TONIO E GENIO

 

- Chi l’avrebbe detto, Marietta, che il mio secondogenito sarebbe cresciuto così tranquillo! Ti ricordi il mattino in cui nacque? C’era un mare da far paura al solo vederlo. Da vent’anni dicevano gli anziani non s’era veduta una tempesta simile. Molti pescatori, poveretti, erano fuori da due giorni con le loro barche e tutte le donne se ne stavano sugli scogli in attesa di vederli tornare. Te lo ricordi?

- Oh se me lo ricordo! È stato quando  la barca dei Busi non è più tornata. C’era il Busi e i suoi due figli e non se n’è più saputo nulla. Nemmeno i corpi sono riusciti a trovare. Povere anime!

 Le due donne, sferruzzando, sedute su un panchetto di legno incastrato nel muro di una casa a un solo piano, in prossimità del porticciolo, volsero gli occhi verso il mare per poi soffermarli su un gruppo di pescatori intenti a cucire le reti stese al sole.

Se in quel borgo, aggrappato alle rocce strapiombanti sul mare esisteva una madre felice di aver generato un figlio buono e tranquillo, quella era Antonia e quel figlio era stato per lei una vera consolazione. Piccola ma in carne, con la pelle rossa che si  incupiva non appena il sole la riscaldava un poco, i capelli ispidi che mal sopportavano la carezza del pettine, s’era legata giovanissima ad un uomo un po’ rude il quale  non aveva tardato a trattarla come una delle tante cose di cui aveva bisogno.

Giò, il marito, non si poteva certo definire un sentimentale. Cresciuto a contatto col mare e vissuto sempre a bordo delle barche da pesca sin da quando aveva imparato a star ritto sulle gambe, era diventato a poco a poco salato come gli spruzzi che lo bagnavano di continuo e coriaceo come certi pesci strani i quali talvolta venivano su dalle profondità marine per impigliarsi nelle reti.

Antonia aveva anche un altro figlio, il primogenito il quale si era preso il carattere del padre. Quando  la donna se n’era accorta, aveva segretamente giurato a se stessa  di non metterne altri al mondo. Ma quando, dopo molti anni, si era ritrovata incinta, i suoi giuramenti se n’erano andati in fondo al mare, più veloci di un’ancora lasciata cadere da una barca.

Ed era nato Tonio.

Tonio, col passar degli anni, contrariamente al primo figlio, non l’aveva delusa. Calmo, riflessivo, tranquillo, era cresciuto all’ombra di un padre collerico e di un fratello di quindici anni più vecchio di lui, sempre pronto ad attaccar lite e di umore mutevole. Ma né la furia paterna, né il carattere bisbetico del fratello avevano saputo far presa su di lui.

Fin da bambino aveva incominciato a frequentare la piccola chiesa del borgo per tener compagnia a don Pippo. Lo seguiva di continuo per spiarne ogni movimento specie quando si apprestava ad esercitare il suo ministero, e gli stava a tal punto attaccato alla sottana che poco mancava lo seguisse pure nel confessionale.

Era qualcosa più forte di lui. Tonio si sentiva attratto da quell’aura di mistero che circondava ogni cerimonia sacra, dalla magia che sembrava trasudare da quell’uomo paludato in abiti fuori dall’usuale. Lo attraevano le parole sibilline, incomprensibili, pronunciate da don Pippo in una lingua strana, attinte da un piccolo libro dalla copertina nera con una scritta dorata, custodito accuratamente in una tasca. Ed ancor più lo affascinavano le formule misteriose, accompagnate con ampi gesti delle mani, pronunciate cantando durante la Messa, davanti all’altare illuminato da alcune candele dalla luce tremolante, adorno di fiori. Cantavano anche i presenti, ma ne era sicuro; la maggior parte – come lui d’altronde – non capiva le parole pronunciate in una lingua diversa dalla loro.

Un giorno Tonio – aveva da poco compiuto dodici anni – si era rivolto al  prete chiedendo:

- Don Pippo, con chi parla quando sale all’altare?

E don Pippo, che da tempo aveva osservato l’assiduità del giovane Tonio alle funzioni religiose e notato che la sua presenza in chiesa si prolungava oltre il normale, si era seduto su una panca e nella penombra dorata delle chiesa, solcata dai raggi del sole che penetravano da una finestra e nei quali danzava un pulviscolo dorato, in quell’irreale silenzio rotto a tratti dallo sciabordio delle onde, gli aveva illustrato con parole semplici il mistero della messa, l’importanza della Confessione e anche la ragione per cui non gli aveva mai permesso di seguirlo nel confessionale.

Tonio rapito, a bocca aperta, era stato ad ascoltarlo, anche se aveva capito molto poco.

 A Giò quelle frequenti visite al prete piacevano poco. Cercava ogni pretesto e sfruttava ogni appiglio pur di tenere il ragazzo lontano dalla chiesa e la soluzione più semplice era stata quella di portarselo sempre appresso quando usciva con la barca

- Se lasci una castagna troppo a lungo sul fornello, alla fine scoppia – sentenziava rivolto alla moglie cui, invece, non piacevano le frequenti uscite del figlio in mare.

- Ti dà tanto fastidio se va sovente in chiesa? Lo vedresti meglio frequentare le osterie come suo fratello? – ribatteva con malagrazia Antonia. Anche tu te ne vai a volte al Santuario di Nostra Signora del Monte, quando…

- Bella scusa!  Brontolava il marito interrompendola, - io ci vado… ci vado perché…

- Te lo dico io il perché!  Perché anche tu, mangiapreti, fai spesso dei voti e delle promesse quando te la vedi brutta e il mare brontola sotto la barca. Ti secca ammetterlo, eh?  Se  tu ti vergogni ad  andare in chiesa, lascia almeno che ci vada spontaneamente tuo figlio.

Era pacifico, qualunque fosse l’umore del marito, Antonia non mollava di un pelo e alla fine aveva sempre la meglio quando era in discussione l’argomento Tonio. Segretamente, come la maggior parte delle madri vecchio stampo, la donna viveva nell’illusione di avere un figlio prete e le abitudini del ragazzo la lasciavano ben sperare, anche se, a dodici anni, la cosa per Tonio rappresentava solo un gioco.

Infatti, col passare egli anni, la vocazione, quella vocazione che sia l’Antonia, sia don Pippo avevano atteso e sperato di veder maturare come un bel frutto da un seme caduto in zolle fertili, non si era manifestata. Tonio, comunque, col suo carattere chiuso e poco espansivo allontanava i coetanei  e viveva relegato entro una sfera vuota di amicizie. Così aveva continuato, pur col passare degli anni, a frequentare la chiesa e don Pippo.

Quando poteva allontanarsi dal porticciolo e dalle reti o quando soffiava forte il libeccio e il mare si incurvava minaccioso innevandosi tutto e costringeva le barche a rimanere in secco, Tonio si rifugiava tra le mura della chiesa e se ne stava per ore e ore a guardare gli andirivieni del prete e del sagrestano o a fissare l’esile tremolar d’una fiammella incurvarsi veloce non appena una porta aperta lasciava passare un refolo di vento.

Altre volte se ne stava in compagnia del prete nell’orto attiguo alla parrocchia e lì, in quelle tre fasce di terra strappata al monte e trattenuta da muretti a secco strapiombanti sul mare, aiutava don Pippo a tracciar solchi o ad innaffiar  roseti. Di tutto il paese era forse quello l’unico punto in cui si sentiva a suo agio. 

