METAMORFOSI GEMELLARE

   

- Due, Tonio, sono due! – gli annunciò la levatrice, uscendo dalla stanza dove sino ad allora la Pina aveva urlato come se la stessero scannando.

- Per Dio Santo! Due! Ma come è possibile! E io che non ne volevo nemmeno uno!  - aveva esclamato Tonio cadendo a sedere su un panchetto.

Così erano stati accolti al loro ingresso nel mondo e se alle parole si aggiungono tutte quelle sberle  della levatrice che li avevano fatti diventare più rossi di quanto già non fossero, si deve ammettere che non li avevano per nulla accolti bene. Però Tonio e Pina se li dovettero tenere volenti o nolenti.

Marco e Luca, i gemelli, quasi consapevoli di essere degli intrusi, sembrarono accordarsi per dare il minor fastidio possibile ai genitori. Se l’uno piangeva, piangeva anche l’altro; se il primo stava zitto o dormiva, dormiva e stava zitto pure  il secondo; se Marco aveva fame e voleva mangiare. Luca non era da meno. Così la Pina, quando doveva fare un lavoro per l’uno, lo faceva anche per l’altro sicché le pareva di accudire un solo figlio e non due.

Nemmeno nel crescere si  guastarono. La gente che passava vicino alla fontanella che sgorgava nei pressi della casa di Tonio  poteva vedere i due marmocchi vestiti di una corta camiciola, sporca di terra, coi culetti nudi, rossi e macchiati di fango, pasticciare  nell’acqua giocando tranquillamente.

- Toh, guarda i ‘binelli’ come si divertono in santa pace! Eh, Pina, siete fortunata con quei due maschi!

- Beh, ringraziando Iddio, non mi posso proprio lamentare. Mi danno poco fastidio.

A sei anni avevano cominciato assieme a frequentare la scuola e a sette i ‘binelli’, sempre in coppia, all’uscita della scuola, ciascuno con un tozzo di pane su cui era stato sfregato dell’aglio e poi cosparso di olio e di sale, se ne andavano a pascolare le capre sul greto del torrente in mezzo ai giunchi e alla folta erba che cresceva lungo le rive.

Sempre insieme nel lavoro, insieme nel gioco, insieme nel ricevere le busse e nel vendicarsi. A parte qualche schiaffo da parte della madre, i ‘binelli’ (ormai così erano soprannominati in paese) non le avevano mai buscate sode. Il padre si preoccupava ben poco di loro. L’unica volta che lo fece e che si tolse la cinghia fu quando Pietro il bottaio gli venne a riferire che Marco e Luca avevano provocato un mezzo disastro nel  suo orto, svuotandogli il pozzo che conteneva l’acqua per irrigare. Personalmente Pietro non li aveva visti, ma gli era stato riferito da un suo vicino.

E Pietro assistette con maligna soddisfazione e compiacimento alla fustigazione casalinga che lasciò le natiche dei ‘binelli’ striate  di rosso per alcuni giorni senza avere la minima possibilità di sedersi  e di riposare un poco. Unico neo di quell’avventura era che i ‘binelli’ non avevano mai pensato di svuotare il pozzo a Pietro il bottaio. E volendo  vendicarsi del bottaio e di chi li aveva ingiustamente accusati pensarono al modo di rivalersi per le busse  subite.

Qualche giorno dopo il bottaio e l’accusatore, andando a lavorare nei rispettivi orti, trovarono che i pozzi erano vuoti, l’acqua aveva invaso tutto il terreno lavorato e tutte le piante di pomodoro, di fagioli, di patate, di zucchini erano state tagliate alla radice a colpi di zappa.

Sì, i ‘binelli’ nelle loro azioni erano sempre uniti e lo furono anche, qualche anno dopo, nell’amore. Non ci fu da stupirsi se entrambi, senza saperlo, si innamorassero della stessa ragazza. Quantunque fossero nati assieme, cresciuti assieme, dato che non erano legati come fratelli siamesi e che certe cose si preferisce farle da soli, accadde che si sentissero attratti dai begli occhi della frivola Ninetta che concesse loro (non erano forse gemelli?) i suoi favori.

