto all’aria, lontano dai fetidi miasmi delle gallerie, dai corpi conservati nelle teche di zinco. Abbiamo profanato la natura il giorno in cui il primo corpo non ha più potuto mescolarsi con la terra perché protetto, custodito dall’uomo; l’abbiamo derubata di ciò che ci aveva imprestato con profusione, a piene mani, senza interesse alcuno. E quando morirò vorrò essere in pace con tutti e in debito con nessuno. Chiedo solo, allorquando scenderò sotto le zolle, che mi si trovi un posto all’aria, con un cipresso vicino che possa mitigare con la sua ombra la calura estiva, e questo non per me, ma per coloro, se mai qualcuno verrà, a farmi visita. Questi pensieri, in fondo banali e comuni, m’erano balzati in mente anche quel mattino mentre salivo tra due file di cipressi per la strada che conduceva alla tomba di un mio amico di recente scomparso. Lui era stato fortunato nel suo ‘posteggio eterno’. Un becchino dal berrettino nero gli aveva gli aveva scavato la tomba in un piccolo ripiano, in compagnia di poche tombe, in vista dell’estremo orizzonte reso più abbagliante dal riverbero del sole sul mare. Appoggiato ad un cipresso, mentre mi godevo la tiepida giornata e i ricordi facevano ressa nella mia mente, fui attratto dalla presenza di due signori che, a poca distanza da me, sostavano presso una tomba. Se già vi fossero prima che io giungessi, non avrei saputo dirlo; so solo che me li vidi di fronte all’improvviso, tra un ricordo e l’altro, e mi colpirono stranamente quelle due figure immote, simili a fantasmi venuti da altri tempi. L’uno, in piedi a qualche metro dal compagno, indossava una lunga redingote nera, un po’ sciupata e stinta. Calzava un paio di scarpe nere, ricoperte da ghette pure esse nere e un poco impillaccherate di fango. Tra le mani, tenute accuratamente incrociate sulla schiena, teneva un cappello di feltro. Immobile come uno spaventapasseri in tempo di bonaccia, mostrava vivi solo gli occhi che si agitavano dietro due spesse lenti tenute unite da stanghettine dorate. La prima impressione che pregasse per qualcuno era subito cancellata dal fatto che volgeva le spalle alle tombe a lui più vicine e ancor più dal fissare l’altro uomo a pochi metri da lui. Costui, completamente all’opposto del compagno, inginocchiato presso una tomba di marmo la cui lucentezza ancora apparente denotava una morte se non recente almeno non remota, si dimenava gesticolando e borbottava sottovoce qualcosa d’indecifrabile. Vestito più dimessamente del primo, con una giacca scura in tweed e un paio di pantaloni di un colore che mal si adattava al resto dell’abbigliamento, mostrava, specie nel collo, una camicia sul cui biancore originario si sarebbe potuto dubitare e che, quando mi avvicinai, vidi assai lisa e in parte sfilacciata. Ma da tutto l’insieme traspariva una condizione non misera. Tutt’altro. Lo dimostravano due grossi anelli con brillante che gli appesantivano la destra; solo che a quell’opulenza si mescolava una trascuratezza che falsava ogni giudizio Rotondetto anzichenò, faceva traballare la pappagorgia nell’intento di parlar sottovoce e a tratti, levandosi con fatica in piedi per dar riposo alle ginocchia indolenzite, si guardava attorno con fare sospetto e guardingo come chi sorveglia cosa che troppo gli preme o che teme la curiosità altrui. Più volte, prima di rimettersi in ginocchio, s’era voltato verso di me e il suo volto arrossato dallo sforzo di piegare e distendere quelle corte gambocce lardellose aveva tradito la sua preoccupazione per il mio interesse, ma ogni volta un più rapido ammiccare degli occhi dell’altro l’aveva costretto a riprendere quella mimica strana che aveva colpito la mia curiosità. So quanto sia sempre penoso, quando ci troviamo in certe situazioni, essere osservati da estranei e forse me ne sarei andato per i fatti miei se un filo di vento non avesse fatto giungere a me, distinte, inequivocabili, le parole pronunciate