RICORDI

 

Ho sempre sentito dire che l’estate del  1944 fu assai dura, anche in quella valle del Nervia dove quel poco di agricoltura ancora possibile serviva per alleviare alla popolazione certi disagi ben conosciuti un città. Chi, infatti, in tempo di guerra si trova in possesso di un orticello di terra, diventa automaticamente un piccolo re, ossequiato e riverito, oltreché invidiato e maledetto da tutti coloro che si trovano in condizione di aver bisogno di lui; e, in quei momenti, tutti ne avevano bisogno.

Per i contadini della valle, quindi, fino al ’44 la guerra era stata un qualcosa che avveniva lontano, molto lontano e che, pertanto, non li preoccupava minimamente. Ma tutto ad un tratto l’Italia di Mussolini si era fatta più piccola e la vita era diventata più dura per tutti. Io, però, questa durezza non l’ho avvertita, forse perché l’affetto di qualcuno me lo ha impedito.

La mia vita non aveva subito alcun cambiamento da quel lontano 8 settembre del ’43, eccezion fatta per l’arrivo delle truppe tedesche d’occupazione alle quali, quasi tutti, si erano abituati come ad un male inevitabile. Dopo un mese dal loro arrivo erano divenute un qualcosa di comune, di simile a quel muschio che si abbarbica al tronco degli ulivi, dalla parte ombrosa, e non ti dà alcun fastidio fintanto che non ti arrampichi sull’albero: solo allora ti accorgi di quanto sia appiccicoso, sudicio, olezzante di marciume.

L’otto settembre era stato per me un giorno diverso dagli altri. Rivedo ancora i pochi giornali, giunti chissà come, passare di mano in mano, le pagine strappate per dar la possibilità a più persone di leggere contemporaneamente.  “Bodoglio… l’armistizio…finalmente la pace… ora ritorneranno dalla Russia…” erano le parole che afferravo in quel groviglio di gente, di voci, di risa, di sensazioni, di pianti.

La gente era scesa tutta per le strade e richiami festosi lanciati dai portoni, invitavano anche coloro che sembravano più restii a credere alla notizia a scendere nella via.  La gente si abbracciava, si stringeva le mani, piangeva. Non ho mai visto tanta gente piangere come in quel giorno, nemmeno quando la guerra finì sul serio.

Poi qualcuno, giungendo da Ventimiglia, sparse una voce: “Le caserme sono deserte; i soldati sono fuggiti; a Dolceacqua e a Ventimiglia la gente le prende d’assalto. Sono piene di ogni ben di Dio. Ce n’è per tutti, ma bisogna affrettarsi”.

E tutti si affrettarono. Mezzo paese si vuotò. Isolati, a gruppi, con carretti, biciclette, tricicli, partirono tutti alla conquista delle caserme.

Solo alcuni nicchiavano.

-Ma figuratevi se lasciano le caserme incustodite. Matti! Dove andate? Troverete i carabinieri con le armi in pugno!

Nessuno diede loro retta. Dopo la notizia in paese rimasero solo i vecchi e i fascisti che, frastornati dagli avvenimenti e timorosi di rappresaglie, si erano rintanati in qualche soffitta ad attendere lo svolgersi degli avvenimenti.

Anch’’io partii al seguito della fiumana, spingendo un carretto dalle ruote cigolanti e traballanti, pronto a scommettere che lo avrei riportato stracarico di merce. Non era certo la fiducia a difettare in quel momento e a quell’età (avevo tredici anni).

Andare a Ventimiglia, però, era troppo lontano, preferii, quindi, fermarmi, come la maggioranza della gente del mio paese, alle Casermette, poco prima di Dolceacqua.

Lungo la strada tutta a curve che costeggiava il torrente, scorreva un lungo corteo di uomini, donne, ragazzi, tutti eccitati, che si affrettavano, si sorpassavano, si incitavano per arrivare prima. Alcuni portavano sotto il braccio grossi sacchi vuoti, altri casse di legno. Una donna teneva in bilico sulla testa una cesta di vimini e camminava spedita continuando a fare la calza, senza preoccuparsi minimamente del trambusto che l’attorniava.