La cosa purtroppo non rimase segreta a lungo e non poteva, data la poca discrezione della Ninetta che non si preoccupava affatto della sua reputazione e invitava alternativamente i due giovani in casa sua. Si ha un bel parlare della fratellanza umana ed ancor più del vincolo naturale, ma quando c’è di mezzo il proprio interesse, la fratellanza non è altro che un nome vuoto, privo di significato. E ciò valse anche nel caso di Marco e Luca.

Venuti a conoscenza che entrambi godevano i favori della stessa donna, per la prima volta nella loro vita, si divisero. Amicizia fraterna, vincolo di sangue, sesto senso che lega i gemelli, tutte balle!

Se ne accorsero la volta in cui si incontrarono per le scale di Ninetta, uno che saliva e l’altro che scendeva.

-Tu qui? – disse il primo.

-Tu, piuttosto, che ci fai? – aveva ribattuto l’altro.

Quando entrambi avevano compreso che cosa ci facevano per quelle scale (e non ci voleva molta intelligenza per arrivarci) cessarono di parlare e cominciarono a discutere con i pugni. Avvinghiati l’uno all’altro rotolarono per le scale finendo fortunatamente su un  soffice  mucchietto di letame che attutì la caduta, ma non interruppe la lotta.

In breve attorno a loro si radunò un crocchio di spettatori, parte attratti dall’improvvisato match di boxe a pugni nudi, parte anche attratti da quel gusto maligno che spinge ognuno di noi a ridere di gusto quando ci troviamo di fronte a situazioni scabrose e boccaccesche.

Marco e Luca dal canto loro non  si interessavano dei presenti: cercavano di scansare i colpi e di darne. Era quello un nuovo gioco per loro, una situazione imprevista e nessuno dei due voleva porvi termine. Aspettava che lo facesse l’altro Ci pensò però una fontanella che sorgeva nei pressi a risolvere la situazione. I due, avvinghiati strettamente, sdrucciolarono sul selciato bagnato e viscido e finirono nella vasca dell’acqua.  Bastò quel bagno gelato a calmare gli animi e ad accrescere le risate dei presenti.

Ninetta, dalla finestra, aveva assistito alla lotta in silenzio, senza parteggiare per nessuno dei due, poi si era ritirata, sdegnata che la cosa fosse finita senza vincitori né vinti. I due fratelli, grondanti acqua, si erano allontanati in opposte direzioni e avevano lasciato dietro di sé due strisce bagnate, simili a quelle che i cani lasciano quando, dopo essere stati buttati in acqua, risalgono la riva, si scrollano e poi se ne vanno  mogi mogi con la coda tra le gambe.

Quel giorno segnò la separazione dei due gemelli. Non passò una settimana che Marco partì per la Francia, alcuni dissero per Parigi, in cerca di lavoro, e Luca si diresse verso la Svizzera, anche lui per lavorare.

Da allora trascorsero i mesi, poi gli anni e i due si  videro solo di rado, quando ritornavano al paese, finché cessarono non solo di vedersi ma financo di scriversi a Natale e a Pasqua.

-Peccato! - si diceva in paese. – Andavano così d’accordo i ‘binelli’.

E’ proprio vero che gli uomini li puoi tenere uniti solo se li leghi!

Chi non si preoccupò affatto di essi fu Ninetta. Se qualcuno la rimproverava di aver preso in giro i due fratelli, alzava per tutta risposta le spalle e non rispondeva. Due mesi dopo la partenza dei suoi ex-innamorati, lasciò anche lei il paese e non vi fece più ritorno.

Si mormorò  che era dovuta partire perché le era capitato un grosso guaio; si disse che era andata a Marsiglia per fare la cuoca; altri che si era sposata con un marinaio ed era partita per l’America.  Cose se ne dissero molte, ma la verità non si seppe mai, anche perché non interessava a nessuno.  Nemmeno i gemelli si occuparono più di lei. Il ricordo di Ninetta si cancellò in breve tempo e le ferite (se mai ve n’erano state) si cicatrizzarono. L’unica cosa tangibile che l’episodio amoroso lasciò fu un solco profondo, una completa divisione tra quei due esseri prima così legati.