Nessuno prima di lui in famiglia aveva mai provato il piacere di frantumare una zolla di terra, di sentirne il solletico tra le mani mentre i bruni frammenti sfuggivano tra le dita semiaperte e neppure aveva mai goduto alla vista di un sottile filo d’erba farsi strada faticosamente tra i sassi per conquistare la luce e il calore del sole. 

Lì, invece, tra quelle tre fasce dove il soffiar del vento  portava gli spruzzi salati, poteva assistere a quel miracolo senza mutar l’ambiente in cui era nato e vissuto. Il mare era pur sempre a due passi, presente, pronto ad ogni istante a mormorargli negli orecchi la sua canzone infinita. Se qualcuno in uno di quei momenti gli avesse chiesto che cosa, secondo lui, stava alla base del creato, Tonio, novello Talete, avrebbe risposto: prima di tutto il mare e poi la terra.

E questa unione l’aveva avvertita molto presto e aveva tentato anche di renderla tangibile, visibile a tutti.  Ricordava ancora il giorno in cui suo padre, calando le reti in mare, aveva scoperto a prua dietro un barattolo di pece semindurita un vasetto pieno di terra da cui spuntava un esile fiorellino quasi avvizzito per essere stato troppo a lungo senz’acqua ed esposto agli spruzzi salati.

- E questo cos’è? – aveva chiesto il pescatore prendendo il vaso tra le mani e, rigirandolo incuriosito, aveva aggiunto: - Ce l’hai messo tu?

Il giovane non aveva fiatato e il vaso, compiuta un’ampia traiettoria, era sparito tra le onde.

Tonio, sopra ogni cosa, amava andarsene a zonzo per il mare sulla barca paterna, cullato dal fruscio del vento nell’unica vela e dal beccheggio che la maretta imprimeva a quel panciuto guscio di legno “che, sacramento, m’è costato sangue e fatica!” era solito dire suo padre con fierezza.

 Meno, invece, gli garbava dover chinare la schiena sotto lo sforzo dei remi e sentire le giunture scricchiolare, le orecchie fischiare e bruciare gli occhi quando il sudore salso scendeva copioso dalla fronte. Ma né lui, né il fratello e tanto meno il padre seduto a poppa, con la barra del timone  tra le mani, i capelli brizzolati sparsi al vento, mostravano di risentire la fatica o le brusche impennate della barca un poco sguincia la quale si avventava tra le onde come un cefalo innamorato.

La ‘Tonia’, nome col quale Giò in un raro momento di buon umore aveva battezzato la barca, onorando così in un sol colpo la moglie e il figlio più piccolo, usciva spesso in mare aperto e si spingeva al largo, sempre più al largo da quando le scorie e i rifiuti dei cantieri e delle fabbriche avevano allontanato i pesci dalla riva. Rabberciata qua e là com’era, pareva un miracolo se si reggeva tra le onde, ma Giò, al ritorno da ogni viaggio la ripuliva e la controllava a palmo a palmo e poi la tirava in secco con cura, spingendola sugli scivoli abbondantemente ricoperti  di grasso e cercando di sistemarla a ridosso di un gruppo di scogli, al riparo sotto una tettoietta di lamiera. Per amore della pesca e del poco guadagno, si sobbarcava, senza minimamente lamentarsi, a quelle cure continue e assidue, sordo ai brontolii del figlio maggiore il quale avrebbe preferito andarsene per osterie o dalla morosa e ai frizzi salaci che, bonariamente, gli altri pescatori gli lanciavano, ridendo alle sue spalle.

- Ridete, ridete pure, o grulli, tanto la mia barca io me la godo già da anni.

- E chi lo mette in dubbio?  - gli rispondeva qualcuno. – Pensi forse di nascondere le toppe nella chiglia?

- Toppa ben riuscita, barca quasi nuova, - rispondeva invariabilmente Giò. Tra tutti i suoi difetti aveva anche quello di inventare proverbi lì per lì e di sputarli fuori con prosopopea salomonica.

Comunque, critiche a parte, tranne i giorni in cui il barometro scendeva oltre i limiti di guardia, si poteva vedere all’orizzonte la vela rossastra della ‘Tonia’ apparire e scomparire come la pallina di un tiro a segno danzante in cima ad uno zampillo d’acqua.

- Non ti allontanare troppo, Giò, - si raccomandava Antonia vedendolo spingere la barca sugli scivoli ricoperti di grasso.

- Chi si tiene sottocosta non piglia pesci, donna! – sbuffava dando un ultimo strattone per spingere la barca ed entrando nell’acqua sino alle ginocchia.

Giò conosceva i fondali dove calare le reti e dove i sugheri, appena gettati non tardavano a scomparire uno dopo l’altro sotto il pelo dell’acqua. Tonio in quei momenti, guardando le onde che li inghiottivano, immaginava di aver contribuito a seminare in compagnia del padre e del fratello tanti piccoli semi, l’uno vicino all’altro, in quella distesa verde come erba novella. E attendeva con impazienza di veder spuntare  dai solchi delle onde l’argento dei pesci .

Il tirar su le reti era per il giovane un rito magico, un poco simile a quello compiuto da don Pippo in chiesa. Là i gesti del sacerdote erano sempre gli stessi e l’oro dei paramenti e del calice, l’argento della patena e dei candelieri, risplendevano alla luce delle candele, conferendo alla cerimonia un alone di purezza da cui uomini e cose venivano avvolti. Qui era lo stesso: suo padre, ritto nella barca, con gesti misurati e sempre uguali, resi monotoni dal continuo ripetersi, strappava dalle profondità di quel campo ceruleo, da quei solchi in   perpetuo movimento, la rete grondante che, lasciate cadere perle di luce, si ammucchiava sul fondo ordinatamente e lasciava trasparire dalle maglie il brillìo  argentato delle squame e il guizzo estremo dei pesci boccheggianti. Anche lì la luce del sole, resa più viva dalla mancanza di ombre, fasciava tutto, purificando uomini e cose. Solo in quei momenti Tonio vedeva suo padre ridere contento di quell’abbondanza e non si stupiva  se durante il ritorno a terra si metteva a canticchiare, stonando per lo sforzo cui i remi lo costringevano. Se poi, all’imbrunire, la brezza gonfiava la vela come la gonna di una fanciulla e faceva scarrocciare la ‘Tonia’ che procedeva faticosamente con la pancia piena di pesci, allora, seduti a poppa, i due fratelli e il padre tacevano e guardavano la linea scura della costa avvicinarsi, i primi lumi delle case ammiccanti l’un l’altro e le altre barche, simili ad uccelli sparsi alla rinfusa nell’azzurro, dirigersi veloci verso il porticciolo.

Talvolta lo spettacolo si svolgeva alla rovescia sotto gli occhi sempre attenti del giovane e ciò avveniva quando, d’estate, la barca partiva al tramonto con la lampara a prua e puntava al largo. La linea della costa appariva allora come una massa scura, punteggiata qua e là da di luci vive, un  profondo buio costellato di vaghe stelle, sempre più vaghe ed evanescenti quanto più si allontanavano dalla riva.

Sì, se c’era uno ad amare il mare in modo disinteressato, completo, quasi religioso, questo era Tonio.

 Ma non era il solo.

 Genio lo amava forse di più.

 Ma nessuno se n’era mai accorto.

 

 

Chi fosse Genio e se Genio fosse il suo vero nome  nessuno l’aveva mai potuto svelare.