Al ponte della Barbaira incontrammo alcuni che stavano già ritornando, carichi sino all’inverosimile. Un uomo, curvo sotto il peso di un sacco di farina, procedeva lentamente, a fatica, mentre la moglie, carica anche lei di una cassa di gallette, lo incitava aspramente, furiosamente, ad affrettarsi ché altrimenti, al loro ritorno, non avrebbero trovato più nulla.

-Ci sono i soldati?-  chiedeva qualcuno timoroso di buscarsi una fucilata e non convinto di quanto vedeva. Raramente otteneva risposta e quando l’otteneva si  trattava di un grugnito a fior di labbra.

Poco oltre un gruppo di persone si stava picchiando a sangue per un sacco di farina che giaceva a terra sventrato e col contenuto sparso tutto all’intorno, ormai inutilizzabile. La fiumana di gente continuava a passare accanto a loro senza preoccuparsi della rissa, interessata solo ad arrivare in tempo alle caserme.

Come Dio volle, giunsi anch’io all’ingresso delle Casermette e lasciai il carretto in una cunetta della strada, in mezzo ad altri, ed entrai nell’edificio.

Il gruppo di costruzioni si estendeva per lungo tratto proprio al di sopra della carrozzabile, diviso da essa da un alto muro. Ad ogni finestra dei casermoni c’era gente affacciata che si sbracciava e gesticolava facendo segni a quelli che stavano di sotto e poi scaraventavano giù tutto quello che capitava loro sottomano. All’interno delle camerate, che sino al giorno avevano ospitato centinaia di soldati, tutto era sossopra: brande rovesciate, materassi sventrati che perdevano il crine, seggiole rotte, la fureria in completo disordine con le carte sparse a terra,  vetri in frantumi e uno scaffale rovesciato.

Il magazzino dei viveri era situato in una costruzione più bassa,  tutto a piano terra, ed era là che si rivolgeva l’attenzione e la frenesia popolare.

Dalla porta scardinata usciva una fila di gente che, aprendosi a stento la strada in mezzo alla calca, parte trascinava e parte trasportava ciò che poteva: casse di pasta, sacchi di farina e zucchero, cassette di gallette, casse di scatolame, scarpe, giubbotti militari, pantaloni, maglie.

Una fila, invece, entrava, spingendosi, urtandosi, cercando di sorpassarsi a vicenda, vociando a più non posso e creando così un ingorgo nel passaggio e una confusione inimmaginabile. Chi urlava, chi bestemmiava, chi piangeva per aver ricevuto una gomitata o un calcio: tutti, però, cercavano di entrare.

Dentro, un polverone enorme. Sacchi sventrati lasciavano spandere a terra il contenuto che veniva calpestato e disperso; sacchi strappati, ridotti a brandelli, volavano scagliati da un angolo all’altro, cadevano a terra e si impigliavano tra i piedi. Il reparto scarpe e cuoiame grezzo era tra quelli presi maggiormente di mira. Le pelli venivano strappate di mano ai primi che se ne erano impadroniti e contese tra più persone. Le scarpe, tutte confuse, erano sparse per largo raggio e la gente si dava da fare per cercare la compagna di quella che teneva in mano.

Anche il reparto indumenti era affollato. Chi riusciva ad impadronirsi per primo di un paio di pantaloni grigioverde, di una maglia, di una tuta, raramente li conservava perché qualcuno subito glieli strappava di mano e li perdeva a sua volta. Un giovanotto urlante e tutto sudato faceva volteggiare sopra la testa la manica strappata di un giubbotto, quasi fosse un trofeo.

