ALL’OMBRA DELLE CAMPANE
Ci sono molti posti per fare all’amore, ma quello immaginato da Chantal era per lo meno inusitato, tanto inusitato da lasciare a bocca aperta la sua amica Lolo. Chantal e Lolo, due biondine della rive gauche erano partite da Parigi per un giro turistico in Italia a bordo di una vecchia Citroen che macinava ancora bene i chilometri. La prima tappa era sta La Mortola, una località poco oltre il confine italo-francese, scelta non tanto per le sue bellezze naturali, tra cui gli splendidi Giardini Hanbury, quanto per riposarsi almeno due giorni prima di puntare su Firenze. Durante quel breve soggiorno la Val Nervia le aveva attratte, in che modo non si sa. Forse era stata una occhiata data alla Guida Michelin e all’accenno alle varie rovine romane e medievali sparse qua e là lungo la valle. Sta di fatto che si erano trovate a mezzogiorno a mangiare il coniglio in salsa piccante nel ristorante ‘Da Adolfo’, a un tiro di schioppo da Isolabona. Sul terrazzo, all’ombra di un parasole, mute entrambe per meglio gustare il sughetto brunastro e saporito, avevano dato fondo ad una bottiglia di rossese, quel vino ambrato capace di confonderti piacevolmente i pensieri senza che tu te ne accorga. E il vino le aveva messe in tale euforia che in quel pomeriggio d’estate, dopo il pranzo e dopo un breve giro per il paese tra carruggi e piazzette si erano ritrovate nella Piazza Grande, assolata e solitaria, sedute sul lungo gradino che costeggia la fiancata laterale della chiesa, proprio sotto il campanile. -Qu’est qu’on fait maintenant?- chiese Chantal. -Oh, écoute, fiche moi la paix et lasse moi tranquille, Aprés ce vin je n’en peut plus. -Moi aussi j’en ai tout mon soul. Tu pense si Jacques était avec nous? -Tu m’enquiquine avec ton Jacques. En a tu pas ancor assez de faire l’amour avec lui? -Peut être. Jamerai quelque chose de nouveau. -Regarde le beau tipe!- fece Lolò cambiando discorso all’apparire di un giovanotto che si andò a sedere poco distante e che nell’accendere una sigaretta e poi nel fumarsela non aveva mai distolto gli occhi da loro. Ma Chantal, dopo aver gettato uno sguardo distratto al giovanotto era ritornata alla sua idea. -Tu pense , Lolò, quelque chose de neuf! Par exemple, tiens, faire l’amour dans un clocher! -Quelle bête que tu est! Dans un clocher!- – rispose l’altra scoppiando in una risata. -Non. Et crois moi, je pense que ce serait la premiére fois dans l’histoire. -Ma parole, tu est bien bête – ripetè la prima – faire l’amour sous les cloches! – Poi, ripensandoci – Cependant il-y-a déja eut un precedent. -Mais non? -Mais oui. Quasimodo dans Notre Dame de Paris. -Des blagues, Lolò! Quasimodo etait un omosexuel, a mon avis. Il ne l’a même pas touché Esmeralda. Moi j’entends faire l’amour pour du bon! -Mais, Chantal, sois raisonnable. Regarde comme il est haut ce clocher. Il giovanotto che fino a quel momento aveva ascoltato senza capire il discorso delle due francesine, vedendone una guardare verso l’alto del campanile, si avvicinò e disse: -Madmuasel, salire sul campanile? Io campanaro- aggiunse battendosi la mano sul petto. -Qu’est qu’il dit?- fece Chantal rivolgendosi all’amica. -Tiens, il dit qu’il est le sonneur. -Demande lui si je peut monter en haut. Lolò alzò le spalle e chiese: -Mia amica, monter… montare sur…- e indicò le campane. -Vuol salire sul campanile? Bene. Io accompagnare…mener… e si diresse verso la chiesa dove c’era la porticina che immetteva sul campanile. Chantal fece per seguirlo ma l’amica la trattenne per un braccio, -Chantal, fait pas des bétises! -Oh, lasse moi tranquille!