Un bel giorno, però, il destino capriccioso, che aveva loro giocato quel bel tiro, ci ripensò e, dimostrandosi bizzarro e balzano come al suo solito, ritenne opportuno riparare ai torti fatti.

Erano ormai passati molti anni da quel famigerato giorno in cui si erano trovati sulle scale della Ninetta e molta acqua aveva versato la fontana da quando l’amore li aveva divisi. Bastò solo che un baffuto caporale boemo scatenasse una guerra perché i due si ritrovassero al paese di nuovo uniti. Ciò che non poteva unire l’amore, l’unì la guerra. E poi voi andate a dar ascolto a certi pacifisti ben pensanti che urlano contro le guerre!

Marco e Luca, ritornati al paese, ripresero la loro vita in comune; ma ahimè!, quel connubio di animi che li aveva legati in giovinezza s’era ormai disciolto, perduto tra le montagne della Svizzera e annegato nell’acqua melmosa  della Senna. La vita diversa che ognuno di loro aveva condotto, aveva mutato non solo il loro aspetto, ma anche il loro modo di pensare.

Marco (ormai aveva come il fratello passato da tempo la cinquantina) era vissuto a contatto con la cucina d’oltralpe e con la spensieratezza francese, s’era fatto rotondo, in carne, con le guance paffute, un po’ flaccide, sulle quali certamente un pizzicotto avrebbe lasciato un bel segno. Sempre allegro, se ne usciva di casa ogni giorno con il baschetto di sghimbescio e  se ne andava in giro per osterie a pagar bicchieri di vino agli amici di una volta, e a raccontare delle  ‘cochonneries’ imparate in Francia,  che tanto lo divertivano.

Luca, invece, non  era per nulla ingrassato. Al vederlo non lo si sarebbe potuto definire magro, ma nemmeno grasso. Contrariamente al fratello non usciva quasi mai di casa. Preferiva starsene tra quelle stanzacce piccole, informi dai soffitti a botte che gli davano un senso di disagio. Luca dalla Svizzera era ritornato al paese con pochi soldi (del resto neppure il fratello nuotava nell’oro!), in compenso era ritornato con un orologio svizzero in testa.  Per lui la vita non era un qualcosa  ‘che si fugge tuttavia,/ del doman non v’è certezza’. Per lui la vita era un  susseguirsi esatto, cronometrico di avvenimenti predestinati dalla nostra volontà, condizionati dalla nostra mente, per nulla affidati al caso.

Se Luca tirava un sospiro era perché il sospiro in quel momento era richiesto; ne misurava l’inspirazione, l’espirazione, l’intensità, la portata e guai a sbagliare!

Usciva di casa al mattino alle otto precise; mangiava a mezzogiorno in punto; cenava alle sette e trenta.

Marco se la spassava un mondo nel vederlo, alle sette e venti, stendere la tovaglia sul rozzo tavolo della cucina, porre sempre a destra del piatto il coltello e il cucchiaio, a sinistra la forchetta e il tovagliolo accuratamente piegato e infilato in un anello di legno, il bicchiere in alto, di fronte al piatto, leggermente spostato a destra e sedersi impettito  davanti al tutto dopo aver riempito (alle sette e trenta) il piatto di minestra.

Da quel rito non derogava nemmeno se la pasta non era ancora cotta.

-Ci scommetto - gli disse una volta il fratello ridendo – che se una sera a quel tavolo ti ci siedi alle sette e trentuno finisce la guerra!

Ma alle sette e trentuno Luca non si era mai seduto e se la guerra aveva dovuto finire, aveva dovuto cercare altre vie.