Incoscientemente anch’io mi gettai in quella bolgia, ma riuscii solo ad impadronirmi di una marmitta da campo in alluminio che riempii con pacchi di gallette che trovai sparsi qua e là a terra dopo che le casse erano state sventrate da qualcuno. Poi, spinto, sballottato,urtato in quella caotica ressa, riuscii ad uscire all’aperto e a portare la mia conquista sul carretto che, caso strano, era ancora nel punto in cui lo avevo abbandonato.

Non si guardava tanto per il sottile in quei momenti. Il primo che trovava un carretto vuoto se ne impadroniva, senza chiedere il permesso a nessuno. Ne sapeva, infatti, qualcosa un ragazzetto della mia età che cercava di ripararsi dai ceffoni di suo padre che urlava perché qualcuno aveva portato via il loro carretto e lui non era stato attento. Parte della rabbia di quell’uomo si riversava sul figlio, parte su alcune casse che aveva ammucchiato lì vicino e che prendeva a calci ammaccandole.

Spingendo a fatica il carretto in mezzo a quella turba di gente che ritornava ognuna con un trofeo più o meno evidente, ritornai a casa dove mia madre mi appioppò due ceffoni per essere stata in pena tutto il pomeriggio.

Però le gallette che portai le mangiammo per alcuni giorni. Erano dure, molto  dure, ma anche molto poche.

La marmitta di alluminio se la prese un mio zio e sparì dalla nostra vista. Non sapemmo che cosa ne avesse fatto fino a quando, dopo alcuni anni, a guerra finita, mio padre non la ritrovò in cantina, sepolta sotto un mucchio di damigiane e bottiglie vuote. Era piena di vecchie carte  e dei suoi risparmi sotto forma di  AM-LIRE, ormai prive di valore.

Dopo l’avventura  di quell’otto settembre la vita per me riprese monotona, uguale.

Mi accorsi appena di molti soldati che bussavano alla porta di casa per chiedere una vecchia giacca e un paio di pantaloni usati in cambio di qualche lira e talvolta di niente e non feci caso  al fatto che alcuni giovani del paese, militari sino a qualche tempo prima, si erano vestiti in borghese ed erano poi spariti dalla circolazione non appena si era sparsa la voce che stavano arrivando truppe tedesche per insediarsi nella valle.

Quando giunsero, le strade del paese erano vuote. Ognuno si era rintanato in casa per paura; solo alcuni fascisti, di quelli che erano rimasti sino ad allora rintanati, li aspettavano in Piazza Santa Lucia, all’ingresso del paese, con in testa il podestà.  Come i tedeschi li salutassero non so: si seppe in seguito che li trattarono un po’ rudemente. Dopo di che isoldati si sparsero in tutte le case del paese, requisendo alcune stanze dove presero alloggio a tempo indeterminato.

In casa nostra ne vennero quattro e occuparono la camera più grande, quella che più mi piaceva, perché sempre piena di luce e di sole e vi misero alcune brande, sistemando poi il contenuto dei loro zaini in una credenza a cui mia madre teneva molto.

Fu allora che conobbi Kurt.

Nei primi giorni i miei e i quattro soldati tedeschi si guardavano appena. Mi sembrava di vivere in uno di quegli enormi caseggiati di città dove la gente, quando si incontra sulle scale, tira diritto senza salutarsi, talvolta senza nemmeno guardarsi. Mio padre, accuratamente catechizzato da mia madre, non apriva bocca quando incontrava uno di quei quattro intrusi, Si limitava ad un cenno di capo.

Mio padre ha sempre tenuto al decoro e alla pulizia della casa e vedersela ora sottosopra, infangata dagli scarponi di quei ‘boches’, come li definiva lui alla francese, gli dava un senso di rabbia tale che, col suo carattere oltremodo impulsivo, sarebbe certamente scoppiato con conseguenze tragiche, se mia madre non lo avesse sempre trattenuto a tempo.