Magro come un chiodo, con la testa oblunga su cui spuntavano radi capelli, irti come setole e sempre scomposti, senza un’età definita o definibile, era capitato in quel borgo marino da chissà dove e col beneplacito di don Pippo si era sistemato nell’orto della parrocchia, rabberciando alla meglio una di quelle minuscole costruzioni dove i contadini sono soliti conservare gli attrezzi. Il prete e il sindaco, più per curiosità che per necessità o interesse, avevano fatto ricerche l’uno chiedendo notizie nelle vicine parrocchie, l’altro presso i carabinieri, senza venire a capo di niente.

Di chiederlo direttamente all’interessato non se l’erano sentita. Genio, di carattere oltremodo ombroso, taciturno e diffidente non avrebbe risposto e poi perché nulla avrebbe potuto dar credito alle sue parole, qualora fossero riusciti a farlo parlare.

Genio non parlava quasi mai. Genio era un puro di cuore. Insomma, Genio era un idiota.

La gente, dopo la sua comparsa in paese e dopo averlo visto aggirarsi col naso per aria tra i carruggi appesi ai fianchi del monte, dilavati dalle piogge, resi lisci e lustri, aveva fatto presto  a classificarlo non tanto in base ad una equa valutazione dei suoi riflessi o dell’intelligenza, quanto piuttosto per togliere quella nomea di idiota poco gradita che sino ad allora era stata appannaggio di uno nativo del borgo. In compenso gli avevano dato il nome di Genio.

È singolare come ogni paese debba quasi per forza avere il suo idiota, così come ogni campanile la sua banderuola. Ciò diventa indispensabile là dove la mentalità comune della gente è di bassa levatura e sente il desiderio di classificare gli individui. Per forza di cose uno di essi dovrà occupare l’ultimo posto così gli altri potranno sempre pensare: “Non sono io l’ultimo. C‘è ancora qualcuno dietro di me.”

Genio era l’ultimo ma non se ne curava: se mai, qualora avesse ragionato su quella posizione facilmente conquistata, se ne sarebbe rallegrato perché il possedere un idiota costava a tutto il paese l’onere del suo mantenimento e della sua conservazione per evitare, qualora se ne fosse andato o fosse scomparso, una nuova elezione poco gradita e di difficile soluzione.

Genio, quindi, viveva della carità altrui: carità per modo di dire perché mostrava di possedere una certa qual  vigoria per cui il cibo e gli abiti smessi che gli venivano rifilati, erano da lui ripagati con altrettanti lavori svolti nel  porticciolo agli ordini ora di questo ora di quel pescatore.

- Genio, porta quelle cassette sul camion.

- To’, Genio, questi remi vanno riposti nel portico.

- Ehi, Genio, se non sbaglio sai anche cucire le reti. Dammi una mano a rammendare queste? E bada di ricucire tutti gli strappi.

L’idiota, senza rispondere, portava le ceste, riponeva i remi, rammendava le reti. Nessuno però aveva mai pensato di portarlo in mare, sulle barche da pesca, quantunque lui lo desiderasse ardentemente. Finché si trattava di avvalersi del suo modesto contributo a terra nessuno aveva scrupoli. Ma in mare no!

Il mare non va per gli idioti.

Genio, invece, amava il mare e aveva orrore della terra.

Quando don Pippo gli aveva chiesto, alcuni giorni dopo la sua comparsa in paese, di aiutarlo a zappare l’orto  e a bruciare un mucchio di sterpi e di foglie, l’uomo l’aveva guardato con occhi sbarrati dal terrore e, mugolando come un animale ferito a morte, era fuggito verso il porticciolo a nascondersi tra gli scogli.

- Che gli ha preso? – aveva chiesto don Pippo alla Perpetua presente alla scena. – Gli ho solo chiesto di zappare e di dar fuoco a quel mucchio di erbacce…

- È uno scemo, don Pippo, scemo come una rapa. Non si cava sugo da una rapa?

Da quel giorno se uno voleva divertirsi alle spalle di Genio, bastava che accennasse ai solchi, alla terra o al fuoco perché il povero idiota atteggiasse il viso alla paura e all’orrore o mormorasse parole sconnesse e se ne fuggisse poi verso il mare.

- Quello ha capito l’antifona, - sentenziò un giorno il medico, seduto ad un tavolino fuori dell’osteria,  da dove aveva assistito al ripetersi della scenetta. – Voi lo credete un idiota e forse lo è. Voi vi divertite alle sue spalle, e lui vi lascia fare. Asseconda il vostro gioco, tanto sa di essere ripagato con qualche bicchiere di vino. In fondo se lo deve guadagnare, non credete?

Nessuno però riusciva a spiegarsi l’attaccamento, la passione di Genio per il mare. Genio viveva per il mare anche se a causa del timore altrui ne veniva escluso e se, di conseguenza, era costretto a vivere ai suoi margini. Nelle giornate di libeccio, quando il vento faceva il diavolo a quattro prendendo d’infilata i carruggi, le viuzze lastricate e i porticati, miagolando come un gatto in amore e tutto sollevando e sbattendo, e quando le onde si abbattevano con forza contro gli scogli con sordi boati, ammantando ogni cosa di schiuma, si poteva trovare Genio seduto sullo scoglio più alto,  inzuppato fino alla pelle dagli spruzzi salati che gli turbinavano tutt’attorno e circondato da un ribollire minaccioso.

- Genio, che fai! Vieni giù da lì! – gli urlava qualcuno. – Pazzo, bestia! Se cadi in acqua non t’aspettare che ti si ripeschi.

L’idiota faceva finta di non sentire o non sentiva affatto. Immobile, simile ad un eremita in estasi, con gli occhi fissi, perduti chissà dove  e la mente (quella strana mente!) piena di vaghe  fantasie e di ricordi sbiaditi, rimaneva lassù… statua di carne, a dominare l’urlo dei venti, il frastuono del mare, il rauco grido dei gabbiani.

- Quello a volte mi fa paura! – aveva esclamato una volta una donna mentre, stretta nel suo scialle, con le mani sui fianchi, guardava l’idiota, rivolgendosi ad gruppetto di donne dalle ampie gonne gonfiate dai buffi del vento, simili a mostruose giare nere.

Ma Genio non faceva paura e non l’aveva mai fatta a nessuno, neppure quando era vissuto altrove, in un altro ambiente e quando il suo nome non era Genio

Forse l’ultimo a menzionare il suo nome vero e a parlare di lui come di una persona normale era stato un ragioniere trovatosi un giorno in un’osteria di Alba a mangiar tartufi in compagnia di alcuni amici là convenuti per un raduno di ex partigiani.

Attorno al tavolo profumato e fumante per i cibi appena tolti dai fornelli, col volto arrossato per il generoso barbera, ognuno aveva voluto ricordare agli altri, ma ancor più a se stesso, qualche episodio di quel lontano inverno a cavallo fra il quarantaquattro e il quarantacinque, qualche episodio rimasto sepolto perché… perché ci si dimentica facilmente che c’è stato un inverno tra il quarantaquattro e il quarantacinque…

- To’, ora che ci penso: chissà che fine avrà fatto Michele! – esclamò d’un tratto il ragioniere.

- Quale Michele? Il Tancredi? – gli chiese uno.