da quell’individuo che stava ginocchioni. Un attimo prima l’avevo visto piegarsi a fatica e trarre di tasca un libro, forse di preghiere, che prese a leggere a voce, se non alta, assai distinta. “La seconda e la terza notte – leggeva – quando la confidenza sarà maggiore, le toccherà con le mani tutto il corpo, la bacerà tutta: poserà anche le mani sulle sue cosce e le farà delle carezze; se vi riesce , le carezzerà anche l’attaccatura delle cosce. Ella tenterà forse di impedirglielo, ma lui cercherà di convincerla dicendo: “Che male vi è in ciò? “ e la persuaderà a lasciarla fare”. Le parole gli uscivano di bocca accarezzate dalla mente e gustate quasi da tutto l’essere suo che avrebbe forse fatto ben volentieri a meno di estrinsecare certe idee, certi pensieri che piace solo di covare in silenzio. Lì, invece, a malincuore, quello li leggeva e il loro significato acquistava un senso strano, un sapore di sacrilegio, un aspetto blasfemo. Rimasi esterrefatto,i mmobile, appoggiato ad una lapide, incapace di capire e di connettere. L’uomo vestito di nero, sempre in piedi, non s’era mosso di un millimetro, quasi non avesse udito nulla; eppure si trovava a un metro dall’inginocchiato. Che fosse sordo? “Jataveshtitaka: quando una donna aggrappandosi a un uomo come un rettile all’albero, attira la testa di lui verso la propria nell’intento di baciarlo, ed emettendo un leggero suono come ‘Sutt, sutt’, lo abbraccia e lo guarda con amore, questo si chiama, l’allacciamento del rettile”. Trasecolai. Io mi diletto di letteratura religiosa orientale e capii, senza dubbio alcuno, che quello stava leggendo ad alta voce, su una tomba in un cimitero, il Kama Sutra, un trattato erotico che tratta dei doveri tra marito e moglie, conforme alle prescrizioni delle leggi di Manu. Non appena potei mi avvicinai all’uomo in piedi, non sperando quasi di riscuoterlo dalla sua apatia. -Mi scusi, - lo apostrofai – non le sembra blasfemo quanto sta leggendo il suo amico in questo luogo? Si voltò lentamente, quasi avesse paura di far crocchiare le vecchie ossa del suo collo avvizzito e dopo avermi squadrato, facendo roteare le pupille dall’alto in basso e senza muovere ciglio, rigirò il capo verso il lettore e rispose: -Premetto che il signore non è mio amico, bensì gradito cliente del mio studio e inoltre preciso che quanto lei vede non è ludibrio a Santa Romana Chiesa, né sacrilegio in luogo sacro, ma solo un semplice dovere che costui è destinato a compiere ogni domenica e io a verificarne l’esecuzione. D’altronde – proseguì – il Kama Sutra è un libro religioso indiano, scritto dal saggio Vatsyayana Mallanaga. Solo gli ignoranti – terminò, dopo aver nuovamente girato il collo verso di me - possono ritenerlo un’opera immorale. -Non mi dirà, però, - ribattei accennando al grasso che, alzatosi in piedi e rinchiuso il libro, s’era appoggiato alla lapide e accennava con voce appena appena udibile una canzonaccia da caserma – che quella sia un’ode altamente morale, no? Se il suo cliente è pazzo se lo porti via e lo faccia almeno ricoverare. -Impossibile, signore, e la prego non faccia scandali. -Ah, perché sarei io a dar scandalo?- sbottai arrossendo violentemente, e, alzando la voce – Badi che… -Si calmi, la prego, le spiegherò. Ma si calmi, e lei continui!– fece con accento perentorio, rivolto all’altro che s’era interrotto e ci guardava con un faccione tra il meravigliato e il risentito. – Io spiegherò al signore come stanno le cose, sempre che lei me lo permetta. -Ma sì, ma sì, glielo permetto, glielo spieghi pure, dica a tutti che razza di sciocco cammina sotto il sole. Ah, l’hai pensata bella tu! – concluse agitando il pugno all’indirizzo della fotografia incollata sulla lapide. Il faccione di un uomo rubicondo, ridente che sembrava se la godesse un mondo a vedere la scena. -Deve sapere - prese a spiegare sottovoce l’uomo vestito di nero – che io sono un notaio e fui io