Ricordo che se ne partiva ogni mattino alle cinque per la campagna e là, nei campi o nell’orto, si sfogava con le piante, spaccandole a colpi d’accetta, tagliandole, smozzicandole o se la prendeva con la terra in cui affondava con rabbia il ‘magaglio’ con colpi tremendi che facevano penetrare profondamente i rebbi d’acciaio dell’attrezzo nella terra, tanto da provocar scintille quando uno di essi incontrava qualche sasso duro. Solo così si calmava un po’, ma poi la sera, benché stanco, al suo rientro a casa ricominciava a caricarsi come una molla.

Mia madre taceva. Soffriva nel vedere le piante trattate a quel modo, ma taceva. Il quel periodo mia madre ha sempre taciuto, eccetto quelle rare volte in cui frenava con qualche parola mio padre.

Io allora frequentavo la scuola  media e me ne andavo ogni giorno in bicicletta sino a Ventimiglia in compagnia di due amici. In quei tempi mi piaceva correre, anche se il mio fisico, alquanto rotondetto, mi era di qualche impaccio e mi costringeva a giungere sempre ultimo in tutte le corse  che ingaggiavamo lungo lo stradone non asfaltato, sconnesso e tutto buche.

Fu durante una di queste corse che mi successe un guaio e fu Kurt a tendermi una mano.

L’amicizia di Kurt con la mia famiglia cominciò un mese dopo l’insediamento delle truppe antipartigiane in Val Nervia. Un giorno, ritornando da scuola, mi accorsi che la cartella che avevo messo sul portabagagli posteriore non c’era più.  Probabilmente era scivolata via durante una forsennata corsa con i miei due amici… ed essendo sempre ultimo, nessuno l’aveva vista cadere.  Tutti i miei appunti e le traduzioni dal De Bello Gallico li avevo perduti per mia negligenza e dubitavo di poterli ritrovare.  Piangevo mentre salivo le scale e Kurt che usciva dalla sua stanza mi vide. Non mi aveva mai rivolto la parola,  neppure ai miei.

- Che hai? – mi chiese.

Lo guardai stupito. Non sapevo che conoscesse  l’italiano.

-Ho perso la cartella.

-E piangi per questo?.

-C’erano tutti i capitoli di Cesare tradotti. E l’insegnante mi metterà una nota di demerito.

-Puoi tradurli di nuovo!.

- E come faccio!  E poi il quaderno che ho perso era tutto corretto.

-Non preoccuparti, va a casa. Tra poco verrò a trovarti.

Poco dopo venne. Aveva una cartella alquanto usata. Presa chissà dove. E un quaderno nuovo. Mi regalò tutto e poi, presa l’antologia latina che fortunatamente quel mattino avevo dimenticato di mettere in cartella, si mise al lavoro dettandomi tutti i capitoli che avevamo tradotto in classe. Conosceva il latino alla perfezione.

I miei nel frattempo erano ritornati dalla campagna e non avevano detto nulla nel vedere il tedesco che mi aiutava a fare i compiti: lui, da parte sua, aveva accennato ad un rapido saluto. Solo mia madre, poco dopo gli portò un caffè fatto con  cicoria e addolcito con un cucchiaio di miele (allora lo zucchero era troppo  caro). Venne anche mio padre e si sedette in silenzio in un angolo a guardare.

Kurt, dopo la traduzione, fece l’atto di andarsene. Fu allora che mio padre gli offrì un bicchiere di  vino e il soldato  si fermò a parlare con lui.

Apprendemmo che Kurt, prima della guerra,  aveva studiato per  qualche anno all’università di Firenze, poi era ritornato in Germania dove aveva insegnato in una scuola per un anno e poi, scoppiata la guerra, era stato arruolato nella Wermacht. Dei fatti che gli erano accaduti in seguito raccontò ben poco. Traspariva dalle sue parole una certa reticenza ad accennarvi. Doveva essere uno di quei pochi a cui “il caporalaccio boemo” non andava a genio. Ma se così era non lo diede a vedere. Riusciva a nasconderlo molto abilmente. Da quel giorno Kurt venne molto spesso in casa mia. 