Nei primi tempi i fratelli erano vissuti alla meno peggio con i  pochi risparmi portati dall’estero i quali durarono assai più a lungo di quanto non si aspettasse Marco. Come il fratello facesse a fare durare i soldi per tanto tempo, non riusciva a comprenderlo e non si diede mai la briga di scoprirlo. Si accorgeva sì che la sua pancetta scemava sensibilmente e che quando si pesava l’ago della bilancia era sempre in regresso. Ma che farci?

Un bel giorno  decise di non pesarsi più così non si sarebbe più accorto di nulla.

In tempo di guerra però non si può vivere di soli risparmi e fatalmente l’antico mestiere del padre, gli insegnamenti che aveva loro impartito in gioventù durante le ore trascorse a torso nudo sotto il sole cocente con la vanga o il ‘magaglio’ tra le mani, ritornarono tutti quanti. La terra, per fortuna, non era stata venduta; stava ancora là, a pochi chilometri da paese, in una valletta nei cui pressi sorgeva un casolare semi diroccato. Era ancora la stessa terra che li aveva nutriti tanti anni prima e che loro avevano poi dimenticato, quella stessa terra bagnata dal sudore del padre, da loro e che ora, come un’amante che non abbia mai dimenticato il primo amore e lo attende anche se sfiorita e avvizzita, li aspettava affinché venissero a liberarla da quel rovi pungenti, dalle ortiche fastidiose, affinché venissero ad affondare il ferro nel suo seno per farla rivivere, per ridonarle una nuova maternità.

Passarono lentamente i mesi e poi gli anni e la terra rifiorì. Furono loro, invece, a sfiorire a poco a poco, ad incurvarsi sempre più verso quella terra, quell’amante che succhiava instancabilmente le loro forze.

Marco aveva perso un po’ del suo smalto parigino; le sue ‘cochonneries’ sapevano un po’ di stantio e non divertivano più nessuno. Nemmeno lui.

Tra l’altro la vicinanza del fratello lo aveva portato a vivere in quel mondo di precisione che condizionava la vita dell’altro. Luca, lui, era rimasto immutabile. Con cronometrica precisione governava le sue giornate e costringeva il fratello a seguirlo in tutti i suoi desideri e in tutti i lavori che intraprendeva.

Da quando avevano deciso di riprendere la vita contadina, l’uscita di Luca  era stata anticipata alle sei del mattino, alle sette nel periodo invernale. Con abiti da lavoro, ruvidi e  rattoppati, con la vanga o la marra sulle spalle, partivano ogni giorno alla volta dell’uliveto o della vigna e lì passavano tutto il giorno a sarchiare, zappare, a potar viti o ad altri lavori che le piante e la stagione richiedevano.  Le ore passavano in silenzio, sia per la fatica, sia perché non c’era bisogno di sprecar parole per un lavoro imparato sin dall’infanzia. Solo a mezzogiorno spaccato si sedevano sotto un pergolato di viti o ai piedi di un ulivo e lì consumavano le fette di pane brunastro accompagnate da un pezzo di salame, un uovo sodo e un po’ di frutta. Per mandar giù il tutto bastava un vinello leggero, tagliato con acqua per farlo durare di più.

In quei momenti i due fratelli parlavano del passato: l’uno della sua Svizzera e l’altro di Parigi: il primo citando con esattezza luoghi e persone; il secondo mescolando i ricordi come carte da gioco. Talvolta ricordavano (ma ciò accadeva raramente, forse quando Marco dimenticava di allungare il vino con l’acqua) avventure femminili, ma mai accennarono a Ninetta.  Alle due il lavoro riprendeva sino alle cinque, poi, l’uno dietro l’altro, per uno stretto sentiero ritornavano al paese portando ognuno ora un sacco, ora una cesta, ora un fascio d’erba per i conigli.