a prendere le ultime volontà del defunto, il commendator Borghi. Uomo valente, sa! Ed esemplare amministratore di quanto suo padre e suo nonno gli avevano lasciato. Dopo aver raddoppiato, ma che dico! Quadruplicato il capitale, ritenne opportuno ammogliarsi e mettere su famiglia. Sa, com’è! Obblighi di società, ricevimenti… che vuole, senza una moglie al fianco non s’è stimati. Adocchiata, quindi, una signorina assai più giovane di lui, una impiegata della sua azienda, fidanzata con un ragioniere, anche lui della ditta Borghi, tanto fece e tanto disse che l’impalmò. In quel tempo non conoscevo il commendatore e non posso quindi sapere che cosa accadde nel loro ménage. Quando conobbi il signor Borghi, era già trascorso qualche anno dal matrimonio. Lei, la moglie, la signora Giuditta era, e lo è ancora oggi una bella donna. Né grassa, né magra, alta più del normale, con occhi che sprizzano alterigia, mi diede subito l’impressione che dominasse il marito. Impressione peraltro non sbagliata. Me lo confermò qualche tempo dopo il defunto quando entrammo più in confidenza. -Va là, non lamentarti – gli dissi un giorno sentendolo protestare per alcune tasse. – Sei ricco, stimato, hai una bella moglie, piacente… -Quella, poi, te la raccomando! – prese a dire troncandomi il parlare e vedendo poi il mio stupore, - Sì, è meglio che te lo dica: se non lo dico a qualcuno, scoppio. E poi so che tu non mi riderai in faccia. Tu, voi tutti, credete che Giuditta sia una moglie perfetta, ligia al suo dovere di moglie, Ebbene: tutto sbagliato! -Ti tradisce, forse?- chiesi incuriosito.! -Giuditta tradirmi? – sbottò e poi prese a ridere a tal punto che gli vennero le lacrime agli occhi. - Magari lo facesse!, concluse dopo essersi un po’ ripreso. - Magari ché almeno… -Che dici?”. -Che dico? Lo so io che dico – mi rispose. - Voi, tu e quelli che mi stanno intorno vedete solo l’apparenza della mia vita: vedete l’industriale Borghi, il commendator Borghi, il ricco Borghi. Ma l’uomo, l’uomo Borghi, chi lo vede? Eh, chi lo vede? Quando mi tolgo questa giacca, questa cravatta. Questa… questa apparenza che serve a fare l’industriale, il commendatore, il riccone, che rimane? Eh, che rimane? -Mah! Hai bene tua moglie; c’è pur sempre Giuditta! -Sì. Giuditta la cariatide, Giuditta la legnosa, il Celestino Quinto della mia vita! Ecco che mi rimane. -Caro signore, non le dico la scena. Andava su e giù nel suo ufficio gesticolando e parlando ad alta voce tanto che io temei un istante per la sua salute, Quando si calmò e si sedette, svelò quale abisso di dolore e di rinunce fosse la sua vita. -Tu sei uomo – mi disse – e lo sai quali sono le nostre esigenze. La vita non è solo lavoro, denaro, potere. La vita è gioia, è gioia di toccare, di accarezzare, di stringere tra le braccia e come si lavora ogni giorno e quotidianamente si tocca denaro, ebbene io mi sentivo in diritto… mi capisci? - Ti capisco, -gli risposi, - ma ogni giorno…là! - D’accordo, era solo un paragone. E poi che vuoi, io sono un tipo caldo e dopo il matrimonio, credevo, speravo…e invece niente. Il gran rifiuto o meglio la lunga serie di gran rifiuti. “Ti debiliti, marito mio – mi diceva. – Una volta al mese basta. In quaresima niente. Si deve fare astinenza, digiuno. Ma non preoccuparti: ti farò dei segni sul calendario”. Capisci? Dei segni sul calendario, nemmeno fossero cambiali a scadenze fisse. -E tu non ti ribelli? – gli chiesi. Ricordo che mi guardò un poco, poi, aggiunse: - L’hai presente Giuditta? - Sì – risposi pensando a quella specie di virago e non insistetti. Il notaio stette per un poco a guardare l’uomo grosso che continuava a parlare rivolto alla foto della lapide. -Probabilmente, - insinuai, per riallacciare il discorso, - la signora Giuditta aveva altri sfoghi, se non sbaglio lei mi ha detto che prima di sposarsi aveva un innamorato. -Sbaglia, signore – riprese il notaio – sbaglia come sbagliai io