DUE CANI: TRENTA DIRHAM
-E sia ben chiaro! Ho visto la Medina di Tangeri per curiosità; ho visto quella di Rabat per fare un confronto; quella di Casablanca perché mi hai convinto che era meno sporca e caotica delle altre, e non era vero, ma quella di Fez, se vuoi, te la vai a vedere da solo. Io non ci vengo, nemmeno se mi offrissero tutto l’oro del Sultano! Di puzze ne ho già sentito abbastanza: il mio naso è sazio. Mia moglie era stata categorica. Effettivamente, ora che mi trovavo da solo, constatavo che I, mia moglie, aveva ragione, almeno per metà, ma per quella metà non potevo assolutamente darle torto. Se però si vuole vedere qualcosa di caratteristico, non bisogna guardare tanto per il sottile. Una cosa piace solo quando si ha la possibilità di confortarla con altre cose più o meno belle. Che gusto si può provare nel vedere una città ordinata, con un piano urbanistico perfettamente rispettato, con piazze e strade sempre pulite e sgombre e nelle quali si può passeggiare senza fare attenzione a dove si posa il piede? Il sapere di non trovare intoppi ha sempre intorpidito la mente e le ha sempre impedito di cogliere certi aspetti e scorci della vita o della natura che le sarebbero parsi belli o almeno dilettevoli. Quando la pulizia fa parte del nostro habitus mentale, vedere il pulito non ci dice mai niente. E’ quando si nota il contrasto che la cosa diventa interessante e più un ambiente è sporco e lercio, lurido, più il nostro senso del pulito si sente attratto. Me ne resi conto perfettamente quella mattina non appena oltrepassata la porta di Bab-bou-Djelud, mentre scendevo per una stretta viuzza piena di arabi, di asini e di turisti. -Beautiful, very beautiful” – esclamava una inglesina piena di efelidi ad una amica mentre guadavano estasiate dentro una cupa bottega da cui usciva un odore nauseabondo. Ci scommetto che se avessero visto la stessa cosa in Inghilterra avrebbero subito chiamato un policeman. -C’est vraiment superbe! – constatava poco oltre una attempata signora che con occhio materno accarezzava un gruppo di bimbetti i quali, con la testa impataccata da una spessa e dura crosta di henné, pasticciavano in alcune pozzanghere nei pressi di una fontanella artisticamente decorata con piastrelle multicolori. La stretta viuzza che dall’alto della porta di Bab-bou-Djelud scendeva tortuosa nel cuore del quartiere arabo, era piena all’inverosimile. Gruppi di arabi ricoperti di abiti stracciati, portavano stupendi tappeti, parte appoggiati sulla schiena e parte distesi in bella mostra sulle braccia, importunavano i turisti con le loro offerte; piccoli asinelli con ampie borse appese ai lati, piene di terriccio, sabbia, pelli o verdure, procedevano a testa bassa, incuranti di urtare o di essere urtati. Dalle botteghe che, in fila interminabile costeggiavano le viuzze, uscivano gli odori più disparati e attraverso le vetrine impillaccherate di fango e di zacchere di mosche, si intravedeva la merce esposta nella penombra: carne macellata, pesci, frutta, dolci, tutto coperto da grossi tafani o da moscerini, tutto esposto alla polvere, tutto toccato e palpeggiato da mani che raramente avevano avuto contatto col sapone. Assai spesso la presenza di lunghe file di piatti di rame sbalzati e lucidi, sui quali rimbalzavano lame di sole, indicavano i bazar in cui, per poco prezzo si potevano acquistare teiere in rame, pugnali o moschetti del Rif, cuscini e marocchinerie. Immancabile sulla porta un ragazzetto col fez in testa che fermava i turisti e, tirandoli per un braccio, li costringeva ad entrare “almeno per vedere la merce”, aggiungeva quando quelli venivano catapultati all’interno. Là dove la viuzza si allargava un pochettino accennando appena ad una piazza, pochi tavoli e alcune seggiole stinte indicavano la presenza di un bar, per lo più una spelonca da cui usciva un aromatico profumo di tè alla menta. Vincendo ogni repulsione, m’ero seduto proprio ad uno di quei tavolini e avevo chiesto al cameriere subito accorso un tè alla menta. Cullato dal brusio continuo e sempre più in aumento quanto più ci si avvicinava al mezzogiorno, guardavo il via vai incessante della folla, cercando di capire perché quella gente volesse vivere in quel modo a pochi passi dal quartiere moderno dove la vita aveva un bel altro ritmo e una ben altra forma. La soluzione, logicamente, non l’ho trovata e non ho tentato nemmeno di farlo. -A loro piace vivere così – mi aveva detto uno studente arabo – perché tentare di cambiarli?’ – E, troncando sul nascere una mia argomentazione, aveva aggiunto con sottile sorriso – Pensi un po’ al suo Galileo: diceva delle sacrosante verità, però la gente, memore degli insegnamenti dei vecchi, voleva pensarla in modo diverso. Allora non avevo capito che cosa e come c’entrasse Galileo nel nostro discorso. Ora, invece, mi rendevo conto che se uno vuol credere che il sole gira intorno alla terra , ebbene è libero di farlo purché non dia fastidio agli altri, che la pensano diversamente, ed è anche perfettamente inutile andargli ad insegnare il contrario. Seguendo il filo dei miei pensieri, senza accorgermene, m’ero messo a fissare attraverso la porta aperta di una piccola bottega di un fabbro, l’interno vagamente illuminato da un fuocherello di carboni ardenti. Un bimbetto di forse otto anni, ritto su uno scalino, azionava con un piede un grosso mantice che alimentava il braciere in cui erano immersi lunghi ferri incandescenti, Un arabo nero di carbone e sudato piegava e ripiegava meccanicamente e senza premura il ferro rosso, incandescente e malleabile che, una volta sagomato veniva gettato in un angolo a raffreddare. I gesti dei due erano sempre uguali, il ritmo del mantice costante, i colpi del fabbro sull’incudine dosati e misurati. Due macchine non sarebbero state più sincrone. Gli arabi passavano davanti alla bottega senza interessarsi dei due; solo gli stranieri si fermavano a guardare, attratti più che altro dal bimbetto, dal suo musetto triste e da quel lavoro cui era costretto, lavoro che se a prima vista poteva parer poco faticoso, alla lunga diventava estenuante. Il fabbro e il ragazzo, comunque, incuranti della curiosità destata, continuavano a lavorare alacremente in silenzio. Ciò che rompeva il ritmo nella bottega era la presenza di un cagnolino dal pelo sporco, non più cucciolo e non ancora del tutto adulto, che girava attorno al bimbo e gli si accucciava ora ai piedi, ora lo leccava, ora gli metteva le zampe addosso. Senza interrompere il lavoro il, ragazzo lo accarezzava o lo spingeva via, senza sgarbo, quando la bestia diventava troppo intraprendente. Il fabbro non diceva nulla: notai, però, che il cane non gli si avvicinava mai. Per un poco rimasi a guardare i tre poi i soliti venditori ambulanti, insistenti, importuni, presero a girarmi attorno con la loro merce e mi distrassero. Quando potei nuovamente guardare nella bottega, il lavoro era fermo. Tre europei, madre, padre e un bimbo forse della stessa età dell’altro, discutevano con l’arabo. In verità a parlare col fabbro era la donna mentre padre e figlio discutevano tra di loro: oggetto della discussione, il cane. -Papà, compramelo! Compramelo, lo voglio! – diceva con voce piagnucolosa il ragazzino tutto pulito, pulito e pettinato come un angioletto. -Paul, non te ne fai niente di un cane! Come facciamo a portarcelo dietro? Ne hai già uno in Francia. -Ma questo lo voglio adesso! – ordinò pestando il piede per terra. – Mamma, di’ al fabbro che te lo venda! Mi piace, lo voglio! -Sta calmo, tesoro, mamma ci pensa subito. Ora te lo compra. -Ma, Denise, vuoi proprio comprargli quel cane? – l’apostrofò il marito, senza però alcuna inflessione nella voce. -Sì, perché? – rispose lei acida. – Ti dà forse fastidio? Se Paul vuole quel cane, glielo compro, punto e basta! – Poi, rivolta all’arabo: - Allora quanto vuole per il cane? Quello stette un po’ indeciso a pensarci poi disse: - “Trenta dirham. -Te ne do venti e son già troppi! – mercanteggiò la donna. L’arabo alzò le spalle dicendo: - Sta