E così, giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno sempre seguendo il solito tran tran s’erano fatti vecchi, alquanto bisbetici e maniaci. Se forse avessero ragionato sulla loro esistenza si sarebbero  suicidati, ma avevano trovato, per fortuna loro, il rubinetto della salvezza nella sera del sabato e quel rubinetto provvidenziale era lo zipolo della botte. Il fatto che durante il giorno, sul lavoro, bevessero vinello annacquato non voleva dire che i due fratelli non bevessero vino puro. Il vino c’era, buono, forte e saporito e quel vino, per un tacito accordo, lo bevevano solamente di sabato sera, chiusi nella loro cucina affumicata, di fronte al focolare su cui, appeso ad una catena, c’era sempre un paiolo grommato di fuliggine. L’indomani mattina, poi, sbolliti i vapori, espiavano la sbornia della sera uscendo alle sette per recarsi alla prima Messa.

Nonostante nessuno dei due lo  volesse ammettere, il sabato era atteso da entrambi con estremo piacere. Al mattino persino Marco si alzava di buona voglia, cosa che non gli capitava mai durante gli altri giorni della settimana, e in campagna lavorava con lena dandosi da fare più del fratello che svolgeva il suo lavoro col ritmo degli altri giorni della settimana. Ma anche Luca esultava quando arrivava il sabato, solo che lui non lo dava a vedere. Un orologio, quand’anche abbia tutta la corda, non fa muovere più velocemente il bilanciere.

Di ritorno dalla campagna, mentre Marco saliva alacremente i gradini umidi e sbrecciati, già troppo alti per la sua età, Luca lo seguiva con calma cercando sempre di evitare le piastrelle traballanti e di porre il piede sui punti più viscidi. In cucina procedeva con la solita flemma ad apparecchiare la cena, mentre il fratello, dopo avere sistemato i prodotti della campagna, scendeva in cantina alla ricerca del solito fiasco di rossese stagionato al punto giusto. Quando risaliva aveva già gli occhi rossi e infossati tra le guance cascanti e i passi si erano fatti più incerti e traballanti.

A cena ultimata, spenta la luce, al chiarore dei ceppi infuocati e della brace sparsa per tutto il caminetto, davano inizio alla loro piccola orgia familiare la quale preludeva anche ad uno strano comportamento e a un graduale e costante mutamento d’umore.

Se qualcuno avesse potuto spiarli da un pertugio, avrebbe visto che Luca, per il solito così presente a se stesso, così serio e compassato diventava allegro e buontempone, esuberante. A poco a poco il vino, sciogliendogli la lingua, faceva affiorare un altro Luca, un Luca sconosciuto che cantava canzonacce da taverna, tirava giù moccoli a non finire e parlava grasso, blaterando sconcezze.

Al contrario, Marco perdeva la sua abituale vivacità, divenendo di grado in grado, inversamente al livello del vino nel fiasco, più bislacco, e piagnucoloso, tetragono. Allora l’idea della morte, quella della fame, della carestie, delle malattie gli si affollano alla mente e lo facevano tremare di verga in verga. Con voce impregnata di lacrime si dava a raccontare vecchie storie di amici morti, di disgrazie vedute o incitava Luca a pentirsi in tempo dei suoi peccati descrivendogli le pene dell’inferno. L’altro, invece, senza dargli ascolto, cantava con voce stonata, in falsetto, che risuonava lugubre in quella cucina semibuia.

Finito il fiasco, traballanti e a braccetto per sostenersi, l’uno sempre cantando e l’altro cianciando di morte e addirittura recitando il Miserere, si dirigevano verso la camera da letto situata al piano di sopra, si abbattevano su due lettucci di ferro e si addormentavano di colpo senza nemmeno spogliarsi.

L’indomani mattina alle sette, uscivano di casa seri e compunti e andavano ad ascoltare la Messa.

 

Una sera d’autunno, di sabato, le ombre erano già calate da un pezzo e la cucina era immersa nel chiarore rossastro del caminetto, i due fratelli se ne stavano seduti in silenzio di fronte al fuocherello scoppiettante per la legna di castagno ancora verde. La metamorfosi non era ancora avvenuta e il fiasco giaceva pieno in mezzo a loro. Fu Marco per primo a succhiarne una buona golata e a passare il fiasco al fratello.

Bastò quello a sciogliere le lingue.

-Eh! – fece Luca  -  la Svizzera! La conosco bene  io la Svizzera!