- Ma che Tancredi! Tancredi era il soprannome di Coletti… Coletti quello che fa il salumiere a Cuneo. Io parlo di quel Michele che venne con me e il Nardini per compiere un’operazione di disturbo contro i tedeschi. Bell’operazione fu quella! Per poco non ci rimettevo la pelle. Oh, a pensarci sembra ieri!

- Dai, raccontacela – fece uno versandosi da bere dalla grossa fiasca troneggiante in mezzo al tavolo.

Il ragioniere con gli occhi lucidi, calvo tranne una leggera aureola di capelli intorno al capo  simile a quella di certe statue di santi portati processione, non s’era fatto pregare. Si era passato in  testa una mano per radunare le idee sparse e poi aveva incominciato:

- Ricordo bene quel pomeriggio. C’era il Nardini, il Michele … ma come accidenti si chiamava di cognome? Be’, me lo sono dimenticato ma non ha importanza… C’era anche il Duca, poveretto, e il quarto ero io. Il capo, quello che avevamo soprannominato il Negriero, ci aveva spediti con un mortaio da 81 e una ventina di granate verso Dolceacqua  col compito di creare un poco di scompiglio intorno all’orfanotrofio e, se possibile, di centrare qualche casermetta di munizioni costruita dai tedeschi in prossimità del cimitero. Il vero scopo di quell’operazione l’ho saputo più tardi dal capo stesso: me lo disse a cose finite. Dovevamo attirare su di noi tutte le pattuglie tedesche in perlustrazione nella zona per lasciare via libera ad un altro gruppo di attaccare un deposito di armi a Pigna. Per farvela breve camminammo tutta la notte e buona parte della mattinata per raggiungere una collina da cui si poteva vedere l’obiettivo. Vi arrivammo stanchi come bestie dato che il Duca, a circa tre chilometri dalla meta, sotto il peso del tubo da lancio, inciampando in una radice, era scivolato giù da un muretto e s’era slogato una caviglia.  Fummo costretti a lasciarlo in un fienile ad aspettarci e ci dovemmo caricare sulle spalle anche il tubo di lancio. Non vi dico le imprecazioni del Nardini; sembrava chiamasse a raccolta tutti i santi del Paradiso per incolparli di quello che era accaduto. Il povero Duca piangeva di rabbia, mentre io cercavo di rabbonire il Nardini e di consolare il, Duca. Ecco quella è stata forse l’unica volta in cui ho visto Michele godersi la scena e ora, rivedendo ancora tutti i particolari, potrei quasi dire che non si divertiva tanto per le colorite imprecazioni del Nardini, quanto, invece, per le sofferenze del Duca… che strano!

Il ragioniere si interruppe un istante e poi riprese:

- Ci trovammo quindi solo in tre a sistemare il mortaio ai piedi di una rupe, dietro una macchia di noccioli dalla quale si riusciva a vedere con chiarezza l’obiettivo. “Dai, Nardini, datti da fare con ‘sto mortaio” - lo incitai. “Più presto facciamo, più presto portiamo via l’anima!” . “E allora  non rompermela e lasciami lavorare”, mi aveva risposto con la sua solita gentilezza.

Il ragioniere ridacchiò, ripensando a quella situazione e poi riprese:

- Michele, sudato come un cavallo dopo una lunga corsa, seduto su un muretto, lo guardava affascinato ma si guardava bene dall’aiutarlo. Quel ragazzo non doveva avere mica tutte le rotelle a posto! Nessuno era mai riuscito a fargli usare il mitra o a lanciare una bomba a mano. Solo il fucile sapeva maneggiare… tra l’altro anche male. Se ne stava a guardare il Nardini. Quello era proprio un patito del mortaio. Era quasi un piacere osservarlo mentre sistemava con cura la piastra, il tubo, il bipiede, controllava l’alzo, studiava l’angolo di tiro, il puntamento e tutto il resto. Qualcuno di voi l’ha conosciuto il Nardini? Se c’era uno che se ne capisse di quegli arnesi, quello era lui. Ci stava magari un’ora a studiarci sopra, ma alla fine potevi essere sicuro che avrebbe centrato il bersaglio senza far forcella. Oh, avreste dovuto vederli quel giorno i crucchi! La prima pillola cascò proprio al centro di un gruppo di camion pieno di soldati. Fuggirono tutti come formiche spaventate. Io osservavo coi binocoli la scena e li vedevo scappare da tutte le parti in cerca di riparo, incuranti dei compagni che giacevano a terra. E poi non ci fu più il tempo di guardare. Uno dopo l’altro la bocca di ferro ingoiò i proiettili e li sputò un po’ dappertutto sollevando nuvole di fumo e di polvere.

   Il ragioniere tacque e si bevve un bicchiere di vino mentre gli altri aspettavano.

- E poi?- lo sollecitò uno pensando che il racconto non fosse finito.

- E poi niente: finito lì. Siamo scappati via come lepri. Ohé, si vedevano le pattuglie giù in fondo valle salire per i sentieri e non avevamo nessuna intenzione di stare ad aspettarle per fare quattro chiacchiere. Nardini e io corremmo a nascondere il mortaio, mentre Michele prendeva da solo la via del ritorno. Nardini gli aveva ordinato di raggiungere il Duca e di aiutarlo a rientrare alla base. Quella è stata l’ultima volta che vidi Michele. Dopo qualche mese mi dissero che gli aveva dato di volta il cervello: ma quello tutto a posto non l’aveva mai avuto. Qualcuno disse che aveva incontrato una pattuglia ed era stato colpito; altri dissero che aveva assistito alla morte del Duca. Mah, chi lo potrà mai sapere! Ne sono capitate di cose in quei giorni… va un po’ a sapere quale sarà stata la sua fine! – aveva concluso il ragioniere, dimenticandosi subito dopo di Michele.

 

           … e Michele, con ancora negli orecchi l’eco degli scoppi e negli occhi le vampate rossastre, simili a enormi papaveri, fiorite attorno all’obiettivo, lasciati i compagni s’era inerpicato per gli aspri sentieri alla volta del fienile dove il  Duca era rimasto ad aspettare il loro ritorno. Ma al fienile era giunto tardi, volutamente tardi.   Era quasi il tramonto quando, a poca distanza dal fienile alcune raffica di mitra non dirette verso di lui, lo costrinsero a buttarsi a terra tra i cespugli attraverso i quali poteva vedere quello che accadeva.

I colpi sparati da una pattuglia tedesca crivellavano la porta e il tetto del fienile dove il Duca si era rifugiato. Dovevano averlo colto di sorpresa e non gli era rimasto altro scampo se non quello di  rintanarsi nel fienile

Vieni fuori di lì – gli gridò da dietro un masso un repubblichino al seguito della pattuglia. – Vieni fuori di lì e non ti sarà fatto niente.

Per tutta risposta il Duca aveva sparato una raffica seminando proiettili attorno al masso.

Purtroppo la posizione dell’assediato era tutt’altro che favorevole. Il fienile era stato costruito a ridosso di una rupe e sarebbe bastato  raggiungere la  sommità per snidarlo. Il Duca lo sapeva, ma sapeva pure quale conto si poteva fare delle promesse fatte, per cui continuò a sparare. Michele lo capì: il suo compagno stava vendendo cara la vita e ci riusciva. Doveva aver colpito qualche soldato tedesco perché si sentivano grida di dolore provenire da dietro alcuni alberi.

Poi dall’alto della rupe qualcuno lasciò cadere una bomba a mano. Un istante appresso lingue di fuoco si alzarono dal tetto andato in frantumi. Michele si augurò che il Duca fosse stato colpito a morte. Ma non fu così.