Gli piaceva ascoltare i miei  raccontare episodi del passato. Prima di ritornare a lavorare la terra, avevano a lungo lavorato in hotel della Costa Azzurra. Anche lui parlava volentieri della sua infanzia e gustava il dolce Rossese, quel vino saporito, nonostante mio padre, per economia, lo allungasse a malincuore con qualche bicchiere d’acqua.

Una sera chiese a mio padre se con il nostro apparecchio si poteva prendere anche Radio Londra.  Mio padre, prima di rispondere, guardò mia madre, poi guardò fisso Kurt e rispose.

-Non lo so, se vuol provare lei?.

Kurt sorrise ed accese l’apparecchio. Poco dopo le prime note della Quinta sinfonia di Beethoven  si diffusero in sordina nella stanza.

Da quella sera, in barba ai rigorosi divieti del governo, in casa mia si prese sempre Radio Londra o, per essere più precisi, Kurt la prese e i discorsi con mio padre si fecero più chiari, ma che cosa si dicessero non so perché in quelle occasioni venivo mandato a letto.

Poi vennero i bombardamenti, dei bombardamenti in miniatura, ma pur sempre paurosi. Ogni giorno tre aerei della RAF sorvolavano la valle e giunti sopra il Monte Toraggio, viravano e picchiavano, sganciando ognuno due bombe nell’intento di centrare i ponti che sovrastavano il torrente Nervia.

Impresa vana. Non li centrarono mai.  I ponti furono distrutti nel 1945 da genieri tedeschi per proteggere la ritirata delle truppe germaniche sotto l’incalzare dell’offensiva delle forze alleate anglo-franco-americane.

A scuola in quel periodo era quasi impossibile andare perché ogni giorno la stazione ferroviaria di Ventimiglia, i due ponti sul fiume Roja e gli altri due sul torrente Nervia erano costantemente presi di mira da formazioni di fortezze volanti che scaricavano le loro bombe un po’ dappertutto, tranne che sugli obiettivi. La cittadina di Nervia, all’intersezione tra l’Aurelia e la provinciale, la strada che avrei dovuto percorrere per andare a scuola, era un mucchio di macerie. Tutte le case, rovinate e sventrate, mettevano in mostra le miserie interne e le stanze, semidistrutte lasciavano intravedere le tappezzerie stinte con grosse macchie di umido per le ultime piogge. A scuola, quindi, non andavo più. Il mio compito in quel periodo era quello di portare al pascolo Cirò, la capretta di famiglia, cui era affezionato.

Ogni mattino il paese si svuotava per timore di quelle sei bombe quotidiane che dovevano cadere da qualche parte e che non fecero danno alcuno se non agli orti e al greto del torrente. Io, comunque, in compagnia di Cirò  prendevo la via dei monti.

Un mattino mi trovavo nei boschi di Amurgheta, proprio là dove gli uliveti cessano e  le  pinete prendono il sopravvento. La giornata era limpida e serena. Vedevo in lontananza Dolceacqua col suo ponte romano a schiena d’asino, il Castello dei Doria sovrastante tutte le case, l’orfanotrofio allora occupato dalle truppe tedesche e tutta la strada snodarsi costeggiando il torrente.

Cirò si arrampicava nei posti più impensati per brucare teneri germogli e si voltava di tanto in tanto verso di me per vedere che cosa facevo. Se non fosse stato per qualche formazione aerea che passava altissima sopra la mia testa si sarebbe detto che la guerra non c’era, non poteva esserci.

Allora ero appassionato di letteratura francese, anche se le mie conoscenze si fermavano alla lunga serie di Fantomas e ai feuilleton  in cui  Ponson du Terrail raccontava le avventure di Rocambole. Tra le mani quel mattino avevo  un libro di quest’ultimo. Venni distolto dalla lettura da alcune voci provenienti da una macchia di noccioli.