- e, svincolandosi con uno strattone, seguì il campanaro. Vista dall’interno la costruzione quadrata del campanile dava quasi un senso di soffocamento. In basso il terreno era ricoperto da uno strato di cemento su cui ancora di vedevano le strisciate e i segni lasciati dai muratori, Su un lato, quello di fronte alla porticina di ingresso che dava sulla chiesa, iniziava una stretta scaletta abbarbicata al muro, la quale, correndo lungo le pareti interne, saliva sino ad un ripiano in muratura, in cui era situato un ampio sgabuzzino contenente tutti gli ingranaggi dell’orologio. Sopra c’era la cella campanaria. L’interno del campanile era illuminato da una scarsa luce che penetrava forzatamente da feritoie aperte qua e là, senza ordine ed era attraversato da grosse travi di legno, alcune tarlate dal tempo. Il giovanotto saliva agevolmente i gradini sbrecciati dal tempo, stretti e tortuosi. Di tanto in tanto si volgeva e dava una mano a Chantal che, con i suoi tacchi a spillo si trovava spesso in difficoltà, specie nell’ultima parte dell’ascesa, là dove c’era solo una scaletta di legno che immetteva nella cella campanaria. Il giovanotto in quel punto fu costretto a prendere quasi di peso la francesina che peraltro gli si abbandonò volentieri tra le braccia. Quando giunsero in cima, Chantal fu distratta dal panorama che si vedeva di lassù. La vista si spingeva attraverso un’ampia vallata sino al Monte Bignone. Al centro, su una collina rocciosa e appuntita sorgeva Apricale, le cui case sembravano tanti funghi cresciuti l’uno addosso all’altro e abbarbicati al terreno La Chiesa e la Torrazza, un palazzotto di proprietà dell’amante di un principe russo, dominavano le case circostanti. Sulla destra, distesa tutto quanta sul dorsale di un monte, la ventosa Perinaldo contornata di boschi di querce e da estesi uliveti, si affacciava sul mare e sui monti dominando la Valle Argentina e la Val Nervia. Dalle altre parti, colline, poggi, pendii, balze verdastre erano coperti di ulivi intramezzati qua e là da vigneti e da fasce incolte. Per un po’ Chantal guardò il panorama, poi volse lo sguardo verso il basso e vide Lolò in mezzo alla piazza che, col volto rivolto in alto, faceva dei cenni con le mani. Chantal solo allora si rese conto dell’altezza e, avvertendo un leggero senso di vertigine si affrettò a volgersi verso il giovanotto che per tutto il tempo non aveva fatto altro che guardarla. ‘Forse è questa la situazione adatta per mettere in esecuzione la mia idea!’ pensò di fronte a quel bel giovanottone. E quasi a quasi a conferma, guardandosi attorno, si accorse che in un angolo della cella c’era una brandina militare. -Tiens – esclamò a bassa voce – je n’aurais jamais cru que le tourisme dans ce p’tit patelin était si organisé! Il campanaro continuava a guardarla e a tacere. E che poteva fare una parigina giovane dopo aver bevuto quel rossese traditore? Si sa, l’occasione fa l’uomo ladro, ma ciò che il proverbio tace è che rende anche la donna compiacente. E Chantal si abbandonò. Poco dopo Lolò, stupefatta, vide scendere dolcemente dall’alto del campanile, volteggiando per l’aria come una esile farfalla, un paio di trasparenti e spumose mutandine color rosa-perla.
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Richetto, casanova impenitente, non era nuovo ad imprese del genere, solo che in quell’occasione si era trovato di fronte ad una francese, esperienza nuova per lui, e in un ambiente ancora più nuovo, almeno per l’uso che ne aveva fatto, e cioè quella cella campanaria che sino a quel giorno gli era servita solamente a dar estro al suo talento musicale. Richetto non era, come aveva detto alla francesina, il campanaro, pur essendo considerato tale da tutti i paesani. Il campanaro in carica era suo nonno, ma quando si trattava di una festa importante, di un matrimonio, di un battesimo, era sempre a Richetto che si rivolgevano tutti quanti. -Dindon, – così l’avevano soprannominato in paese – Dindon, domani si sposa mia figlia: a fine messa esigo una suonata coi fiocchi… Dindon, vorrei dei trilli… Dindon, all’Ave Maria vorrei alcune variazioni… E Dindon con le quattro campane a disposizione poste sulle quattro aperture della cella, più un grosso campanone appeso ad una trave, faceva i trilli, le variazioni, le toccate e le fughe. Quando era in mezzo alle sue campane, si sentiva un dio. Seduto su un panchettino in mezzo alla cella, con quattro leve a portata di mano che mettevano in azione altrettanti martelletti battenti sull’esterno delle campane e con un piede infilato nel cappio di una corda che pendeva dal battaglio del campanone, improvvisava concerti che terminavano sempre con un crescente assordante. Suonar le campane non è una cosa semplice: se si fa con coscienza, diventa un’arte. I primi rudimenti