bene, madame, il cane è tuo. Durante la scenetta, mentre ascoltavo, non avevo perso di vista il bimbo arabo il quale, approfittando dell’intervallo, s’era accoccolato a terra e teneva il cane tra le braccia, mentre l’altro bimbo, trattenuto per mano dal padre, cercava di avvicinarsi all’animale. Il piccolo arabo, senza aver capito una parola dei discorsi, aveva intuito quanto accadeva e senza una parola, con quegli occhi enormi, spalancati e tristi, guardava ora il fabbro, ora i due europei, ora l’altro bimbo. Le braccia sporche di fuliggine erano strette attorno all’animale e sembrava quasi lo volessero soffocare. Alcune parole secche del fabbro, delle quali non si capì il significato, anche se era evidente dai gesti, lo costrinsero a lasciare il cane e a prendere un pezzo di corda. Il marito, a cui evidentemente seccava portarsi dietro il cane, tentò un ultimo intervento. -Non vedi, Denise come quel bimbo è attaccato al suo cane! Perché vuoi proprio portarglielo via? -Io non porto via niente a nessuno. Il cane lo compro per tuo figlio. Mi sembra quasi che tu ti interessi di più il bimbo sporco che tuo figlio. Bella roba! – E si mise a contare il denaro. Non so che cosa mi spinse ad avvicinarmi a quel gruppo: forse il silenzio del bimbo arabo cui portavano via un amico, forse l’avidità del fabbro, forse l’indifferenza e l’arroganza della donna o la stupidità e l’accondiscendenza del marito, le bizze del figlio. Fu forse una sola di queste cose o tutte quante messe insieme, sta di fatto che mi presentai alla donna (era lei che portava i calzoni!) e, mentendo, dissi: -Madame, mi scusi se mi intrometto, ma non ho potuto fare a meno di ascoltare i vostri discorsi. Sono un veterinario e poiché penso che le stia a cuore la salute di suo figlio, è mio dovere informarla che quel cane mi sembra affetto da ‘pytiriasis capitis’, una malattia contagiosa che potrebbe arrecare seri danni alla salute del suo figliolo. Vede – aggiunsi sottovoce, accennando al piccolo arabo che cincischiava con un corda attorno al collo dell’animale – gli guardi bene la testa! Ha delle crosticine sospette, sintomo di una malattia in atto. Madame Denise era altrettanto autoritaria quanto impressionabile. Ritirando la mano in cui teneva i venti dirham, ficcò i soldi nella borsetta, afferrò per una mano il figliolo e, trascinandolo via con uno strattone: -Non lo voglio più il cane – disse all’arabo. E a me: – Merci, monsieur, è stato molto gentile ad avvisarmi. Au revoir. – E tirando per un braccio il marito si confuse nella folla della viuzza. -Ed ora chi mi paga? – mi chiese con faccia scura l’arabo che s’era visto sfumare di sotto al naso venti dirham per la mia intromissione. Lo immaginavo che sarebbe finita così e posi mano al portafoglio. -Quanto ti dava la francese? -Trenta dirham, monsieur! – fece l’arabo alla vista del portafoglio. -No, bello mio, la signora te ne ha offerto venti ed io te ne do quindici. D’accordo? Quello non rispose: si limitò a tendere la mano, prese il denaro e si sedette a riprendere il lavoro interrotto. Il bimbo aveva intanto già legato il cane e mi porse la corda tenendo la testa bassa. Lo guardai un poco e poi gli dissi: -Tienilo tu, amico, non so proprio che farmene di un cane! - E tra me soggiunsi – Vorrei proprio vedere la faccia di I se le portassi un cane comprato nella Medina! Mentre ritornavo al quartiere europeo, mi ricordai di non aver pagato il té alla menta e questo mi riconciliò con gli arabi e con i cani. Avevo sì speso quindici dirham, ma in fondo avevo anche avuto la soddisfazione di aver buggerato un arabo e ciò non è da tutti. Il trio francese, per fortuna, non lo rividi più. Sarebbe stato difficile spiegare che non ero un veterinario ma un insegnante di latino ed ancor più difficile confessare che la supposta malattia del cane altro non era che la semplice caduta dei capelli e tutt’altro che infettiva. Ah! potenza del latino! Quante cose si fanno in tuo nome! L’indomani lasciavamo Fez per andare a visitare Tetouan.