-Ehi, Drago che ne diresti di quel costone laggiù? C’è uno spiazzo abbastanza largo per sistemare il mortaio.

- No, troppo angolato. Di là non si può battere la strada. Quella fascia laggiù mi sembra più adatta. In fondo si tratterà di pochi colpi di disturbo e ritengo inutile trasportare il mortaio fino al costone. Ricordati che dovremo allontanarci in fretta e la fascia è più vicina al sentiero.

-Bene, come vuoi. Il capo sei tu.

Li vidi venire dalla mia parte; erano in due e uno di loro mi salutò chiamandomi per nome. Lo riconobbi subito: era uno di quei giovanotti che, dopo l’otto settembre, avevo visto aggirarsi in paese con vestiti borghesi, poi era sparito dalla circolazione. Ora stava davanti a me, un po’ dimagrito, con capelli e barba lunghi, incolti, abbronzato nonostante fossimo in primavera e con i vestiti qua e là strappati e rammendati alla meglio.

Sorrisi nel vederli, pensando ai rammendi di Kurt. Avevo visto spesso Kurt mentre, si rammendava abiti e calze. Era di una meticolosità assoluta. Con un ago riprendeva i fili della trama uno per uno e costruiva un intreccio preciso, simmetrico là dove prima c’era un buco. Passava delle ore con l’ago in mano. I rammendi di quel giovane che mi stava di fronte erano alla buona e davano l’impressione che, quando li aveva fatti, avesse avuto troppa fretta.

-Senti, Drago, io mi fermo un po’ qui. Vai tu a sistemare la piazzola.

-D’accordo – fece l’altro, allontanandosi. – Tempo ne abbiamo a sufficienza. Gli altri arriveranno in seguito col mortaio.

Il giovane si sdraiò pancia all’aria vicino a me e per un poco rimase a guardare il cielo masticando un filo d’erba.

- Come va in paese?.

- Bene-  risposi.

- Hai visto mia madre?-.

- Sì, ieri, con vostro padre. Andavano in campagna.

- Non darmi del ‘voi’; non sono così vecchio e poi il ‘voi’ mi ha sempre dato fastidio. E come stavano i miei?.

-Bene- risposi di nuovo.

Tacque per un poco. Poi riprese a parlare a voce bassa.

-Hai visto per caso la Lina?-  Le parole gli erano uscite a stento dalla bocca, quasi con sforzo.

-Sì.

-L’hai vista insieme ai miei ?.

-No.

-Era con qualcuno?.

-Sì.

-Senti, non rispondermi a monosillabi, tanto so tutto. Era in compagnia di qualche tedesco?

-Sì- dissi e, mentre abbassavo il capo, vidi la sua faccia indurirsi.

Poi cambiò discorso.

-Giocate sempre a ‘pimpirinella’?.

-Qualche volta, quando è possibile. Ora in piazza ci sono dei camion tedeschi e i soldati ci allontanano sempre. Però, quando è sgombra riusciamo a giocare.

- Beati voi!.

Si sentì in quel momento il rombo di tre aerei inglesi che giungeva dalla Francia, da dietro Monte Agel. Li vedemmo all’improvviso sbucare dietro una montagnola, radere la sommità dei pini, passare sopra le nostre teste tanto vicini che si videro i piloti nella cabina. Stavano scendendo in picchiata per bombardare il ponte della Barbaira. Si videro le bombe staccarsi da sotto le ali degli aerei. Due per ognuno di essi. Poi i velivoli cabrarono dando l’impressione di sfiorare le colline e  disparvero. Nel fondo valle alcune nere volute di fumo si innalzavano.

-Paura?- mi chiese.

-No, vengono tutti i giorni, ormai è una a abitudine-  dissi, ma dentro di me tremavo.

Si alzò e fece per allontanarsi senza dir nulla. Poi si fermò.