di quell’arte Richetto li aveva appresi dal nonno, ma col tempo, vi aveva aggiunto qualcosa di suo, piccoli arrangiamenti, particolari accorgimenti tecnici, come l’uso dei piedi oltre che delle mani e di alcuni tiranti che agivano sui batacchi. Poteva così suonare tutte le campane contemporaneamente e senza alcuna difficoltà. Ma i concerti di campane non erano la sua sola passione: ve n‘era anche un’altra simile a quella del suo grande predecessore Quasimodo il quale, diversamente dall’idea di Chantal che il campanaro di Notre Dame fosse un gay, Richetto amava le donne e col suo lavoro poteva conoscerne molte e con facilità. Di professione faceva lo stagnaro e l’imbianchino per cui entrava sempre nelle case in cui lavorava e aveva la possibilità di fare il cascamorto con le ragazze mentre aggiustava qualche rubinetto o, ritto su una scala, col berretto di carta sui neri capelli, dipingeva il soffitto di una camera sotto l’occhio incuriosito di una di esse. Le ragazze ascoltavano volentieri quel ragazzone esuberante, pieno di vita che non faceva altro che parlare, scherzare e che sapeva fare un complimento, un apprezzamento al momento giusto. Quando lasciava la casa la ragazza, se ve n’era qualcuna, o la donna sposata continuava ad averlo in mente per molto, troppo tempo. Alle sposate Richetto, pur essendo gentile, dava poca corda. Ne aveva avuto abbastanza una volta che si era buscata una impallinata a sale da un marito tornato troppo presto dal lavoro. Gli piacevano di più le ragazze da marito. Ma come fare quando se ne hanno quattro per le mani e il paese è piccolo? Perché Richetto era un po’ simile a quegli amanti della lettura che non si accontentano di leggere solo un libro per volta: ne incominciano due o tre contemporaneamente, gustandoli alternativamente con ugual delizia. Molto spesso erano le ragazze stesse a cercarlo, a stuzzicarlo, ad invitarlo e Richetto non poteva certo dire di no. Solo che era molto difficile in un paese riuscire a non farsi vedere, a trovare dei posti sicuri dove passare un’oretta in compagnia di una delle quattro. Si ha un bel dire che i paesi di campagna favoriscono l’amore alla ‘bell’étoile’, ma capita anche spesso di fare delle figuracce quando si è sorpresi da qualche vecchietta che vaga tra i prati in cerca di erba per i conigli ma che si sofferma volentieri ad occhieggiare da dietro una siepe pensando in quel momento al tempo che fu, ma pronta a spettegolare e a criticare la sera, insieme alle comari, sulla gioventù d’oggi. E poi c’è sempre la possibilità che qualcuno lo riferisse alle altre tre e questo Richetto non lo voleva nel modo più assoluto. Quell’avventura con Chantal gli aveva quindi doppiamente fruttato. Non parliamo del primo frutto ché quello era già stato gustato, ma l’altro, l’altro era più importante. Allontanatesi le due francesine che egli aveva accompagnato per dovere di ospitalità, sino in fondo al paese, Richetto era risalito sul campanile e, sdraiatosi sulla brandina, aveva cominciato a pensare. Certo era che il campanile poteva offrire un posto sicuro, il più sicuro per sottrarre i suoi amori agli sguardi altrui. E per non guastare la reputazione delle ragazze. Nessuno si sarebbe sognato di pensare che una ragazza che entrava in chiesa, andasse in realtà a un appuntamento amoroso. La paura poi di commettere un sacrilegio non lo sfiorò neppure. Un campanile, infatti, pur avendo l’accesso da una chiesa o sorgeva a fianco di essa era una sovrastruttura non aveva nulla di sacro. Il suo compito era solo quello di sostenere delle campane. Nessuno in paese l’aveva mai considerato un luogo sacro, bensì una costruzione autonoma, una specie di ripostiglio nella parte più bassa dove ammucchiare le cose più disparate: attrezzi per la pulizia, qualche angioletto privo di un braccio o di un’ala e gli attrezzi che servivano a Don Silvestri per curare un orticello o quelli della Perpetua per fare il bucato. Ad invogliare ancor più Richetto c’era la brandina galeotta capitata lì per un caso fortuito. E’ sempre seccante fare l’amore tra l’erbetta; per quanto soffice sia c’è sempre quella dannata pietruzza che, Dio sa come, si è messa con la parte appuntita in alto o quel