All’improvviso si vide la porta del fienile aprirsi e uscire una torcia umana. Cominciò a correre senza meta. Era una immensa fiamma impazzita urlante. Urlò a lungo finché non cadde a terra. Tutto attorno i soldati avevano fatto cerchio. Nessuno si decideva a sparare, a dare il colpo di grazia.

I boschi, la vallata ormai buia, nera, funerea, rinviava l’eco delle urla. Anche se si andavano smorzando, continuavano a penetrare a forza nelle orecchie di Michele. Una greve puzza di carne bruciata, simile all’odore  proveniente dagli zoccoli dei muli e dei cavalli quando vengono toccati dal ferro arroventato usato dal maniscalco, l’aveva preso alla gola e l’avrebbe fatto urlare a sua volta se, per la paura di esser scoperto, non avesse affondato la faccia e la bocca nella terra per soffocare ogni suono, se non avesse addentato le zolle secche con la furia d’un cane che si avventa su un osso. Per l’orrore svenne.

Quando, la bocca piena di terra e il volto imbrattato, sollevò il capo, ogni cosa all’intorno taceva. La luna bianco-lattea alta nel cielo riverberava indolente i suoi raggi sui pini e sui castani, vincendo la nebbiolina del sottobosco. Quanto tempo fosse passato non lo sapeva.  Del fienile rimaneva un mucchio nero, informe dal quale si levava ancora del fumo. A poca distanza, per terra, stava un fagotto scuro, accartocciato. Il resto era silenzio.

Michele lentamente, quasi in trance, si avvicinò per vedere e quando vide il corpo del Duca vomitò e poi cominciò a urlare. Ululò nella notte come un lupo, ululò alla luna calma e indifferente e fuggì incurante dei rami, dei rovi che lo urtavano, gli strappavano gli abiti e la pelle, dei sassi che lo facevano incespicare e cadere. Si rialzava, fuggiva, cadeva per rialzarsi e per fuggire nuovamente.

Lo trovarono alcuni partigiani tre giorni dopo, ebete, insensato, farfugliante parole sconnesse. Aveva le tasche piene di piccole bacche nere di cui si era cibato come una capra..

Poi la guerra era finita e Michele, perduta la memoria, era sparito dalla valle e nessuno s’era più curato di lui.

Come certi animali, perduti in pieno deserto, sanno istintivamente dove dirigersi per trovare l’acqua e con essa la vita, Michele, dopo aver preso in odio il fuoco e la terra, quella terra di cui ancora sentiva in bocca l’aspro sapore rimastogli quella notte in cui aveva dovuto morderla per non gridare, si era diretto verso il mare, aveva raggiunto il porticciolo ed era diventato Genio.

 

Tonio aveva sentito parlare dell’idiota appena era giunto in paese. Quell’individuo se n’era stato a contemplare il mare per due giorni di seguito, seduto su uno scoglio che sarebbe diventato il luogo prescelto per le sue meditazioni. Tonio aveva seguito i discorsi della gente, udito le ipotesi sulla sua origine e se n’era disinteressato sino al giorno in cui era intervenuto in sua difesa contro un gruppo di mocciosi.  I ragazzi avevano incominciato a tormentarlo non per cattiveria, ma così, tanto per divertirsi. Gli svaghi in quel borgo marino erano assai pochi.

S’era ai primi di gennaio quando le reti vengono tirate fuori dagli umidi magazzini e l’aria puzza di muffito e di rancido. I carretti carichi all’inverosimile, con i piombi penzolanti, che battendo contro i raggi  ritmavano il cigolio delle ruote, si dirigevano verso la spiaggia dove rovesciavano il contenuto vicino alle alghe ammucchiate sui sassi dall’ultima mareggiata.  Nelle giornate di piena luce, nel sole dal tiepido calore, i pescatori avvolti nei loro maglioni di lana grossa, con berrettini di varie fogge calati sulla nuca o messi di traverso, le stendevano in lunga fila, l’una accanto all’altra per verificare i sugheri e sostituire quelli rotti, per controllare i piombi, le maglie e i buchi fatti da qualche indiavolato pesce.

Tonio, seduto sui gradini della chiesa, aspirando contemporaneamente il salmastro del mare e l’odor d’incenso proveniente dall’altare, guardava beato gli uomini accoccolati a terra, intenti a rifare le maglie rotte, usando grosse aguglie di legno o di osso.

Genio aveva da poco terminato di rammendare una vela e se ne veniva dall’ombra del suo scoglio verso la chiesa, tenendo in mano un tozzo di pane e una casseruola fumante nell’altra: la paga di quel lavoro. Genio non toccava mai moneta.

Era una sua abitudine andarsene a consumare il pasto nell’orto di don Pippo, in una di quelle tre fasce, la più alta, da dove poteva vedere un lungo tratto di costa, tutta seni e golfi, tutta rocce e scogli bucherellati in certi punti e lisci in altri. Non era però la bellezza selvaggia e aspra della costa ad attirare l’attenzione di Genio,  quanto l’ampia distesa azzurra su cui il sole lameggiava e si sbizzarriva in brillii e barbaglii simili a stelle lucenti nel cielo infinito. In quei momenti era inutile chiamare Genio. Non avrebbe risposto.  Occorreva attendere che l’incanto passasse e solo allora l’idiota se ne veniva via con un sorriso di ebete beatitudine sul viso.

Tonio lo guardò mentre gli passava davanti e non s’accorse di alcuni ragazzini dietro di lui.  Il gruppetto, dopo aver parlottato segretamente, s’era sparso ai lati della strada lungo la quale erano state stese ordinatamente le reti. D’un tratto, mentre Genio avanzava senza curarsi dove metteva i piedi, una sagola improvvisamente tesa da due ragazzotti gli si impigliò tra i piedi facendolo rovinare lungo disteso a terra. La casseruola rovesciò il contenuto tra i sassi e rotolò un poco prima di fermarsi. L’uomo rimase disteso a terra, poi, rizzatosi sulle ginocchia, guardò i ragazzi sghignazzanti per la sua faccia imbrattata di sugo.

- Perché? – chiese l’idiota guardandoli stupito.

- Disgraziati, siete peggio delle bestie! – Tonio si era precipitato verso il gruppo menando scapaccioni a chi gli capitava a tiro. In breve sciamarono tutti rifugiandosi nei carruggi da cui spuntavano con le teste ricciute e il volto contento per il tiro giocato all’idiota.

Tonio aiutò Genio a rialzarsi e quello, afferrandolo per le braccia, guardandolo fisso in volto con occhi in cui si leggeva lo stupore, chiese di nuovo.

- Perché?

- Perché cosa?

L’uomo lasciò ricadere le braccia. Si guardò attorno alla ricerca della casseruola, la raccattò e con essa il pane, poi si avviò verso l’orto, voltandosi ogni tanto a guardare Tonio, mormorando: - Perché?

Nessuno avrebbe potuto capire se chiedeva agli altri la ragione della loro malvagità. O se domandava a stesso il motivo che spingeva ancora qualcuno ad interessarsi di lui.

Da quel giorno Genio era  diventato l’ombra di Tonio. Il giovane non poteva muoversi  senza avere  vicino o poco lontano l’idiota. Quando la barca di Giò si allontanava dal porto, Genio la seguiva dall’alto del suo scoglio finché l’ultimo lembo della vela era scomparso all’orizzonte.