-Se vedi i miei, salutali- disse. Poi, ripensandoci, aggiunse: -No, saluta solo mio padre, penserà lui ad avvertire la mia vecchia, ma bada, diglielo quando non c’è nessuno intorno che possa sentire. Digli di ricordarsi di Veonixi.

E se ne andò senza aspettare risposta per raggiungere il compagno che con una corta vanga stava lavorando in una fascia. Poco dopo ripassarono e quello che si chiamava Drago mi disse:

-Piccolo, prendi la tua capra e vattene a casa. Oggi questo posto non fa per te e bada bene di non dir nulla a nessuno. Intesi?.

L’altro mi fece un semplice cenno.

Quel pomeriggio a Dolceacqua piovvero alcuni colpi di mortaio che danneggiarono un capannone pieno di viveri e giunsero pericolosamente vicini ad un deposito di munizioni.

Non dissi mai a nessuno di aver visto quei due partigiani nei boschi di Amurgheta.  Riferii solo al padre quel che suo figlio mi aveva detto. Era in un vicolo, quando lo incontrai. Appena gli accennai di suo figlio, mi prese rudemente per un braccio e mi trascinò in un portone. Volle sapere mille cose prima di lasciarmi e gli risposi come potei. Andandosene mi fece una carezza.

Alcuni giorni dopo si sparse la voce che i tedeschi, durante un giro di perlustrazione, avevano catturato un partigiano a Veonixi e l’avevano ucciso bruciandolo. La notizia, sussurrata appena, in breve fece il giro di tutto il paese. Non appena lo seppi cominciai a tremare. Forse era il giovane che avevo visto ad essere stato ucciso. Non era lui. Lo seppi qualche tempo dopo. Si trattava di un altro giovane, un mio parente molto alla lontana. Era in fondo un po’ parente di tutti. In un piccolo paese si è sempre un po’ parenti.

Il tempo, intanto, passava ma i tedeschi rimanevano, anzi ne erano venuti molti altri e Kurt ci spiegò il perché

-Vedete, - diceva – questa è una delle poche strade che ci collega con Cuneo, col Piemonte. Occorre vigilarla, e tenerla sgombra nell’evenienza di una ritirata. Quindi ci saranno molti rastrellamenti perché ci sono i partigiani sui monti. Quando ce ne andremo, prevedo che i nostri genieri faranno saltare tutti il ponti della valle.

Dopo un po’ di tempo Kurt parlava senza reticenze. Hitler, lui  ci confessò un giorno chiaro e tondo, non l’aveva mai potuto soffrire e aveva sempre pensato che a suo  parere non avrebbe mai vinto la guerra.

-Allora, perché non scappa?-  gli aveva chiesto mio padre.

- E dove? Dai vostri non sarei accettato: sono tedesco. I tedeschi se mi ritrovassero mi fucilerebbero. Eppoi non ho più voglia di combattere. Sono stanco. Ero insegnante e mi hanno costretto a fare un lavoro che non mi piace, che non mi sento di fare, perché gli italiani li conosco e i sette anni trascorsi a Firenze non li potrò mai dimenticare. E poi, non ve l’ho mai detto:  ho la fidanzata a Milano; è una italiana che ho conosciuto quando ero di stanza in Lombardia.

Ora, ripensando a quelle parole mi salgono alla memoria i versi del Giusti: “Povera gente. lontana dai suoi / In un paese qui che le vuol male”.

Ma, in fondo, erano proprio brava gente?

Ne avemmo una prova una settimana dopo, la sera del due marzo.

Il giorno prima c’era stato un rastrellamento sui monti, nei dintorni  di Pigna. C ‘erano stati scontri a fuoco e morti dall’una e dall’altra parte. Alla sera le pattuglie tedesche erano ritornate con otto partigiani fatti prigionieri che erano stati chiusi in una stanza del Municipio.

