GLI OCCHI NELLE MANI
“Non si vive come si vuole, ma come si può “ (Menandro)
LA SCONOSCIUTA
-Ti accompagno sempre alla solita panchina? -Sì, ormai mi ci sono abituato. -Ma non t’annoi a stare delle ore seduto a leggere? -No, per niente. Non c’è sistema migliore per far passare il tempo. Tu, piuttosto, ritorni alla solita ora? -Forse un po’ più tardi: sai, oggi ci sono le eliminatorie e se riesco ad entrare in finale , è probabile che mi mandino a Torino per le gare regionali. -Te lo auguro, così avremo un campione in famiglia. Erano, intanto, giunti presso una panchina in fondo ad un viale, là dove la strada terminava in una ampia piazzetta circondata da platani e da siepi di rododendri. -Allora passerò verso le sei o le sei e mezzo al massimo, - riprese il futuro campione e ripeté – ma sul serio, non t’annoi? -Ma no, vedi, ho portato pure due libri! Va pure, ciao. -Ciao, a presto – rispose l’altro allontanandosi. Franco si sedette il più comodamente possibile sulla panchina e aprì il suo libro preferito, la Divina Commedia sul canto quinto dell’ Inferno. Le vicende di Paolo e Francesca lo avevano sempre affascinato e sin dal tempo del liceo – quando la lettura del poema dantesco era imposta dai programmi – aveva amato quei due personaggi così stupendi e così vicini alla sua passionalità. Ora, poi, li capiva maggiormente perché le esperienze a cui la vita lo aveva sottoposto, gli permettevano di cogliere certe sfumature del loro carattere e certe bellezze recondite che fino a qualche tempo prima gli erano sfuggite. Ogni volta che rileggeva quel canto afferrava qualche spunto nuovo, una intuizione che prima non aveva avuto; era ogni volta un mondo sconosciuto quello che si apriva davanti a lui e in cui con l’immaginazione si immergeva. Era dolce leggere all’ombra di quel platano mentre una brezza piacevole faceva stormire le foglie. Franco ne udiva il leggero fruscio, e, chiudendo gli occhi ‘vedeva’ la luce del sole giocare sullo sfondo dell’albero e il verde variare continuamente di intensità; le ‘vedeva’ dondolare dolcemente, quasi si cantassero la ninna nanna l’una con l’altra per addormentarsi non appena la lieve brezza fosse cessata e la calma avesse riportato la sonnolenza su ogni cosa. ‘Vedeva’ anche il canto degli uccelli nascosti nel fogliame e ne individuava il cantore. Un trillo, un gorgheggio ed ecco nella sua mentre materializzarsi un passero, un cardellino prendere forma, saltellare, gonfiare le penne intorno alla gola per emettere il suo canto alla vita. ‘Vedeva’ anche, attraverso le loro voci, i bimbi che giocavano tutto intorno e molti di essi li conosceva per averli sentiti già molte volte; ne conosceva le madri o le ‘nurses’ e sapeva molte più cose sulle loro famiglie di quante non ne sapesse della sua. A Franco piaceva ascoltare, viveva delle parole altrui. Il suo orecchio si era affinato a tal punto che avrebbe percepito un bisbiglio sussurrato a parecchi metri di distanza. Quante volte non aveva carpito dei segreti in questo modo! Quanti non ne aveva risposto nella sua mente e nel suo animo! Oh, non che li svelasse, no! Per lui erano sacri. Era una delle poche persone che sapessero mantenerli, non tanto per correttezza verso coloro a cui li aveva involontariamente carpiti, quanto perché entrati a far parte del suo mondo, ne diventava geloso custode come di una cosa sua, intima, personale. Leggendo Dante era arrivato a soffrire e a odiare il poeta per aver svelato il segreto di Paolo e Francesca, per averlo palesato a tutti senza reticenze, senza veli ed era con profondo sollievo che giungeva a quel verso ‘quel giorno più non vi leggemmo avante’. Lì il segreto riprendeva la sua forza e il pensiero di Franco, alieno dal tollerare confessioni aperte e analisi particolari del peccato, si riappacificava col fiorentino che gli permetteva, con quel pudore adombrato nella fase, di immaginare e descrivere a modo suo e sotto forme fantastiche i preliminari e i postumi del peccato. Franco approvava