Ai raggi del sole Tetouan vista dall’alto sembrava una cosa pulita e linda. I bianchi terrazzi quadrati delimitati da bassi muretti sembravano altrettanti fazzoletti stesi ad asciugare. L’imponente moschea di con le sue dieci navate e con i suoi tetti ricoperti di coppi smaltati di verde, sembrava uno smeraldo sfaccettato, incastonato nel bianco vivido delle basse casette. Dall’alto e da lontano tutto sembrava bello; non si sentiva l’odore di tannino misto alla puzza del pesce; il profumo della menta mescolato all’odore di urina e a quello acre del letame degli asini. Dalla strada che corre sul crinale delle colline non si vede la miseria araba, miseria in qualche caso solamente apparente, in molti altri reale e tangibile. Son passati secoli, ma all’ombra delle torri sgretolate degli Idrissidi gli arabi continuano a vivere una vita sempre uguale che mal si adatta o meglio che non si vuole adattare alla nostra. Lungo le strade, durante le ore più calde, è raro incontrare qualcuno. Talvolta ci si imbatte in gruppi di arabi che procedono lentamente sotto il sole, gli uomini a dorso d’asino, le donne e i bambini a piedi. Nessuno si volta a salutare a meno che non li si inviti con un cenno di mano. Allora gli uomini con quei visi scavati e arsi dal sole accennano ad una smorfia che forse è un sorriso. I bimbi, loro, fan mille feste. Solo le donne rimangono enigmatiche. Avvolta in molti stracci, con un asciugamano sulle spalle e, non di rado, un bimbo piccolo con la testa penzolante, legato sulla schiena come un fagotto, guardano sopra il velo che ricopre il viso e non sai mai che cosa voglia esprimere il loro volto, vedi solo gli occhi, grossi, scuri, luminosi. La rotabile non disrae mai il guidatore. L’auto corre per chilometri e chilometri attraverso basse colline ricoperte da radi cespugli secchi, intramezzati da cactus e da piante spinose in cui capre nere e pecore dalla lana sporca brucano chissà che, l’una a fianco dell’altra. Nel fondo delle oued si ammassano vacche, asini, pecore e capre alla ricerca di un filo d’acqua o di una vena di sale. Paesi non ce ne sono: o si incontrano città o gruppi di capanne ricoperte di stoppie e fango essiccato, sormontato dai nidi delle cicogne che, ritte sui tetti, muovono a destra e a sinistra il lungo becco. Tutto attorno non c’è niente: non una coltivazione, non un po’ di verde. Solo in prossimità delle oued più ricche d’acqua si incontrano campi di viti, di aranci e più in alto boschi di querce da sughero e di eucaliptus.
Il secondo cane marocchino lo incontrai proprio in un bosco di eucaliptus, in prossimità di una piccola, solitaria fontanella. Era ormai un paio d’ore che l’automobile macinava chilometri sotto il sole infuocato che scaldava l‘aria al punto di renderla irrespirabile. Il cartello “SOURCE A 1 KM”, accompagnato dalla scritta in arabo, fu una ventata di fresco e il piede schiacciò l’acceleratore al massimo. La presenza di tre automobili ai bordi della strada, sotto giganteschi eucaliptus, indicò la presenza dell’acqua. Mi fermai dietro un’auto inglese e scesi, preceduto da mia moglie che si era diretta verso la fontanella, incurante dei viaggiatori delle altre macchine che si erano ammassati tutti quanti vicini alla scarpata e facevano circolo attorno a qualcosa che non si vedeva. -Guarda c’è un incidente – feci dopo aver bevuto. – Vado a vedere, tu non avvicinarti, lo sai che il sangue ti fa impressione. – E mi allontanai prima che potesse obiettare qualcosa. Fortunatamente si trattava solo di un cane morto, ucciso da qualche macchina di passaggio. L’incidente non presentava alcuna drammaticità (cani e gatti morti lungo la strada ne avevamo visti molti) se non ci fosse stato anche il padrone del cane, un ragazzino di forse dieci, dodici anni, il quale, inginocchiato nella polvere, teneva abbracciata la povera bestiola senza vita. Avvolto in una camiciola sbrindellata e sporca, sporco lui pure di polvere, piangeva in silenzio, incurante degli sguardi