Li vedemmo l’indomani mattina, scortati da alcuni soldati col fucile pronto a sparare, andare, ognuno con una scopa, a pulire le vie e la piazza del paese. I contadini che, andando al lavoro, passavano accanto ad essi, li guardavano appena, per timore di quei fucili spianati, ma credo che a quei poveretti bastasse anche una occhiata perché il gelo che avevano dentro si sciogliesse. A mezzogiorno li riportarono in Municipio e nessuno li vide più.

Erano le cinque della sera quando Kurt venne da mio padre. Io stavo traducendo Pace  di vita campestre di Tibullo  e mio padre stava spannocchiando del gran turco quando il tedesco entrò. Si sedette vicino a me senza parlare; guardava il mio compito, ma non si curava affatto degli errori di traduzione che facevo. A testa china disse sottovoce:

-Gli otto partigiani che hanno preso li fucileranno stasera sul cimitero, dopo il coprifuoco. Lo fanno per rappresaglia. - Stette poi in silenzio mentre mio padre lo guardava con una pannocchia stretta tra le mani; e sempre a testa bassa Kurt soggiunse: -Sono solo un semplice soldato, io. -E se ne andò.

Quella sera ci eravamo riuniti a pianterreno, da mia zia. Nessuno parlava, solo mia zia piangeva e teneva un rosario in mano. Un lume scialbo illuminava la stanza: fuori era buio completo.

 Il cimitero era a soli cento metri da casa mia. La raffica ci sorprese all’improvviso e fu seguita da otto colpi singoli. Se ci furono urla nessuno di noi le udì. Ma urla ce ne furono. Si dice  che nessuno degli otto volle salire le scale del piccolo cimitero e sembrò che col loro rifiuto avessero voluto dire che sul cimitero ci si va solo per pregare su una tomba o solo da morti.  Per morire non ci si vuole andare.

E quegli otto non ci andarono: urlando e piangendo, con le mani legate con fil di ferro, si fecero fucilare là dove oggi, incastrata in uno di quei muretti a  secco che costeggiano molte strade liguri, è stata posta una lapide che li ricorda:

 

LA SERA DEL 2. 3. 45.

LA BARBARIE NAZIFASCISTA

INCHIODO’ IN QUESTO LUOGO

L’ARDENTE GIOVINEZZA DI OTTO

PARTIGIANI D’ITALIA:

 

AIMO DOMENICO                             DI ANNI 17               BUGGIO

PASTOR ATTILIO                                          -   17               BUGGIO

VERRANDO PRIMOLINO                             -   21               BUGGIO

PALLANCA ANTONIO                                 -   23               AIROLE

SCUITTO UMBERTO                                     -   20               CAIRO MONTENOTTE

VIVALDI BENEDETTO                                  -   25               TAGGIA

MASSA VITO                                                  -   21               RIPACANDIA (Potenza)

GRASSI GIULIO                                             -   21               MILANO

 

A N P I  di Isolabona   25.4.45.

 

Sono passati vent’anni da allora. La lapide è sempre là, un po’ stinta, con i nomi un po’ sbiaditi dal tempo. La gente se ne ricorda solo nell’anniversario della liberazione. Di rado ci sono fiori freschi.

La rividi qualche tempo fa durante una passeggiata e mi fermai per un attimo a ricordare quella sera.

Un ragazzino di forse dodici anni,l’età che avevo io quando l’episodio accadde, uscì dal cimitero saltellando, con alcuni fiori in mano e, passando davanti alla lapide, li pose in un vaso.

Gli chiesi:

-Perché hai posato i fiori lì?.

-Ho visto che non ce n’erano.

-Da dove vieni?

-Da visitare la tomba di mio nonno.

-Lo sai di chi sono questi nomi?

-No.

-Nessuno ti ha mai raccontato che cosa hanno fatto?

-Nessuno?

-Lo sai come sono morti?

-No.

-E tuo nonno come è morto?

-E’morto a letto, di vecchiaia. Aveva novantaquattro anni.