quel peccato perché lo considerava come un lento avvelenamento dell’animo a cui è dolce abbandonarsi. Il peccato per lui era sempre un momento positivo nella vita rispetto a coloro che vivono senza infamia, ma anche senza lode; era simile al pasto ristoratore che si dà al condannato a morte affinché possa sopportare i tormenti che gli deriveranno. Franco dopo essere stato alcuni momenti a meditare col libro aperto tra le mani, riprese la lettura facendo scorrere i polpastrelli sensibili sui puntini in rilievo del libro. Sentiva le parole fruirgli tra le dita e, come un fiume impetuoso e sconvolgente, penetrare attraverso il suo corpo sino alla mente che dava forma e senso a quei segni. Da quando aveva imparato il sistema Braille si era sentito rinascere alla vita, ritornare a galla dopo quei lunghi mesi in cui era rimasto immerso nel buio più assoluto e nella più cupa disperazione. -Mi ascolti – gli aveva detto un eminente oculista, - lei è ancora giovane e la coscienza mi impone di dirle chiaramente che, circa la sua ferita agli occhi, non c’è più niente da fare. Gli organi visivi sono completamente lesi. La sua perdita della vista, come ben sa, è dovuta ad un trauma esterno, violento e nessuna operazione è possibile. Provi pure a consultare altri oculisti, purtroppo, ritengo che confermeranno la mia diagnosi. L’unico consiglio che posso darle è di adattare la sua vita a questo nuovo stato; in fondo si può vivere e godere anche senza vedere ciò che ci circonda. Suo fratello l’aveva accompagnato a casa in silenzio e lui aveva camminato come un automa, senza pensieri, senza reazioni, abbandonandosi alla mano che lo sorreggeva e lo guidava attraverso le vie affollate e gioiose in quei giorni che precedevano il Natale. Non vedeva più nulla, si sentiva solo urtato da quel flusso di gente a cui ogni volta diceva: -Scusi, oh mi scusi! Maledetto, mille volte maledetto quel giorno in cui aveva preso in mano il motorino ed era andato ad urtare con la testa contro un muretto! Un incidente banale: un cane gli aveva attraversato la strada, una brusca frenata con successiva slittata e poi l’urto violento. Le parole dell’oculista lo avevano abbattuto materialmente e moralmente. Per giorni e giorni se n’era stato rinchiuso in casa, al buio della sua stanza, seduto, quasi rattrappito in sé sotto l’incubo della disperazione. I suoi nervi dilaniati, lacerati da quella brusca, impietosa, ma necessaria precisazione dell’oculista, gli avevano creato fantasie morbose, paurose del futuro che lo avevano costretto a mugolare di dolore e ad asciugarsi continuamente la fronte sudata. Poi a poco a poco il desiderio della vita e un graduale adattamento al nuovo stato gli avevano permesso di fronteggiare il futuro senza recalcitrare anzi, sforzando una sua istintiva ritrosia, aveva frequentato una scuola per ciechi e imparato a leggere col Braille. Fu quella per lui una seconda nascita in un mondo già conosciuto, ma valutato ora dal tocco delle sue mani e dall’infinita gamma di suoni che giungevano ai suoi orecchi. Soleva spesso dire ridendo al fratello: - Io, ora, ho gli occhi nelle mani e vedo con le orecchie. Anche quando parlava con qualcuno si sorprendeva talvolta a dire: - ‘Vede’ quel rumore d’auto? – oppure – Mi sembra di ‘scorgere’ il canto di un bimbo. La musica era diventata per lui la sua passione: passava ore e ore accanto al giradischi e tra i suoni individuava chiaramente gli strumenti, li vedeva in azione e ne seguiva i movimenti. L’unica cosa, però, a cui non si era abituato e alla quale non si sarebbe abituato mai, era alla pietà che gli estranei gli dimostravano quando venivano a conoscenza della sua cecità. Quando sentiva qualcuno dire sottovoce a sua madre: - Poverino, ancora così giovane! – sentiva un impeto di rabbia assalirlo e avvampava tutto. A stento tratteneva la fiumana di insulti che affluiva alle sue labbra e, con uno sforzo tremendo, costringeva l’ira ad annullarsi in lui. Avrebbe voluto che nessuno si