-Perché, cos’ha di speciale la Svizzera? – chiese il fratello, prendendo di nuovo il fiasco e poi porgendoglielo  dopo aver bevuto.

-Niente di speciale, ma tutto di bello. Le città, le vie, i prati, le vacche.

-Perché, ti sembrano belle le vacche?

-E non lo sono forse? Belle. grasse, variopinte.

-Caro mio, si vede che non hai visto quelle di  Parigi – lo interruppe Marco riporgendogli il fiasco. – Le ho viste molto spesso sul Lungosenna; brutte laide, con i capelli color stoppia e vecchie. Solo grasse erano. Grosse e grasse. Puah, che schifo! Che vita disgustosa è la  loro. E la nostra poi – aggiunse  dopo essere rimasto un attimo in silenzio. ti sembra bella la nostra?Hai mai pensato a quello che facciamo noi due su questa terra? Schifo, facciamo, come quelle vacche della Senna. Eh, poveri noi, - cominciò a lamentarsi singhiozzando sommessamente – poveri  noi, senza nessuno al mondo. Tu hai me, io ho te, ma noi chi abbiamo? Nessuno. E un giorno tu morirai e io rimarrò solo.

-Tiè, tiè,tiè! – lo rimbeccò l’altro piantandogli con entrambe le mani quattro dita in faccia a mo’ di corna. – Mi sento un Ercole, io. Guarda! – Ed afferrato il fiasco ingollò una abbondante sorsata dopo di che si levò in piedi e, ritto su una gamba, prese a saltellare per la cucina cantando:

 

Carnevale è morto,

grassoccio come un porco,

ma io non sono morto

e non voglio morir.

Ah, ah, ah!

 

-Fratello, - urlò Marco, alzando la mano sinistra con atteggiamento profetico e tenendo con la destra il fiasco – fratello pentiti! Pensa all’inferno! Tu ti stai  dannando – aggiunse dopo aver bevuto. – Anatema su chi muore in peccato mortale! I diavoli ti arronciglieranno, ti strapperanno le budella, ti getteranno nella pece bollente e morirai.

-Uh, uh, che bello! – fece l’altro di ridendo. – Voglio vedere come farà un morto a morire. Ma io non morirò. Sono ancora forte, io! – e si mise di nuovo a saltellare su una gamba, andando ad urtare contro il tavolo su cui stavano ancora gli avanzi della magra cena.

-Sant’Evaristo,  pensa tu a questo dannato – disse piangendo Marco – poni le tue sante mani su quest’anima derelitta!

-Ma che Sant’Evaristo – lo interruppe Luca che era rimasto in piedi stavolta su due gambe. Ah, se avessi una donnetta, una donnetta, una donnetta – si mise a canticchiare.

Fu in quel momento che udirono il picchiotto dell’uscio battere alcuni colpi secchi.

-E’ la donnetta! – gridò Luca e si attaccò al collo del fiasco per darsi un po’ di forza.

-La maledizione su di lei!- borbottò cupamente Marco.

Luca, intanto, si era diretto verso la scala e dall’alto di essa aveva urlato un – Avanti! -  che era rintronato per  le scale sino al tetto e poi, senza attendere la risposta, s’era diretto al suo panchetto e si era seduto a fianco del fratello che continuava a lanciare improperi mescolati a massime morali.

Un istante appresso apparve sulla soglia della cucina un signore ben vestito, con un cappello tipo panama, ornato da un alto nastro, una camicia con delle enormi strisce blu sotto una giacca gialla e una cravatta larga con su dei disegni che in quella penombra non si riusciva a distinguere, ma che raffiguravano alcuni cacciatori che inseguivano una lepre che non si vedeva perché il disegno girava dietro la cravatta.

-Hello, good-night! – fece quel tale rivolto ai due fratelli. – Please, mister Binelli?