- Di’, te lo vuoi togliere dai piedi quelli lì? – gli disse un giorno in malo modo il padre.

Giò mal sopportava quell’attaccamento e ancor più i sorrisetti ironici di compatimento di certi pescatori quando vedevano  spuntare prima il giovane e poi l’idiota. Già il nomignolo di ‘chierichetto’ qualcuno l’aveva affibbiato a Tonio e, volente o nolente, Giò aveva dovuto ingoiarlo per non rendere dura la vita a sé e al figlio, ma ora con quell’ombra sempre appiccicata alle natiche…

- Pa’, cosa ci posso fare se mi segue come un cane! Non fa mica del male, no? È solo un disgraziato.

- Disgraziato a no, se ne stia alla larga! Ricordati: se vai con l’idiota diventi scemo.

Comunque lo stesso Giò si era dovuto arrendere di fronte all’insistenza di Genio. Dopo aver ascoltato il discorso pepato e condito abbondantemente di bestemmie rivoltogli dal pescatore in un impeto d’ira, l’idiota aveva tranquillamente continuato a seguire Tonio come un cane, che pur preso a calci, continua a seguire il suo padrone.

- Pa’ – disse un mattino il giovane – ci sono molte reti da cucire. Come facciamo? Non si trova nessuno per aiutarci.

- Dalle al tuo idiota, così si renderà utile.

Quel mezzogiorno Genio, invece di andarsene secondo il suo solito nell’orto del prete era rimasto accanto a Tonio a sorbirsi la scura, sostanziosa brodaglia cucinata da Antonia. Più tardi, al tramonto, l’aveva seguito in chiesa per l’Ave Maria della sera e, seduto nell’ultimo banco, gli aveva costantemente tenuto gli occhi addosso.

Di fuori, attraverso il portale aperto, si vedevano qua e là sulla spiaggia e nel porticciolo le braci che terminavano di consumarsi sotto le enormi caldaie piene di acqua e tannino in cui le reti messe a mollo finivano di acquistare quel caratteristico colore bruno cupo.

 

Quell’anno l’estate era passata in un soffio e l’autunno si preannunciava oltremodo precoce. Lo si vedeva attraverso le foglie improvvisamente ingiallite dei due unici platani presenti in paese e per il colore giallastro di cui le fasce di don Pippo s’erano di colpo ammantate.

Neri stormi d’uccelli migratori passavano alti sul mare e Giò, ritto nella barca, alzando il capo, imprecava sottovoce nel vederli, incurante degli sguardi del figlio.

- Uccelli che vanno a sud, mare gramo – sentenziava tirando calci contro i fianchi della barca e facendola dondolare.

- Bada, Pa’, se continui a tirar calci rischi di farci rovesciare! – gli fece notare il figlio maggiore.

- Tu pensa a sistemare le ceste. Alla barca penso io.

Il figlio per tutta risposta aveva alzato le spalle.

- Eppure una puntatina verso la Corsica la farei ancora volentieri, - disse Giò la vigilia dei Santi,  mentre controllava la ‘Tonia’ messa a pancia all’aria sulla sabbia. – Conosco un fondale dove le reti, appena le cali,  ti conviene tirarle subito su se non vuoi che diventino troppo pesanti da essere trascinate a fondo.

- Dai, Pa’, sparale meno grosse! – rise il figlio maggiore imitato da un vecchio pescatore seduto lì vicino.

- Non ci credi eh, Giose? – gridò Giò rivolto ad un vecchio intento a riparare con lo spago alcune nasse. – Non ne hai mai sentito parlare?

- Ma sì, ne ho sentito parlare, però non conosco il posto. Non ci sono mai stato.

- Guarda, io il posto ce l’ho davanti come quel faro là. Non ti saprei dire come sono i fondali, so solo che i pesci, non esagero, li piglieresti con le mani.

- E allora perché non ci vai tutti i giorni invece di startene nei dintorni a scorticarti la pelle sotto il sole tu e i tuoi figli? – gli rispose il vecchio pescatore biascicando tra le gengive sdentate.

- E chi ci arriva laggiù senza una barca a motore? Barca a remi, tragitto corto, Giose! Se spirasse tramontana all’andata e grecale al ritorno forse potrei tentare.

- Se mi assicuri una buona pesca, ti ci trascino io, Giò: te e quella baracca della ‘Tonia’ – intervenne il Parodi, uno dei pochi fortunati a possedere una barca di oltre dieci metri provvista  di motore.

- Peste chi ci rinuncia! – rispose Giò prendendo al volo la proposta e tendendo la mano al Parodi. – Quando vuoi andare?

Il Parodi rimase un poco soprappensiero, il tempo di valutare la proposta.

- Fra tre giorni, sei d’accordo?

- All’alba mi troverai già in mare.

- Pa’, io non posso venire – intervenne il figlio maggiore. – Lo sai anche tu: devo andare in città al Distretto Militare e se non siamo in tre la ‘Tonia’ non si governa bene, specie quando è sotto carico.

- Non importa, troveremo qualcun altro – si spazientì il padre. Per nulla al mondo avrebbe rinunciato a quella scarrozzata inattesa.

Purtroppo fino alla la sera precedente il giorno fissato non avevano trovato nessuno disposto a sostituire il figlio maggiore.

- Andremo lo stesso noi due, - aveva deciso, guardando Tonio. - Porco Giuda, a quest’occasione non rinuncio, anche se avevo sperato di fare il viaggio di andata in compagnia del Parodi sulla sua barca a motore. Avremmo fatto una lunga chiacchierata. Pazienza, rimarrò con te sulla ‘Tonia’.

Il figlio minore era stato ad ascoltarlo in silenzio. D’un tratto se n’era venuto fuori con una idea improvvisa.

- Pa’, perché vuoi rinunciare alla tua chiacchierata col Parodi; all’andata ci rimarrò io sulla ‘Tonia’… in compagnia di Genio.

Giò aveva guardato il figlio, combattuto tra il desiderio di fare il viaggio sulla barca dell’amico e la preoccupazione di lasciare il figlio in compagnia dell’idiota al governo del suo prezioso guscio. Aveva vinto il desiderio anche perché la ‘Tonia’, legata alla barca del Parodi con una lunga sagola, sarebbe rimasta sempre a poca distanza, a portata di voce e sotto il suo controllo.

All’alba, seduto nella lunga barca a motore, sul banco vicino al timone, guardava la ‘Tonia’ trainata saltellare sulle onde come un delfino. Genio, seduto rigidamente sul banco di prua, con le mani artigliate al bordo, il volto al vento, i radi capelli svolazzanti, guardava fisso davanti a sé.

- Come va laggiù? – gridava ogni tanto Giò tra le pause del discorso.

- Bene, Pa’, bene. Non preoccuparti, è come reggere una piuma – rispondeva Tonio reggendo il timone con mano ferma.

La giornata  non si preannunciava punto bella e Giò quel mattino, mentre la ‘Tonia’ scivolava in mare, aveva esclamato guardando il cielo verso ponente.

- Rosso di mattino, vento sul cammino.

- Un giorno o l’altro quei proverbi ti strozzeranno – aveva ribattuto un pescatore, avviando il motore della barca del Parodi.

- Ci scommetto, - aveva aggiunto un altro pescatore, - trovi persino il tempo di inventar proverbi anche quando dormi!

- Eh, ridete pure, - aveva risposto Giò, insolitamente allegro e facendo uno sberleffo ai due. – Però quelli che invento quando sogno sono i più belli.