accorgesse della sua menomazione e, finché poteva, la teneva nascosta dietro un paio di occhiali con lenti spesse e scure che gli conferivano un aspetto un po’ anonimo e davano agli estranei una impressione diversa dalla realtà. Una sera, si era ai primi dell’estate, aveva chiesto al fratello, che andava al cinema, di accompagnarlo ai giardini e di passare poi a prenderlo dopo lo spettacolo. Seduto su una panchina, ‘vedeva’ tutti i rumori che accompagnano il cadere della sera. Passi frettolosi di chi ritornava a casa per la cena, rumori smorzati di automobili, il bisbiglio di innamorati che, a passi lenti e abbracciati, si sussurravano le eterne, sempre uguali, ma sempre nuove frasi d’amore. In lontananza qualcuno, dopo essere stato un po’ alla finestra, sbatteva le imposte, qualche portone veniva chiuso. Tutti i rumori caotici, così diversi l’uno dall’altro e confusi, giungevano a lui chiari e precisi. In quei momenti gli sembrava di essere un direttore d’orchestra che, in mezzo a tanti suoni, riesce a distinguere quello emesso da uno strumento. E quella sera, in mezzo ai rumori, avvertì un passo di donna avvicinarsi alla sua panchina. - Allora – disse una voce con un tono un po’ acuto – cerchi forse compagnia? - Mi scusi, - rispose alzandosi – non capisco. - Come non capisci, bello mio! E’ mezz’ora che stai a fissarmi! Ci vuol poco a capire, mi sembra, o no! – Egli non rispose e quella riprese: - Sarai mica timido, no? Almeno invitami a sedere per adesso. - Si segga fece lui - e sorrise tra sé intuendo la situazione e l’equivoco in cui era caduta quella passeggiatrice. Di certo avendolo visto con lo sguardo rivolto nella sua direzione, aveva scambiato il suo atteggiamento come un invito e lei aveva risposto di conseguenza. Il suo sorriso però si spense subito. Che avrebbe dovuto fare ora? Come comportarsi? Senza pensarci a lungo e contrariamente al suo solito, decise di dirle la verità. -Si segga pure, signorina, - ripeté, - e mi scusi, ma io non guardavo lei. Vede, sono cieco e tenevo lo sguardo fisso davanti a me senza veder nulla. Non sapevo di avere il viso rivolto verso di lei. -Mi scusi lei – fece quella con voce confusa – io credevo che lei volesse… che io dovessi… oh. mio Dio, che ho fatto! -Non ha fatto nulla di male, signorina, anzi. Mi annoiavo e se lei vuol farmi compagnia.. -Ma io non so… se… -Ho capito. Mi ascolti. Faccia conto che io sia un cliente, la pagherò per il suo disturbo, ma stia qui con me. E’ tanto che non parlo da solo a solo con una donna e mi piacerebbe stare un poco a discutere con lei. -Oh, beh, se non vuole altro! Stettero a lungo a parlare di cose frivole e sciocche, seduti al buio. Lui le aveva posto un braccio attorno alle spalle e, parlando, aspirava il profumo acre, misto di sudore e di lavanda, che emanava da quella donna. La serata passò presto e fu interrotta dal fratello che, impacciato, tossì prima di avvicinarsi e poi chiese: -Franco, sono io, ti accompagno a casa? -No, va tu. Ritornerò tra poco con la signorina, vero signorina? -Si, - rispose quella – lo accompagnerò io sino al portone, stia tranquillo. Il fratello si era allontanato titubante. Poco dopo anche loro si erano avviati. Durante il cammino lei chiese: -Vuol salire in camera mia? - No, - fece lui – se venissi mi sembrerebbe di rovinare tutto. No, accompagnami fino a casa. Sul portone stettero ancora a discutere poi lui, prima di entrare, aprì il portafoglio prese alcune banconote e gliele porse. Quella respinse la mano. -Ora tocca a me dire di no. Non posso accettare e non devi prendere il mio rifiuto come un atto di pietà verso un cieco. Non credo che un giovanotto debba pagare la ragazza con cui ha trascorso una piacevole serata. Se mai l’unica paga reciproca sarà questa. Lo baciò rapidamente sulla bocca e poi si allontanò a passi svelti dopo aver sussurrato un rapido “Addio!” Franco rimase immobile, col sapore di quel bacio sulle labbra. Non la incontrò mai più e non le aveva nemmeno chiesto il nome.