-Ah, ah, oh, oh, misterrr Binelli! – gli sbottò a ridere in faccia Luca, che gli si era avvicinato per vederlo meglio. - Vuole Misterrr Binelli – fece rivolto al fratello. – Sei tu tu Misterrr Binelli? – gli chiese andandogli a ad agitare il dito sotto il naso. Poi, rivolto allo sconosciuto, ponendosi un dito sulle  labbra e andandogli vicino – Ssss, silenzio! Eh, eh, - ridacchiò – lui è Misterrr Binelli! – concluse puntando il dito verso il fratello.

-You essere mister… signor Binelli? – compitò lo straniero andando vicino a Marco. Marco nel vederlo avvicinare si alzò malfermo sulle gambe.

-Madonna mia santissima, questo viene dall’Erebo. Aiutami tu! – poi, rivolto al fratello prese a piagnucolare e disse: -Perché mi dai del Binelli? Io ti voglio bene , Luca, siamo carne della stessa carne, sangue dello stesso sangue…perché – Poi, ripensandoci: - Anche tu sei un Binelli,

-Oh no! – disse Luca a sua volta, rifacendogli il verso. - Lui essere Binelli, lui essere Binelli.

Per un poco stettero a recitare quella filastrocca e quando cessò di divertirli, si rivolsero verso lo straniero e l’uno chiese all’altro:

-Ma chi è questo qui? Che vuole da noi? Che ci fa in casa nostra? Ma chi sei? Chi ti conosce?

Luca in uno sprazzo di lucidità si ricordò delle buone maniere e, dando uno spintone al fratello che cadde a sedere su un panchetto, prese dal tavolo un bicchiere già usato, lo riempì di vino e lo porse all’americano.

-Tieni misterrr, prima bevi e poi parla. Anzi,no, aspetta! A quel fiasco ci si vede il sedere, vado a prenderne un altro e vengo.

Quando ritornò dopo dieci buoni minuti, lo straniero stava seduto su una seggiola mezzo spagliata e guardava stupito in silenzio Marco che recitava il De profundis sottovoce. L’aria della sera e il fresco della cantina gli avevano un poco snebbiato le idee, per cui, riempito il bicchiere allo straniero, chiese:

-Che desidera da noi, e chi è?

-Io. Kandinsky, americano, nome di mio padre Kandinsky, ma non  essere my father. Mio padre qui in paese, signor Binelli, e io cercare signor Binelli. Mia madre is born… come dire? Nata, nata qui a Isolabona e dire a me che mio vero padre, my true father essere qui e io voglio lui conoscere. Ecco perché io venire qui da voi.

Marco e Luca erano rimasti in silenzio a guardarlo per tutto il tempo che l’americano s’era sforzato con cenni e con parole talvolta incomprensibili di spiegare la sua presenza, poi Marco, alzatosi in piedi, gli puntò un dito sul petto e disse:

-Dio mio, un ateo! Kandinsky non è un nome da cristiano. Vade retro! Va all’inferno e requiescat in pace.

-Amen – concluse Luca ed poi all,’americano: - se ho ben capito tua madre è di Isola: come si chiama?

-Mommy? Her name is Ninetta, Ninetta, - ripeté - e sempre dire a me che Kandinsky non mio padre, mio padre essere Mister Binelli.

Prima Luca e poi Marco bevvero lunghe sorsate per digerire la notizia e per salutare il ritorno di quel nome tacitamente bandito da tanti anni dai loro discorsi. E il vino, scendendo, fece riaffiorare in entrambi remoti ricordi: una scala buia, la camera di una certa Ninetta sempre allegra e cedevole, una lotta su quelle scale, una lite. Luca si sentì di colpo togliere quarantanni dalle spalle e, rivolto all’americano:

-Che bel tocco di figliola era tua madre: eh, Ninetta, Ninetta! – prese di nuovo a gridare ormai ripartito nel limbo del rossese e poi, cantando – Senti che dolci baci… senti che dolci baci… Bevi Asci, Cadoschi o come accidenti ti chiami… bevi, o Rosmundo, in questo calice - e offrendo tutto il fiasco all’americano, riprese la canzone con voce roca: - Mio padre al porton, mia madre al balcon e  noi nel giardin a darci i  bacin.