allorquando le posi la stessa domanda. -Giuditta tradirmi! Dio lo volesse! - aveva concluso il commendatore Passarono alcuni anni e non mi si presentò più l’occasione di parlare di queste cose col Borghi. Lo vedevo ad intervalli più o meno lunghi per ragioni d’ufficio, e mi accorgevo che ogni volta deperiva sempre più, che si consumava come un lumicino, Forse per il lavoro pensai, Un giorno fui chiamato d’urgenza nella sua villa, al suo capezzale. L’avevano trasportato svenuto dall’Ufficio e, non appena ripresosi m’aveva mandato a chiamare. -Amico mio, è finita. Sento che di qui non mi alzerò più. Ha vinto lei, quella vipera mi ha distrutto. -Come, sempre rifiuti? -Sì, sempre rifiuti e vigilanza oculata affinché non anticipassi le scadenze… presso altre ditte – celiò sorridendo appena. – Poveretto!, aveva ancora la forza di scherzare. – Ho tentato di tutto; figurati che ho persino richiamato dalla mia succursale di Montecatini quel ragioniere con cui era fidanzata prima che la sposassi. Pensavo che forse lui l’avrebbe sgelata. Macché, di ghiaccio era e di marmo è diventata. Ed io che ero così assetato, così… - Ricordo che con le mani, mentre mi parlava, andava palpeggiando le coperte e guardava fisso davanti a sé quasi vedesse Venere nuda sorgere dalla spuma del mare. -Ma mi vendicherò, vedrai se mi vendicherò!! Hai con te l’occorrente per stendere un testamento? - Sì, - feci. -Bene, allora scrivi – e mi dettò il più strano testamento che io avessi mai stilato. E quelle che vede sono le conseguenze – mi disse additandomi il suo cliente che si era avvicinato a noi. Ora glielo racconterà lui. Il grassoccio mi tese la mano e si presentò. -Permette, Corti, ragionier Corti. Io sono il successore – aggiunse subito, ancor prima che mi presentassi – il successore di quello lì, - concluse indicando l’effigiato che sorrideva. Il notaio le avrà già accennato al precedente fidanzato di Giuditta: quello ero io! Lei non sa, e forse il notaio nemmeno, quanto io abbia sofferto quando Giuditta mi lasciò per sposare il Borghi. Chiesi il trasferimento e il Borghi mi mandò a Montecatini. Alcuni anni dopo fui richiamato in sede e fu proprio il Borghi a mettermi a capo di tutta l’azienda. Direttore generale. Ricordo che con me si comportò in modo strano. Mi invitava ogni giorno a casa sua; mi tratteneva a pranzo e a cena; mi lasciava spesso solo con sua moglie. Arrivò persino a propormi di venire ad abitare nella loro villa. -E Giuditta? - lo interruppi. -Giuditta? Niente. – Al primo vederla mi era venuto un tuffo al cuore e il sangue mi era salito alla testa. Lei era rimasta impassibile. Sembrava che non si ricordasse più di me. Io, invece, me ne innamorai subito o per meglio dire l’antico amore riarse. In fondo non si era mai spento – aggiunse con un sospiro. E poi venne il testamento. Guardi, me lo ricordo parola per parola come se l’avessi letto ieri. Morto il Borghi, fummo chiamati dal notaio: la Giuditta, io e alcuni lontanissimi parenti. Dica, dica lei, notaio che bel testamento aveva sottoscritto il commendator Borghi! Il notaio che era rimasto in silenzio ad ascoltare il ragioniere, schiaritosi la gola con un “Ehm! Ehm” discreto per non disturbare i sonni eterni, prese a recitare con voce professionale: - “Io, Borghi Luigi, nella pienezza delle mie facoltà mentali, fatto salvo quanto stabilito per legge, voglio che tutte le mie sostanze, beni mobili ed immobili (vedasi l’allegato elenco) vadano al ragioniere Mario Corti, direttore della mia azienda, a condizione che ottemperi alle clausole sottocitate: 1) Sposi, sempre che lei sia consenziente, la mia vedova Giuditta Sensi in Borghi; 2) Si rechi ogni domenica mattina sulla mia tomba e, in presenza di un notaio, legga ad alta voce alcuni passi del Kama Sutra; racconti le ultime barzellette oscene che sarà riuscito a scovare durante la settimana e canti qualcosa di originale e spinto. Tutto ciò affinché il mio