************* DINA
Anche quel giorno, sempre sulla solita panchina, Franco rileggeva per l’ennesima volta il canto quinto dell’Inferno “Per più fiate li occhi ci sospinse/ quella lettura e scolorocci il viso” lessero le sue agili dita. Ecco ciò che a lui non sarebbe mai accaduto. Nessuna donna e lei in particolare avrebbe mai letto una parola nei suoi occhi spenti e attraverso essi la sua coscienza non si sarebbe mai tradita, né il fremito della sua carne mai rivelato anche se il suo cuore era pieno di affetto e di amore per lei. Eppure desiderava tanto parlarle! Di lei non conosceva che la voce e da quattro giorni, da quando l’aveva sentita parlare, quel timbro di voce gli era tornato più volte alla mente sovrastando ogni altro suono. Non sapeva chi fosse; l’aveva solo sentita discutere di cose frivole con un’altra donna, assai più vecchia, da quanto si poteva giudicare dalla voce, che le teneva compagnia. Le due donne erano solite, ogni giorno, occupare la panchina vicina alla sua e stare per ore sedute ora parlando sommessamente, ora rimanendo in silenzio intente forse alla lettura. ‘Chissà se è bella?’ - pensò Franco - Dalla voce si direbbe di sì. E se la voce mi ingannasse? Ma poi a che serve pensare a lei? Avrò mai l’occasione di conoscerla? Potrò mai dirle, una volta conosciuta che sono cieco? No, questo mai! – concluse categoricamente. Il suo orgoglio non glielo avrebbe permesso. Eppure avrebbe tanto desiderato parlarle, come aveva fatto tempo addietro con quella passeggiatrice. -Oh, Dina, la nostra panchina è occupata! – disse una voce conosciuta. -Non importa, mamma, cerchiamone un’altra. - Non ce ne sono – disse dopo un breve silenzio la prima voce. Poi con un tono sommesso. – ce n’è solo una occupata da un giovanotto che legge, vieni andiamo a sederci vicino a lui prima che altri la occupino. Franco chiuse di scatto il libro: era lei, Dina, con la madre e venivano a sedersi vicino a lui. -Permette, è libera – chiese la madre. -Oh sì, prego, - fece lui alzandosi in piedi. Quando le sentì sedute si sedette lui pure. -Mi riposo solo un attimo e poi vado – disse la voce più vecchia, poi soggiunse: - Allora hai deciso di non venire? -No, mamma, mi annoierei terribilmente dalla zia ad ascoltare l’elenco dei suoi acciacchi. Va tu. Passerai a prendermi. Io debbo finire questo lavoro a maglia. Franco si voltò verso di loro con l’atteggiamento di chi guarda momentaneamente incuriosito. Poi riprese la lettura di un libro, non quello di Dante in Braille perché la ragazza seduta accanto a lui si sarebbe accorta che si trattava di un libro per ciechi, ma di un altro, di uno normale per lui anonimo e privo di vita. L’unica cosa che conosceva di quel libro era la prima pagina, strappata volontariamente a metà che gli serviva per non tenere tra le mani il volume alla rovescia. Chiunque l’avesse visto avrebbe pensato che stesse leggendo. Per dare l’illusione completa che si interessasse alla lettura, di tanto in tanto girava le pagine ora in avanti ora all’indietro come se si fosse dimenticato di un particolare e ne andasse alla ricerca, poi riprendeva dal punto in cui si era interrotto. Era diventato abile in quel giochetto con cui ingannava gli altri. Ora desiderava più che mai dare a quella ragazza l’illusione che ci vedesse e attese una occasione per parlarle. Quella però stava in silenzio. La madre se n’era andata ed erano rimasti soli, un po’ discosti l’uno dall’altra. Dal ticchettio continuo dei ferri che si urtavano, aveva ‘visto’ che la ragazza stava facendo la maglia, ma quale lavoro fosse, se una sciarpa, una calza, un golfino, questo non l’aveva capito. -Di che colore sarà la lana? – si trovò a pensare. In quel momento sentì un leggero urto contro la scarpa e udì la ragazza esclamare: - Oh, Dio, il gomitolo! -Eccolo, signorina! - disse, chinandosi a raccogliere l’oggetto che aveva urtato la sua scarpa, il gomitolo appunto, e porgendoglielo, mentre in cuor suo ringraziava la fortuna che gli aveva offerto quell’occasione di attaccar discorso e di rafforzare l’illusione che lui ci vedesse. Una mano morbida e fresca si sovrappose alla sua e gli tolse il gomitolo dalle dita. -Grazie – disse la ragazza – mi rotola sempre a terra. Si direbbe che