- Ma va là, bestione! – era intervenuto il Parodi. – Cosa vuoi più inventare! Piuttosto dimmi: pioverà?

- Stanotte la luna era pallida, quindi qualche piovasco verrà giù, ma acqua dal cielo, sardine nella sciabica – aveva concluso. Era più forte di lui: non poteva rinunciare ai proverbi.

E non aveva avuto torto. Nelle prime ore del pomeriggio, sotto un’acqua che veniva giù a rovesci, le reti della barca a motore e quelle gettate dalla ‘Tonia’ erano venute su gonfie e pesanti. Non si erano mai visti tanti pesci in quella stagione e i pescatori delle due barche avrebbero fatto salti di gioia se il fondo delle imbarcazioni lo avesse permesso. Nessuno in quel momento badava al vento che da ponente aveva cominciato a soffiare con raffiche rabbiose, increspando le onde e facendole alzare sensibilmente. Nel  cielo neri nuvoloni rotolavano e si rincorrevano bassi sul mare.

- Ehi, Parodi, ci conviene rientrare, ‘sto libeccio comincia a mordere un po’ troppo – aveva fatto notare uno dei pescatori.

- Hai ragione, getta il canapo alla ‘Tonia’ e rientriamo.

La due barche si erano avviate faticosamente, facendo l’altalena sulle onde. La ‘Tonia’ piena a metà  pescava fondo e scarrocciava sottovento ad ogni bordata di libeccio.

- Tonio, tiene la barca? – gridava Giò ad ogni istante, vincendo l’urlo del vento e imprecava sottovoce per non essere passato sulla ‘Tonia’ quando ancora era in tempo. Ora con quel mare agitato non era più possibile.

- Sì, Pa’, tiene, tiene – rispondeva il figlio abbrancato alla barra e intento a tagliare le onde alla meno peggio. A che pro dirgli che lo scafo gemeva sordamente sotto il colpi delle onde e cigolava ad ogni strappo del cavo di traino quando, dopo essersi allascato un istante, si tendeva rigido come una corda di chitarra.

- Santa Madonna! – esclamò d’un tratto il Parodi. – Se continua ad imbruttire ci troveremo nei guai noi e quelli là – concluse accennando alla ‘Tonia’. – Giò, sarebbe meglio se alleggerissero un poco il carico.

Il pescatore lo guardò fosco.

- Restituire al mare tutto quel ben di Dio? Mai!

- E allora dagli tuo figlio! – gli abbaiò sul muso il Parodi.

- Cristo! Proprio oggi doveva  soffiare il libeccio? – imprecò e poi, messe le mani alla bocca a mo’ d’imbuto, gridò:

- Tonio, butta a mare un po’ di pesce.

- Ma, pa’…

- Buttali ti dico!

Il giovane prese da sotto il banco di poppa una sessola e la passò a Genio. L’idiota, contrariamente al previsto, era tranquillo anche se un poco impaurito e se ne stava rannicchiato per offrire poca resistenza al vento e per ripararsi dagli spruzzi  sollevati dalla prua quando tagliava le onde di punta.

- Genio, hai sentito? Bisogna buttar via un po’ di pesce. Datti da fare con questa. Io penserò alle ceste.

Senza parlare l’idiota si inginocchiò sul fondo della barca tra i pesci che non si erano potuti sistemare nelle ceste e, in precario equilibrio, prese a buttarli fuori bordo mentre Tonio si incaricava di scaraventare in mare una parte delle ceste già preparate.

Giò dall’altra barca, con gli occhi pieni di lacrime, bestemmiava in cuor suo vedendo quel ben di Dio sparire tra le onde. Solo la ‘Tonia’ ad ogni palata, ad ogni cesta che scompariva sembrava respirare più liberamente e si avventava con impeto sulla cresta delle onde.

Tutto ad un tratto il buio scese di colpo e il mare si fece di pece. Non ci si vedeva nemmeno a soffiarsi il naso. L’unico legame con la barca a motore era il lungo canapo e le indicazioni di Giò, abbrancato a poppa, urlate al figlio.

-Tieni la barra al vento! Non lasciarti vincere dal timone! Taglia le onde di traverso! Cerca di non tuffarti di prua!

Tonio eseguiva come poteva e ad ogni colpo di vento un poco più brusco, mormorava sottovoce:

- Dio, Vergine Santissima, aiutateci, siamo nelle vostre mani! Non abbandonateci!

 Genio taceva. Accoccolato sul fondo della barca, aggottava di continuo l’acqua che si accumulava ad ogni ondata. All’improvviso, dopo un istante in cui sembrò che il vento fosse calato di colpo, questo riprese a soffiare e a sibilare col rumore di un treno in una galleria e una ondata, nata chissà dove, colse la ‘Tonia’ nel momento in cui la corda da traino era tesa al massimo.

A guisa di un martin pescatore la prua penetrò nella montagna d’acqua spumeggiante. Fu sommersa e la resistenza opposta al traino spezzò netto il canapo. La ‘Tonia’ non più trattenuta fu spinta verso l’alto e riemerse in un ribollire di schiuma, tra gli spruzzi rapiti dal vento.

- Aggotta, Genio, aggotta! – gridò il giovane con l’acqua alle ginocchia, cercando freneticamente di svuotare la barca col bugliolo di legno. La barca ora completamente libera in mezzo al rumore delle onde e al vento, piegata tutta da un lato, saltava da una cresta all’altra come un grillo. All’intorno si vedevano  solo colline d’acqua ondeggianti, ricoperte di neve e profonde vallate. Le alte muraglie bianche giungevano l’una appresso all’altra. Rotolavano su se stesse e, rovesciandosi a risacca, davano ad ogni istante l’impressione di voler sommergere quel piccolo guscio e di volerlo inghiottire in un boccone. La barra abbandonata a se stessa si muoveva con furia sbattendo a destra e a sinistra  secondo la forza impressa dal mare al timone. Di dirigere la barca in quei momenti nemmeno a pensarci!

I due inginocchiati presso il banco a cui si erano avvinghiati con una mano per non essere sbalzati fuori da qualche brusca impennata, continuavano disperatamente e meccanicamente ad aggottare, incapaci di pensare e di volere. Anche la pioggia aveva ripreso a cadere di traverso e con violenza,

Tonio s’era messo a piangere dal terrore. La paura l’attanagliava allo stomaco e i singhiozzi si mescolavano ai sibili, ai soffi del libeccio, al rumore del mare che, quando parla in quel modo permette agli uomini solo di piangere e di pregare.

Genio pregava.

Da anni dalle sue labbra, dal profondo del suo animo non era più uscita una preghiera, ora, di fronte all’acqua tormentata e furibonda, molte parole, molte preghiere seminate in lui dalla madre nei giorni dell’infanzia, gli germogliavano in bocca spontaneamente e uscivano ritmate dal rapido movimento della sessola che scaraventava l’acqua fuoribordo.

E quando l’onda venne, un’onda gigantesca, anomala, li colse proprio mentre uno pregava e l’altro piangeva. La ‘Tonia’ sprofondata in un avvallamento  tra due onde fu trascinata verso l’alto su un lungo pendio liquido in una ripida ascesa. Giunta in cima, un violento colpo di vento la rovesciò.