dei presenti. Al suo fianco un altro bimbetto di poco più giovane gli parlava in arabo e tentava di allontanarlo dall’animale senza minimamente riuscirvi. I viaggiatori delle tre macchine, due inglesi e una marocchina, parlottavano sottovoce, incapaci di dire qualcosa all’arabo che piangeva e reticenti ad allontanarsi senza aver fatto nulla. Fu una signora inglese a risolvere la situazione. Posto mano al borsellino, trasse fuori dei dirham e li ficcò in mano al ragazzo più giovane, borbottando qualcosa che quello non capì. Forse gli disse di comprare un altro cane. Poco dopo gli occupanti delle altre macchine l’imitarono e con quel gesto parve loro di sentirsi svincolati dalla pena che il ragazzo inginocchiato col suo cane morto sulle ginocchia ave a loro fatto. Mi ricordai del piccolo fabbro del giorno prima: a quello avevo regalato il suo cane per quindici dirham: potevo fare altrettanto per questo. Ficcai il denaro in mano al più piccolo che non sapeva nemmeno dove riporre quello regalatogli dagli altri viaggiatori e ritornai alla mia macchina -Povero ragazzo – disse mia moglie che da lontano aveva seguito tutta la scena. – Posso capire la sua pena. Guardati un poco attorno, non c’è niente: non un villaggio, non una capanna. E’ logico che ci si affezioni ad un animale che ti può far compagnia. -Se è per questo anche in una città accade la stessa cosa. Si può essere altrettanto soli in un deserto quanto in una strada affollata. La strada era intanto ritornata solitaria. Le tre macchine erano ripartite e i due piccoli arabi se n’erano andati portandosi via l’animale morto. -Lo seppelliranno? – mi chiese d’un tratto mia moglie. -Se fossimo a Lisbona ti direi di sì e anche dove – risposi, ricordando il piccolo cimitero degli animali, con tutte le tombe di marmo allineate l’una a fianco dell’altra e con i fiori su ognuna di esse – Qui però non saprei che dirti. Beh, basta con i cani per oggi!. In due giorni mi sono costati trenta dirham. Riempi il thermos d’acqua. Ho un bisognino impellente: ritorno subito. Mi inoltrai per uno stretto sentiero poco battuto, allontanandomi di una cinquantina di metri dalla strada. Se non fosse stato per una risata acuta, forse non mi sarei accorto di loro. Attraverso gli arbusti spinosi li vidi tutti e due, il piagnone e la sua spalla, che se la ridevano allegramente mentre si dividevano il denaro guadagnato con la loro piccola commedia. Appoggiata ad un eucaliptus c’era una bicicletta sgangherata, senza gomme, con una cassa di legno sul portabagagli con dentro dell’erba e il cane morto. Quando si accorsero di me, rimasero a bocca aperta a fissarmi, incapaci di fare o dire alcunché; d’altra parte non li avrei compresi e loro neppure. Non che ci fosse bisogno di spiegazioni: il raggiro era evidente. Volevo solo rendermi conto dei particolari. Il tutto era molto semplice: per fare soldi ci voleva solo una bicicletta, una cassa di legno con del ghiaccio (che con ogni probabilità si procuravano da qualche camion frigorifero di passaggio che faceva spola tra Fez e Tetouan) per tenere in fresco per almeno due giorni un cane morto e molta, molta abilità per essere convincenti. Il palcoscenico era la strada dove preparavano la scena e attendevano l’arrivo delle macchine dei turisti di passaggio. Poi si esibivano. Se i due si aspettavano che facessi qualcosa, rimasero delusi. D’altronde non avevo il diritto di fare nulla. Loro si erano esibiti di fronte a me ed era giusto che io avessi pagato. A mia moglie non dissi nulla perché lei avrebbe preso subito fuoco e si sarebbe fatta restituire il denaro, dopo di che si sarebbe divertita alle mie spalle per tutto il viaggio e, forse, mi avrebbe convinto che anche il bimbo di Fez mi aveva turlupinato con la sua aria di vittima che recitava la sua parte affinché non gli portassi via il suo cane. Me lo chiesi anch’io, ma la soluzione non l’ho mai trovata. Gli arabi sono troppo imprevedibili.
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