i gomitoli abbiano quasi una vita e tentino di sfuggire per non essere imprigionati in una maglia. -Che strana idea, signorina! La vita in un gomitolo. -Oh, non faccia caso, mi piacciono le stranezze. -Le piace lavorare a maglia? -Sì. Sono tre giorni che ho cominciato questa sciarpa e se non fossi continuamente distratta da mia madre e da queste bellissime giornate, l’avrei già finita. -L’ho vista, infatti, in questi giorni sull’altra panchina – azzardò lui. -Anch’io l’ho notata – fece lei di rimando dopo una breve esitazione. – Io vengo spesso in questo posto perché è tranquillo; c’è sempre poca gente. Oggi, invece, vede quelli? Hanno occupato la mia panchina preferita. -Vedo, - rispose lui volgendo il viso verso il luogo dove sapeva che si trovava la panchina. – Li conosce? – aggiunse. La ragazza stette un attimo indecisa, poi disse: -No. Mi sembra una coppia nuova. Lo posso ben dire perché sono già alcuni giorni che trascorro i miei pomeriggi qui ma non li ho mai notati. -Saranno innamorati? - fece lui sperando in cuor suo che si trattasse di due giovani, in caso contrario avrebbe cercato di salvarsi con qualche ‘boutade’. -Lo credo bene! – rispose lei dopo un attimo di indecisione. – Non vede come stanno vicini! ‘Dio, ti ringrazio! ‘ pensò Franco. ‘E’ andata bene: si tratta di due giovani’ e con più sicurezza proseguì. – Si direbbe anche che siano molto innamorati. Hanno già superato il periodo delle parole, infatti se ne stanno in silenzio e si limitano a guardarsi negli occhi. -Lei, però, deve essere più vecchia di lui – disse Dina dopo un breve silenzio. -Non direi, forse sono i capelli che le danno quell’aspetto, non trova? Ho sempre pensato che una tinta come quella… - poi interrompendosi – come la chiamate voi donne? -Biondastra – fece lei un po’ titubante. -Ecco, sì, bionda – riprese lui – beh, a mio giudizio, una tinta come quella, invecchia, non trova? ‘Mio Dio! – pensò subito dopo – e se Dina fosse una bionda tinta che gaffe avrei fatto! Ma la ragazza non rilevò la considerazione e continuando il suo pensiero, aggiunse: -A parte i capelli sono sempre del parere che sia più vecchia. Però, - aggiunse, cambiando discorso – lo sa che siamo due curiosoni maleducati? -Che male c’è? Mi è sempre piaciuto guardare e analizzare il prossimo e poi loro non se ne accorgono nemmeno; sono tanto assorti e noi parliamo sottovoce. -Ma saranno poi due fidanzati? – riprese lei. -Ritengo di sì – precisò Franco e, giocando d’azzardo in quella strana partita al buio e aggiunse, - Non è un anello di fidanzamento quello che la ragazza porta al dito? -Quello che sembra un brillante? -Non sembra: è un brillante – disse sicuro dopo l’osservazione positiva della ragazza. – Me ne intendo un poco di quei gingilli e quello è un bel brillante: non vede come luccica! -Ci credo – fece lei con una nota di tristezza nella voce - il mio dubbio deriva dal fatto che non ne ho mai avuto uno. -Nessun fidanzato? – chiese lui, nascondendo la gioia; poi non sentendo la risposta, aggiunse: - Mi perdoni, sono veramente indiscreto, non intendevo offenderla. -Ma che offesa, nessuna offesa – rispose con un filo di voce – pensavo a me e guardavo quei due. Loro sì che sono felici. Franco stava per dire qualcosa che potesse consolarla, quando dalla panchina vicina si alzò una voce stridula e un po’ farfugliante. -Maledizione, Teresa, già le quattro! Te l’avevo detto di svegliarmi dopo una mezz’ora. Non hai nessuna considerazione per la mia asma. Lo sai che mi fa male stare all’aria aperta per molto tempo! -O senti – rispose una vocetta tremula – ne ho già abbastanza la notte della tua asma perché me ne preoccupi pure durante il giorno. E poi con questa bella giornata che vuoi che succeda alla tua asma. Sui vieni, andiamo. Prendi il bastone e non appoggiarti a me, lo sai che ho l’artrite! Passi incerti, malfermi che si allontanano lentamente. Franco voltò bruscamente il viso verso la compagna, stupito e altrettanto dovette fare lei perché la sentì esclamare: -Ma allora lei… -Sì sono cieco – confessò lui – cieco come una talpa e lei… lei pure. -E quei due – disse lei cominciando a ridere – quei due fidanzati erano in realtà due vecchietti! Anche lui la imitò e poco dopo entrambi si