Tonio urlò e Genio pure, ma fu breve perché la massa liquida riempì loro la bocca, ricoprendoli. Per istinto entrambi non abbandonarono la presa e quando la barca poté riemergere, su pure rovesciata, i due vi stavano abbrancati con le unghie, uno per parte.

- Genio, ci sei? – gridò Tonio appena poté.

Gli rispose un mugolio.

- Tienti stretto e afferra questa!

Tonio, afferrato il pezzo di canapo penzolante dalla prua, l’aveva gettato al compagno di là della chiglia.

- Légatelo alla cintola e assicuralo ad uno scalmo! Io farò lo stesso e bada a non lasciare la presa, se la lasci sei perduto.

Un altro mugolio d’intesa gli rispose.

La ‘Tonia’ rovesciata, con la pancia all’insù, semisommersa, offriva ora poca presa al libeccio impazzito e seguiva il movimento delle onde come un sughero galleggiante. A tratti si trovava sommersa ai piedi di un’onda in un bulicar di schiuma biancastra e gorgogliante; un attimo dopo era in cresta, altissima, vicina alle nubi basse che si scavalcavano a vicenda, sospinte da ogni parte.

Per ore i due furono trascinati alla deriva nel buio più fitto, tra il vento che sibilava, mugghiava come un toro, urlava in tutti i toni.

Quando l’alba color cenere apparve a oriente stentando quasi a farsi strada tra gli ammassi compatti di nuvole, i due erano ormai allo stremo delle forze. Tonio aveva più volte cercato di parlare con Genio, ma l’idiota aveva continuato a mormorare parole incomprensibili.

- Genio, parla! Di’ qualcosa! Come ti senti?

- Ho male, male alla testa.

Tonio si afferrò come poté alla chiglia e facendo forza sul canapo che li teneva uniti come un cordone ombelicale, si issò sulla fiancata quel tanto da permettergli di vedere l’amico. Genio galleggiava legato alla barca alla quale si teneva aggrappato con una mano. Un lungo taglio rossastro, dilavato dall’acqua di mare, gli si era aperto dall’attaccatura dei capelli sino alla guancia.

- Genio – gridò il giovane nello scorgere quel viso illividito, le rade ciocche di capelli appiccicate alla carne viva, - Genio, che t’è successo?

- La barca… stanotte… un colpo quando si è rovesciata… sto male!

- Oh Dio mio, Dio mio! – gemette Tonio lasciandosi ricadere in mare. – E adesso che faccio?

Gli rispose solo l’urlo del vento

- Tonio, - lo chiamò all’improvviso l’idiota, - io non voglio morire così, non posso!

- Non morirai, resisti, non puoi morire! Ci troveranno, vedrai, ci troveranno – gli rispose trattenendo a stento un singhiozzo.

- Io non voglio morire così – ripeté l’altro quasi stesse parlando a se stesso. – Ho sbagliato, sì, ho sbagliato… è stata tutta colpa mia… ma perché mandare proprio me col Duca?… loro sapevano… loro dovevano andarci. Non voglio tutta la colpa io.

- Che dici, Genio? Che dici? Non ti capisco – fece il giovane stupito e preoccupato per quel farfugliamento incoerente.

- Tonio, io sto male… non voglio morire senza confessarmi… senza confessare la mia colpa. Voglio un prete, Tonio… chiama don Pippo…

- Che dici? – ripeté di nuovo issandosi con uno sforzo sulla chiglia della barca.

L’idiota supino, con gli occhi perduti nel vuoto riprese la cantilena.

- Voglio don Pippo… mi voglio confessare… non posso morire così.

- Genio, ti rendi conto di dove siamo! – urlò tentando di farlo ragionare.

L’idiota voltò lentamente il capo verso di lui e parve riemergere dalla sue fantasticherie.

- Sei tu, Tonio. Dov’è don Pippo?

- Non c’è don Pippo.

- Non fa  niente: tu gli sei amico… a te piace stare in chiesa e sai molte cose… mi voglio confessare. Confessami tu, Tonio, tu sai come si fa.

- Tu sei pazzo! – rispose il giovane esterrefatto e dimentico della tempesta, diminuita di intensità in quelle ore. Tu sei pazzo!- ripeté

- Perché? – L’idiota scosso dai brividi lo guardava dal basso con occhi imploranti. –Tu o don Pippo non è forse lo stesso?

- No! Non lo è. Don Pippo è un prete, io no. Solo lui può confessarti.

- Ora non c’è, quindi sei tu a dovermi ascoltare. Gli riferirai ogni cosa. Io non voglio morire con questo peso sull’animo… è colpa mia se il Duca è stato ucciso. Io potevo avvertirlo, avrei fatto in  tempo ad aiutarlo e a fuggire assieme, ma non lo feci. Non volli farlo, capisci? Non volli farlo perché lui voleva bene alla Gina e io pure… e Gina aveva scelto lui.

- Taci, Genio! – gli intimò il giovane scuotendo il capo. – Taci, non ti posso e non ti voglio ascoltare. Lo capisci che non posso?

Ma l’idiota senza badargli continuò.

-… è stato allora, mentre salivo per raggiungere il fienile. Mi fermò Pietro, un boscaiolo. “Bada. Michele, mi disse, fa attenzione: c’è una pattuglia di tedeschi dall’altra parte del monte. Girano per i casolari abbandonati, entrano nelle malghe, nei fienili in cerca di partigiani. Scappa finché sei in tempo”. Ecco, io lo sapevo e avrei potuto avvertire il Duca e metterci in salvo assieme… ma non lo feci. Se lo prendono, mi dissi, Gina sarà solo mia. E non l’ho avvertito… padre – fece farneticando, - non l’ho avvertito volutamente e la sua morte grava sulla mia coscienza… ti chiedo il perdono di Dio, padre.

Tonio non aveva potuto fare a meno di ascoltarlo. Piangeva e non capiva a chi Genio si riferisse. L’idiota tacque per un poco. Gli occhi gli si andavano appannando, ma fissavano quelli di Tonio. Poi riprese:

-… ho peccato, padre, ho peccato Non voglio morire così… non così senza l’assoluzione. Assolvimi, padre!

- Pazzo, pazzo idiota! Torna in te! Sono Tonio io, T-o-n-i-o! T-o-n-i-o, hai capito? Non posso farlo – gli gridò scosso da singhiozzi convulsi.

- Padre,  assolv…

Un’ondata coprì Genio. Per un istante  il corpo scomparve sott’acqua.

- Non posso farlo – gemeva Tonio con le lacrime  agli occhi.

   Il volto pallidissimo dell’amico riapparve, riemerse dall’acqua con gli occhi arrovesciati e la bocca semiaperta, piena di mare.

- Dio! Dio! Dio! – gridò il giovane aggrappato alla chiglia.-  Dio, che debbo fare?

Solo il mare gli rispondeva.

La mano di Genio abbandonò la presa e il corpo attaccato alla corda si scostò dalla barca sballottata dai flutti.

- Dio! – mormorò ancora Tonio. E poi, lasciandosi ricadere in mare dalla sua parte, lasciò che la sua bocca pronunciasse meccanicamente le parole udite spesso pronunciare da don Pippo nel confessionale, quando vi si era recato per confessarsi.

- Ego te absolvo a peccatis tuis, in nomine Patris et Filii et Spiritus Santi.

 

   Poche ore dopo un elicottero della Marina inviato alla loro ricerca li trovò, entrambi, l’uno vivo, e l’altro morto, galleggiante a poca distanza  dalla barca rovesciata che continuava ad andare alla deriva.