ramoscello di rovo, secco, che ti si attacca dappertutto e ti punge o qualche formica, di quelle rosse, con quelle mandibole che sembrano aghi roventi quando ti mordono. Decisamente quella brandina era l’ideale. L’aveva dimenticata lì un muratore quando il tetto della chiesa era stato rifatto e il campanile ridipinto. Quel muratore, che veniva da un altro paese, aveva preferito dormire nella cella campanaria per tutto il tempo che l’impresa aveva lasciato l’impalcatura. Nessuno, dopo la partenza, si era preoccupato di togliere la branda e Richetto sino a quel giorno l’aveva usata per riposarsi dopo qualche estenuante concerto di campane. ‘Ma come avvertire le ragazze che lui era disponibile?’ – pensò d’un tratto. Il problema gli si presentò quando già aveva creduto di aver tutto risolto e lo lasciò sconcertato. Non poteva certo affacciarsi ai finestroni del campanile e invitare, come un muezzin, una delle sue donne… alla preghiera! E non voleva nemmeno fermarne qualcuna per strada per fissare l’appuntamento. C’era sempre il pericolo di essere visto da qualcuna delle altre tre e allora sarebbero stati guai. Gli venne a questo punto in aiuto un passerotto che si venne a posare cinguettando sulla Ronfona, il grosso campanone. Alla vista dell’uccellino, ma ancor più della campana, la soluzione gli venne di colpo ed era così semplice che si diede una manata in testa per non averci pensato prima. -Che stupido, le campane!- esclamò. La trovata era geniale: si trattava di fissare l’appuntamento alle ragazze col suono delle campane, non ci sarebbero così stati pericolosi contatti, né il timore di essere scoperto o di tradirsi. Da quella sera Richetto si mise all’opera. Poiché era compito di suo nonno suonare al tramonto l’Ave Maria, il giovane chiese ed ottenne di suonarla lui. I villici quella sera e anche in quelle che seguirono, furono testimoni di piccoli concerti per sole campane che duravano dai cinque ai dieci minuti. In quei momenti, mentre i suoni argentini rotolavano sui tetti delle case, facevano vibrare i vetri delle finestre, s’incuneavano sordi e cupi in mezzo ai carruggi nei quali lentamente si addensavano ombre scure o si perdevano su per i boschi di ulivi, tra i pini o giù in fondo alla valle già invasa dalle ombre della notte imminente, i fanciulli cessavano i loro giochi e stavano con i musetti rivolti verso l’alto, verso le campane, gridando e vociando. I vecchi, invece, seduti sull’uscio di casa per l’ultima pipata prima della cena, chiudevano gli occhi e mormoravano: -Senti, Dindon come si sbizzarrisce! Però, ci sa fare quel Dindon!. Sì, Dindon ci sapeva fare. Era riuscito a trovare quattro variazioni distinte, chiare che sarebbero servite al suo scopo. La prima consisteva in molti colpi ad intervalli regolari; la seconda, la doppietta, era composta di due colpi veloci sulla stessa campana, una pausa, due colpi veloci, una pausa e così via; poi c’era la doppietta alternata, cioè lo stesso sistema ottenuto però con la Prillina, la campana più piccola e più squillante e la Ronfona, il campanone dal suono più cupo, più sordo; infine, la tripletta col botto, tre colpi sulla Bronzina, una campana di tonalità media, seguiti da un colpo sul campanone. A chi gli chiedeva la ragione di tante variazioni, Richetto rispondeva sorridendo che aveva saputo dell’esistenza di un concorso a premi per suonatori di campane e lui voleva parteciparvi, ma prima doveva esercitarsi continuamente per raggiungere la perfezione. In seguito Richetto, con molta cautela avvertì le sue quattro spasimanti facendo ad ognuna lo stesso discorso con una sola variante: quella circa il segnale. -Sentimi bene, bella mia, e tieni presente che non parlo per me. Io sono un uomo e certe cose a noi si perdonano. Parlo, piuttosto, nel tuo interesse e per la tua reputazione. Finora c’è sempre andata bene, ma farci pescare in un prato non è conveniente e poi non sempre i prati sono liberi; c’è sempre la possibilità che qualcuno da vicino o da lontano ci possa vedere. Io ho trovato un posto delizioso e sicuro, il campanile. Là il padrone sono io e nessuno ci potrà scoprire. Ti avvertirò io quando sarò libero. Non avrai che da ascoltare i rintocchi