torcevano dalle risa. -Che buffo! Lei mi ha addirittura detto che era bionda – fece la ragazza. -No, è lei che mi ha indotto a crederlo, Dina. -Come sa il mio nome? -Ho sentito sua madre chiamarla così. Io mi chiamo Franco. Per un attimo stettero in silenzio con gli occhi pieni di lacrime per il gran ridere. Poi Dina, mentre si asciugava gli occhi, fu ripresa nuovamente da una irrefrenabile risata, -E dire che mi ha descritto così bene l’anello di fidanzamento. -E’ stata lei a dirmi che le sembrava un brillante. Risero ancora insieme poi Franco, ritornato serie. Chiese: -E’ da molto che è cieca? -Da due anni. Caduta della retina. E’ stato terribile – aggiunse dopo un breve silenzio. -Lo so – rispose lui – lo so. E adesso che fa? -Praticamente niente; vivo con mia madre e con i miei dischi. -Ama la musica? - chiese lui, interessato. -Moltissimo, la musica è tutto per me; è un mondo che prima non conoscevo.Lei poco fa ha detto che io ho delle strane idee, ebbene io ritengo che il mondo ignori quale sia l’essenza della musica e che solo i ciechi capiscano ciò che effettivamente è. Vede, è facile ascoltare la musica: tutti l’ascoltano, ma io, noi, non solo l’ascoltiamo, ma la vediamo. Ha mai visto… oh, mi scusi, ho usato una parola tabù! -No, Dina, -disse prendendole le mani tra le sue – no, non mi ferisce più la parola vedere. Dica pure. -Ha mai visto – riprese lei con entusiasmo – uno ascoltare la musica? Chiude gli occhi, Quindi nessuna differenza apparente con noi ciechi, solo che poi li riapre e i suoi sogni si interrompono, svaniscono o sono distorti dalla realtà. I nostri no, i nostri sogni durano perché il buio continua. Ascoltavo ieri la sesta di Beethoven, la conosce? -Se la conosco! E’ tra le mie preferite. - Anche la mia – disse lei e Franco avvertì una stretta e un tremito nelle mani che teneva tra le sue. – Ebbene, - riprese Dina con foga – ogni volta che l’ascolto per me una cosa nuova. Ha presente il secondo movimento, la descrizione del ruscello? Ieri, riascoltando quel disco, io quel ruscello l’ho rivisto scorrere tranquillamente in fondo ad una valle tutta fiorita e aperta verso la pianura. Tutt’attorno alberi popolati da una miriade di uccelli. Ne seguivo i gorgheggi, specie quelli dell’usignolo che il flauto, sovrastando gli altri suoni, rende magistralmente. E dopo sono arrivate nubi vorticose, scure, trascinate da quel tremolio minaccioso dei violoncelli e dei bassi che precedono lo scoppio della tempesta. E’ una parte della sinfonia che mi sconvolge e che mi turba. Sento che dentro me c’è qualcosa che si agita, qualcosa di torbido che mi fa quasi star male. -Forse – notò Franco interrompendo quella appassionata descrizione, forse Beethoven ha voluto esprimere in quel brano il proprio sentimento oscuro, confuso, qual è l’aspetto della natura durante il temporale. Anche a me fa lo stesso effetto. Talvolta, invece, penso che il compositore abbia voluto solo preparare il sentimento gioioso che segue, quello che i pastori esprimono dopo la tempesta. - Lo credo anch’io. Dopo quei suoni cupi, infatti, l’alternarsi del corno e del clarinetto che interpretano la melodia pastorale, sono quasi un balsamo inatteso per l’animo precedentemente ferito e quel suono puro dei violini sviluppa la melodia in un crescendo di immensa dolcezza. Tacquero entrambi, immersi nei loro pensieri, poi, Franco, sottovoce disse: -Dina, devi essere bella. Permettimi di ‘vederti’. -Ma come? - chiese lei con voce soffocata in cui si notava un lieve tremore, come di pianto. -Così – rispose lui. E ponendole le mani sul capo, cominciò a sfiorarle i capelli con una carezza leggera, leggera, mentre quelli, fini, sottili, gli si impigliavano tra le dita. Le mani poi scesero sulle tempie, sugli occhi che si chiusero al tocco , fino a soffermarsi a lungo nell’accarezzarle dolcemente le labbra. Poco dopo anche lei prese ad accarezzarlo dolcemente, dolcemente, in silenzio, entrambi assorti nel ‘guardarsi con le mani’ con infinita dolcezza. -Ma guarda che matti gli innamorati di oggi! – disse la voce di un passante. Ma Dina e Franco, con le mani l’uno sul volto dell’altro, in una muta scoperta non lo udirono neppure.
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