spirito possa finalmente godere di tutto ciò che la vita ha tolto al mio corpo. Qualora il nominato Mario Corti venga meno alla seconda clausola, dichiaro nullo il lascito a suo favore e tutti i miei beni andranno all’Istituto ecc. ecc,. -Ora ha capito egregio signore perché ci troviamo qui? -E pensi, - intervenne il ragioniere – che io sono alieno a raccontare barzellette di tal genere. Si figuri il mio stato d’animo quando vedo gente vicino alla tomba del compianto. Non le dico la vergogna! C’eravamo intanto avviati verso l’uscita del cimitero discutendo quello strano desiderio del defunto. In fondo, considerando ogni cosa, la ricchezza per il ragioniere e la disgraziata vita sentimentale del commendatore costretto, suo malgrado, alla parsimonia, la cosa finiva per assumere un certo sapore logico. -Mi scusi, signor notaio, - feci preso da un dubbio – ma la validità del testamento non poteva essere impugnata? Mi pare che la legge preveda che nelle disposizioni testamentarie si considerano come non apposte le condizioni impossibili e quelle contrarie alle leggi o al buon costume. -Esatto, articolo 849 del Codice di Procedura Civile –sentenziò il notaio battendosi un dito sul naso. – Ma, vede, essendo il Borghi privo di discendenti diretti l’unica ad impugnare il testamento avrebbe potuto essere la moglie. Ma che vantaggio ne avrebbe avuto? Nessuno! Privando il ragioniere dell’eredità Giuditta avrebbe perso tutto. Accettando, invece, di sposarlo non avrebbe minimamente mutato condizione sociale. In fondo avrebbe cambiato solo il marito. Ne conviene? – concluse stropicciandosi le mani. – Quanto poi alla condizione imposta – riprese dopo un po’ di silenzio non c’è nulla di strano. V’è un articolo che prescrive che sono valide le disposizioni a favore dell’anima e si considerano come un onere a carico dell’erede. Oltre a ciò il testatore può designare una persona che curi l’esecuzione della disposizione. Ecco perché lei ci vede qui entrambi. L’unica obiezione che si potrebbe fare verte sul fatto del buon costume. Ma, caro signore, di questi tempi quali sono i limiti del buon costume? Una cosa riprovevole per uno, è ritenuta innocua da un altro: tutto dipende dai punti di vista. Durante tutto il nostro discorso, il ragioniere se n’era stato in silenzio ad ascoltare e a cercare di adeguare i suoi corti passettini con quelli militareschi e decisi del notaio e con la mia lunga gambata. Si vedeva chiaramente che lui, di quelle passeggiatine domenicali ne avrebbe fatto volentieri a meno e gli sarebbe piaciuto poltrire a letto sino a tardi. -Quindi, lei ha sposato la signora Giuditta – gli chiesi. -Sì, la sposai qualche tempo dopo – mi rispose dopo un attimo di indecisione. – Ma, caro signore, com’era mutata. Io l’avevo conosciuta signorina e adesso che la vedevo donna e vedova non sapevo capacitarmi del cambiamento avvenuto. E poi… - A questo punto trasse un lungo sospiro che mi fece capire molte cose. -Anche con lei – chiesi indiscretamente – si comporta allo stesso modo? - Non mi dica! Ha ben riassunto la situazione il notaio dicendo che Giuditta non ha cambiato condizione sociale: ha solo cambiato marito e basta! Il resto è rimasto immutato. Ah, se avessi saputo. Pazienza! Lui, - fece un vago cenno indietro con la testa – lui ha trovato il suo sfogo con questa buffonata che mi fa fare ogni domenica, ma io ho trovato di meglio. Quando morirò non vorrò canti sulla mia tomba o letture oscene, ma danza di odalische nude! Eh, sì, caro il mio notaio. – fece categoricamente, scostando il braccio del leguleio che tentava di calmarlo – E se non mi si permetterà di farlo, mi farò turco! Almeno quelli nell’al di là hanno le urì. E ci precedette gesticolando, rosso in viso, mentre la gente lo guardava stupita e una vecchietta sorda, nel vederlo passare, mormorò: -Poverino, chissà che gran vuoto nella sua vita!
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