dell’Ave Maria e quando la sentirai finire con tanti colpi ripetuti ad intervalli regolari, vorrà dire che l’indomani pomeriggio sono libero e ti aspetterò in cima al campanile. Hai capito? Ora ascoltami attentamente e memorizza il segnale-. E lo ripeté più e più volte finché fu sicuro. Ognuna delle quattro ragazze aveva capito ed accettato con entusiasmo. A nessuna era passato per la mente l’idea che il servirsi della chiesa era stato una cosa poco pulita, anzi tutte avevano accolto con gioia quel provvidenziale sotterfugio. E da quel momento, per molto tempo, i villici godettero nell’ascoltare Richetto che terminava i suoi concerti con molti colpi, ora con doppiette, ora con la doppietta alternata, ora con la tripletta col botto. Guai non ce ne furono, eccezion fatta per una considerazione che un giorno fece Lena, una delle quattro, quando osservò: -Richetto, ma dimmi un po’, non ci sarà mica qualche altra ragazza che viene qui? -Ma che dici, Lena!- aveva risposto lui con aria offesa, ma con la mente all’erta. -E’ perché termini sempre la suonatine serali con dei colpi che mi han tutta l’aria di segnali. -Quanto sei sciocca! Lo sai che mi sto preparando per partecipare al concorso di campane. Lo sanno tutti. Bisogna bene che mi prepari facendo esercizi con le campane. Pensa, Lena mia, che quando parteciperò con tutti i miei motivi su cui mi sto perfezionando, ci sarà pure il tuo! Un omaggio al nostro amore. -D’accordo - fece la Lena poco convinta. – Bada, però che se pesco qualche ragazza con te, saranno guai per entrambi, Richetto si era affrettato a chiuderle la bocca con un bacio. Gli incontri cominciarono e continuarono per un po’ di tempo. Ma tant’è, la cosa doveva finire e fini nel modo più inatteso: con una forzata crisi di coscienza. Si avvicinava la festa della Maddalena, festa del paese, e Brunetta, la più giovane del piccolo harem, era sottoprioressa. E’ uso che , qualche giorno prima della festa, le prioresse e le sottoprioresse si confessino e nel confessionale, proprio sotto quel campanile galeotto, Brunetta spiattellò tutto all’allibito don Silvestri che dapprima si strozzò con la saliva che gli andò di traverso e poi si mise a sbraitare così forte da far voltare tutta la gente che era in chiesa in attesa di confessarsi. -Devi averla fatta ben grossa!. – costatò un’amica non appena Brunetta uscì, col viso in fiamme per la tremenda ramanzina che aveva da poco ricevuto. -Non dirmi niente. Ho rovinato tutto!- balbettò. Ma l’altra non capì che cosa avesse rovinato. In ogni modo da quel giorno le visite al campanile cessarono. Richetto ebbe un bel suonare doppiette e triplette. Niente. Accadde che Don Silvestri si facesse trovare ogni giorno vicino alla porta del campanile e la sua sola presenza rimandava indietro le ragazze che, prima di allontanarsi recitavano un Pater Ave Gloria tanto per giustificare la loro visita in chiesa. Non che egli sapesse che le ragazze erano quattro, ma, volendo allontanare la tentazione dalla sola Brunetta, automaticamente allontanava anche le altre. A Richetto don Silvestri non disse mai nulla; non poteva essendo vincolato dal segreto della confessione. Nulla però gli impediva di trovarsi in chiesa ogni pomeriggio perché questo era un suo sacrosanto diritto. A Richetto che saliva sul campanile con la scusa che doveva esercitarsi per il concorso di campane, a cui si era effettivamente iscritto, don Silvestri rispondeva con delle occhiate che se avessero potuto avrebbero fulminato il giovanotto. Quelle occhiate Richetto non riusciva a capirle e tra l’altro si stupiva che nessuna delle ragazze venisse più all’appuntamento. Mai si sarebbe immaginato che don Silvestri sapesse e che rimanesse in chiesa di guardia per tutto il tempo che stava sul campanile. Dopo dieci giorni di forzato digiuno, finalmente Brunetta riuscì a sfuggire alla sorveglianza del parroco e a salire nella cella campanaria. Lì, tra le lacrime, confessò tutto a Richetto. Al giovane prese quasi un colpo. Quella bella trovata andata in fumo e tutto da ricominciare. Peccato, proprio un vero peccato! Ma a che valeva recriminare! Richetto pensò solo a godersi quell’ultima giornata in santa pace. Intanto Don Silvestri