Ma Marco, ritto davanti al focolare, con il fuoco alle  spalle che gli conferiva un aspetto diabolico con quei contorni rossastri che lo circondavano, sussurrò con voce appena percettibile rotta dai singhiozzi:

-L’ombra di Ninetta, ecco chi è! Tu, tu, - alzò la voce avvicinandosi traballando all’americano che se ne stava stupito col fiasco in mano a guardare quei due matti agitarglisi intorno – tu fosti la causa della lite che ci divise. Tu dividesti i ‘binelli’ , anatema su di te… e dà qua! – Gli strappò il fiasco dalle mani e bevve.

-Hai detto ‘binelli’? - chiese Luca.  - Questa è bella! Ma lo sai chi abbiamo davanti? Lo sai? Dammi il fiasco e poi te lo dico. – Bevve e poi riprese sempre allegro – Marco, ti presento nostro figlio. Abbraccialo.

I due si buttarono sull’americano e cominciarono a stampargli sulle guance baci sonori, olezzanti di vino.

-Padre, padre nostro- fece Luca.

- … che sei nei cieli … - aggiunse Marco. – Hai capito la Ninetta? Ha avuto un figlio da noi. Questa sì che è bella, bisogna festeggiare il lieto evento: beviamoci sopra. - E il fiasco rifece il giro.

L’americano che, tentando di liberarsi da quei due i quali, volendolo abbracciare, gli si gettavano addosso a corpo morto, non aveva capito nulla dai loro discorsi, ripeté con voce incerta a causa di quel vino cui non era abituato e che già cominciava a fare effetto:

-Ma mister Binelli, chi è di voi due?

-Ih, ih, questo scemo, non ha capito nulla. Glielo dico io Marco? – Poi, senza aspettare risposta – i ‘binelli’ siamo noi, noi siamo gemelli.

- Ho capito, ma my  father, mio padre, mister Binelli… mommy dire un giorno a me “Tuo padre essere uno dei ‘binelli’ “. Capito: Binelli! E io voler sapere quale dei due.

-Io sono tuo padre – fece con voce cupa Marco, buttandogli le braccia al collo e singhiozzando. – L’inferno su di me! Ho peccato, Miserere mei Deus!

- Ma che figlio tuo! – sghignazzò Luca – Buono a nulla, incapace e inibito… inibito – ripeté a se stesso. – Che bello inibito, vero Celiusci… lui inibito. Io sono  tuo padre, figliolo. Vieni qui sul mio petto. Ma prima beviamo.

-Mai te lo cederò mio figlio – saltò su con ira Luca, - tutto mi hai tolto, ma mio figlio no! – e afferrò l’americano per un braccio mentre Marco prese a tirarlo per l’altro. Per un poco stettero a sballottare qua e là per la cucina quel disgraziato che, già ubriaco, si volgeva ora da una parete ora dall’altra chiamando – Padre Binelli, oh padre Binelli.

Alla fine, stanchi, si sedettero tutti e tre di fronte al caminetto che si stava ormai spegnendo.

-Sai cantare, figliolo? – chiese Luca.

-Yes.

-Conosci “Vola colomba”?

-Oh, yes, “Vola colomba”

 -E allora canta.

 

 

L’indomani mattina, quando si risvegliarono nei loro letti di ferro, erano  soli. L’americano non c’era più. Scesero subito in cucina, ma nemmeno lì lo trovarono. C’erano solo i due fiaschi vuoti e un bicchiere.

Quella domenica i due fratelli, uscendo di chiesa domandarono in giro se qualcuno avesse visto uno strano tipo, con una strana camicia e una strana cravatta. No, nessuno l’aveva visto.

La sera, sedendosi alle sette e trenta di fronte al desco su cui stava un fiaschetto di vino tagliato con acqua, Luca chiese al fratello:

-Ma tu te lo ricordi quel tipo di ieri sera?

-Mi sembra  di sì!

-Io no, per me non è mai esistito. Te lo figuri un figlio nostro!