non era tranquillo. Si era assentato per pochi minuti per andare in sacrestia e proprio in quel momento aveva sentito un calpestio sospetto di tacchi. Era Brunetta che ne approfittava per salire sul campanile. Rientrato in chiesa non aveva visto nessuno perciò si era seduto vicino alla porta del campanile. Ma più il tempo passava, più i suoi sospetti aumentavano. Il timore che si burlassero di lui e lo menassero per il naso proprio mentre faceva la guardia, non gli andava giù. Alla fine si decise e, nonostante la pancia un po’ prominente, prese a salire le tortuose scalette che portavano in cima al campanile. Fortunatamente Richetto se ne accorse. Balzato giù dalla branda, trascinò subito Brunetta mezza nuda verso lo sgabuzzino dove era sistemato il meccanismo dell’orologio del campanile e ve la cacciò dentro insieme ai suoi vestiti, Le raccomandò di stare zitta e immobile, rinchiuse la porta a chiave e risalì in fretta le scale sino alla cella dove si sdraiò sulla brandina. Poco dopo il parroco ansante e sudato giunse e trovò il giovane addormentato profondamente, Stette un po’ a guardarlo, ispezionò tutto attorno e non avendo riscontrato nulla di sospetto, ridiscese tranquillizzato e se ne andò a zappare nell’orto. Non appena Richetto lo vide attraversare la piazza, andò a liberare la ragazza dall’incomoda posizione e Brunetta se ne andò. Stava calando il sole quando don Silvestri, ritornando dall’orto, disse al giovane che stava ozioso davanti alla chiesa. -Richetto, non vedi che l’orologio è fermo. Il giovane guardò su e vide le lancette immobili sulle tre e un quarto. ‘Strano, - pensò tra sé e sé: - proprio stamattina gli ho dato la carica!’. Poi, a voce alta: -Provvedo subito, padre. Poco dopo toglieva dagli ingranaggi il reggiseno dimenticato nella fretta da Brunetta, causa dell’arresto dell’orologio. Da quel giorno, con gran rammarico dei villici (e ancor più di Richetto) gli arrangiamenti al suono dell’Ave Maria si diradarono per cessare completamente. Richetto sparse la voce che il concorso di campane era stato rimandato di un anno. Il giovane dovette trovare una scusa con le tre ragazze che erano all’oscuro del tradimento forzato di Brunetta. Per fortuna la continua presenza di Don Silvestri in chiesa troncò ogni domanda sul nascere. Le quattro ragazze, però, non volevano saperne di quei forzarti digiuni e non gli davano tregua. Ogni volta che una di loro lo incontrava erano parole sussurrate, visi imbronciati, occhiate invitanti e lui con i sudori freddi era sempre costretto a tenerle a bada, sempre accorto a non tradirsi. Occorreva subito un’altra trovata per risolvere il problema. Ormai quelle si erano troppo abituate a quei convegni sicuri per rinunciarvi. Ma come fare? Una soluzione avrebbe potuto essere quello di andare lui in casa delle ragazze quando non c’era nessuno. Ma come sapere se la strada era sgombra? Come sapere che genitori, fratelli e nonni erano nei campi a lavorare? E come informarle che lui aveva il pomeriggio libero? Le ragazze potevano anche essere occupate quando lui non aveva impegni di lavoro. Come fare a comunicarlo? ‘Prima ero io ad avvertirle, - pensava Richetto sdraiato sulla brandina - e tutto andava per il meglio perché, dando il segnale la sera prima, quella aveva tutto il tempo di liberarsi dagli impegni. Ma ora? E se invece di avvertirle io fossero loro ad avvertire me? Questa sì che potrebbe essere una soluzione!’ Richetto meditò a lungo e alla fine anche quel problema fu risolto. Non per niente era un cultore di musica e per lui trovare un arrangiamento ad un tema era cosa da poco. Scese dalla branda e si affacciò ad una finestra del campanile, guardando i tetti del piccolo paese. Ricoperti di tegole o da scuri coppi, formavano un’unica, irregolare copertura che si apriva di tanto in tanto in bianchi terrazzini dove, in cassette di legno, cresceva il basilico. Molti tetti erano sormontati da abbaini che davano luce ai solai. Richetto conosceva a menadito la topografia del paese e individuò subito i tetti delle sue quattro odalische. Per uno straordinario colpo di fortuna (bisogna ammettere che esiste veramente un dio degli innamorati!), si accorse che avevano tutti e quattro un abbaino sul tetto, rivolto verso il campanile. Il problema era risolto. Nei giorni che seguirono, cogliendo i momenti più opportuni, il giovane istruì ogni ragazza sul nuovo sistema. Stavolta il discorso fu uguale per tutte, senza alcuna variante. E questo fu l’errore più madornale che Richetto potesse commettere! -Senti, – disse ad ognuna, – sul campanile non possiamo più vederci. Don Silvestro ha mangiato la foglia e fa la guardia al campanile come un cane. Sarebbe meglio vederci in casa tua. Faremo così. Ogni volta che tu sarai libera e che in casa tua non ci sarà nessuno, appenderai all’abbiano, come se stesse per asciugare, una camicia da notte, con le maniche rivolte in basso e riunite per i polsi. Questo è il segnale. Se io sarò libero la vedrò dal campanile e ti verrò a trovare subito. Se no, pazienza. Sarà per un altro giorno. Hai capito? Pur con un recondito timore di essere sorprese in casa, accettarono nuovamente tutte e quattro. E i convegni ricominciarono. Richetto si trovò assai bene in questo nuovo stato di cose perché ora aveva anche la possibilità di scelta. In certe giornate quattro candide camicie da notte sventolavano dagli abbaini, protendendo le maniche, quando soffiava il vento, verso il campanile in un muto invito, ed era possibile che anche due di esse ricevessero la visita richiesta. Ma Richetto aveva commesso un errore di metodo e chi lo scoprì fu quella furbacchiona della Lena. Anche se il campanile sovrastava tutti i tetti delle case, c’era pur sempre il Castello dei Doria, un vecchio torracchione abbandonato all’edera, che era molto più alto del campanile e nei pressi della torre passò un giorno Lena per andare nella vigna del padre. Fu per puro caso che il suo sguardo si posò sui tetti sottostanti e fu per puro caso che vide una camicia bianca, con le maniche in basso, legate per i polsi che garriva al vento che soffiava leggero dal mare. Lì per lì non vi prestò attenzione, ma poi vedendone una seconda e poi ancora una terza, si fermò esterrefatta. Non era possibile che tre persone, nello stesso giorno, avessero appeso ad un abbaino tre camicie da notte con la maniche in basso, legate per i polsi! Al caso ci si crede fino ad un certo punto dopo di che entra in campo l’evidenza della ragione. E la ragione, pensò subito Lena era che Richetto non solo era innamorato di lei ma di altre, molte altre. Lo dimostravano quelle tre camicie da notte. Da quel giorno la Lena non espose più la sua; si limitò a controllare gli abbaini delle altre e a spiare il malcauto Richetto. La verità venne subito a galla e la ragazza si sentì afferrata da una rabbia terribile. Richetto doveva pagarla per tutti i suoi sotterfugi, per tutte quella Ave Maria con variazioni: sì, perché ora Lena capiva pure che i suoi sospetti circa quegli strani suoni erano fondati. Cercò per alcuni giorni il modo di vendicarsi e finalmente lo trovò. Era il tredici di settembre, San Maurillio per alcuni calendari. San Amato per altri. Richetto quel giorno era libero e, quasi con la certezza di trovare qualche segnale, salì sul campanile. Una sola camicia protendeva le sue maniche verso il campanile: quella di Brunetta. ‘Peccato!’ – pensò il giovane. Avrebbe preferito Mimmona quel giorno. La giornata si presentava calda, assolata, una di quelle giornate in cui piace starsene comodamente sdraiati all’ombra e Mimmona era l’ideale. Calma, tranquilla, un po’ giunonica non pretendeva mai sforzi eccessivi, lasciava fare, concedendosi mollemente con un certo languore che ben si addiceva al tempo. Brunetta no. Brunetta era un tipino scattante, pretenzioso, mai sazio, che lo lasciava sempre esausto. Un tipino da giorni invernali e freddi, insomma. Ma si deve sempre fare di necessità virtù e Richetto, prendendo i soliti accorgimenti, si recò all’appuntamento di Brunetta. La casa era posta in un piccolo carruggio, ombroso, un po’ umido in cui si aprivano molte porte di stalle e fienili. Quando Richetto vi giunse, il carruggio era deserto. Trovò la porta aperta, sgattaiolò subito per una stretta scaletta che portava alla camera della ragazza ed entrò. Stranamente la camera era immersa nel buio e Brunetta non si vedeva. Richetto chiamò sottovoce, ma invece di ottenere risposta, si sentì afferrare da molte braccia e gettare violentemente sul letto dove venne saldamente tenuto. -E allora: non dici niente, impostore!- sibilò una voce che il giovane riconobbe subito per quella di Lena. – Non te l’aspettavi, eh, di trovarci tutte qui! Sì, siamo al completo e oggi pagherai per tutti i tuoi tradimenti. Abituando sempre più gli occhi alla cupa penombra che regnava nella stanza, Richetto vide il suo harem al completo: Lena, Mimmona, Brunetta e Zita. Non trovando nulla da ridire e nell’impossibilità di reagire, il giovane rimase immobile. -Che si fa ora?- chiese Zita, -Semplice- rispose Lena, che doveva essere stata eletta dalle altre a guida dell’impresa. - Lo denudiamo e lo sbattiamo fuori di casa. Vedremo come se la caverà. Forza, ragazze, all’opera!. Richetto fu girato, rigirato, sentì i suoi abiti strapparsi mentre quelle quattro furie tiravano da ogni parte. Non c’era possibilità di difendersi perché anche se ne teneva una a bada, le altre procedevano furiosamente togliendogli e strappandogli i panni di dosso. Alla fine, nudo come un vermetto appena nato, lo cacciarono giù per la scaletta, spingendolo finché non rinchiusero la porta alle sue spalle. Richetto, tremante per un fresco venticello che prendeva d’infilata il carruggio, rimase un attimo indeciso sul da farsi. Novello Adamo teneva le mani al posto della foglia e si guardava attorno preoccupato, Per il momento non c’era nessuno in vista, ma si sentiva lo zoccolare di una mula che stava avvicinandosi e lo scalpiccio del contadino che l’accompagnava. Senza pensare oltre, si slanciò verso la prima porta aperta che trovò, quella di un fienile, e trovò un posto in cui nascondersi. Le quattro ragazze, ridendo divertite, avevano assistito alla scena da un finestrino che dava sul carruggio. Immerso nel fieno che lo pungeva da ogni parte, Richetto si chiese in che cosa avesse sbagliato, ma non riuscì a trovarlo. Decise, comunque, di rimanere nel fienile sino a tarda notte, poi sarebbe tornato a casa col favore delle tenebre. Nella calma del fienile riandava col pensiero alla cella campanaria e alle ore trascorse in casa delle ragazze. -Che peccato averle perse tutte in un colpo! – mormorò con rammarico. - Ora devo incominciare tutto daccapo per trovarne altre. Ah, le belle giornate trascorse sul campanile! Un vero peccato. Erano passate ore e Richetto cominciava ad annoiarsi e chissà quanto si sarebbe ancora annoiato dato che il sole era lontano dal tramonto. D’un tratto alcuni passi furtivi fuori dell’uscio lo fecero rintanare più profondamente nel fieno, poi la porta si aprì ed entrò Mimmona molto cautamente, guardandosi attorno con circospezione e cercando di abituare la vista alla penombra che regnava nel fienile. -Richetto, dove sei? – chiese. -Sono io, Mimma. Sono sola, Richetto, rispondimi!. -Son qui, che vuoi ancora?. Lasciami in pace. Ti sei vendicata, no?. -Non è stata colpa mia, caro. E’ stata Lena a volerti punire e in fondo ha fatto molto bene, ma io con te non ce l’ho. Ora mi è passata la rabbia. Se prometti che amerai me sola potremo ricominciare come prima, eh! Che ne dici?. Il giovane pensò un poco (per la verità molto poco) e poi emerse dal fieno dalla cintola in su, -E che vuoi che dica!- E per tutta risposta la attirò a sé, trascinandosela addosso. Mezzora dopo Mimmona uscì. Richetto si sdraiò comodamente e si apprestò a schiacciare un pisolino, ma non doveva aver pace perché venne Zita e poi, più tardi Brunetta e, infine, Lena. Tutte gli fecero, più o meno, lo steso discorso e tutte ebbero la stessa risposta. Solo la Lena, l’ultima a cedere, tenne un discorsetto più duro delle altre, ma la conclusione, anche se infiorata da molte minacce, fu la stessa. Alzandosi dal fieno la Lena, dopo aver tolto i fili d’erba secchi dal suo vestito e restituito al giovane gli abiti già ricuciti, disse: -Però, Richetto, noto che la lezione di oggi ti è servita, eh! Non sei, infatti, così focoso né così scintillante come nei giorni passati!-. -Hai ragione, Lena, ma vedi, star nudo e solo in mezzo al fieno non è certo una buona cura ricostituente.
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