ORDINE DEL GIORNO: L’ACQUEDOTTO
“L’esercizio del voto è un obbligo al quale nessun cittadino può sottrarsi senza venire meno ad un suo preciso dovere verso il paese”. ‘Certo che se quell’obbligo i vari oratori non l’avessero inculcato tanto profondamente nella testa dei buoni villici, ora le cose andrebbero meglio’. Così la pensava il signor Martini mentre si stava infilando i calzoni per recarsi ad una seduta del consiglio comunale. Da un anno, dopo le ultime amministrative, era stato, contro il suo volere, eletto sindaco di quel paesino affossato nella Val Nervia. -Se non farai tu il sindaco, non vuole farlo nessuno! -Ma che c’entro io! Non ho mai vissuto in questo paese: sono sempre stato in Francia. -Come posso giudicare quello che è meglio per il paese? No, non me la sento. -Proprio per questo abbiamo scelto te. Solo tu, in questo modo potrai essere imparziale nel giudicare. -E si rammenti –aggiunse un altro – della funzione che aveva il Podestà nei comuni del Medioevo. Veniva scelto proprio un estraneo affinché giudicasse e tutelasse imparzialmente gli interessi di tutti e non di una ristretta minoranza. Ecco quello che deve fare lei adesso. Il signor Martini aveva guardato esterrefatto costui in modo tale che sembrava volesse dire: ‘Ih, il tuo Medioevo! Ci sarebbe proprio un posto adatto dove metterlo!’ -E poi – aveva concluso un altro - c’è sempre il Consiglio Comunale che ti aiuterà nel prendere una decisione nell’interesse generale. Già, proprio un bel consiglio comunale quello! Dei quindici elettori sette erano democristiani, sette comunisti e uno missino. Ma perché qualcuno non era venuto meno al suo dovere di votare! Forse ora non sarebbe stato a capo di un Consiglio Comunale da prendere delicatamente con le molle. Fortunatamente l’ordine del giorno di quella seduta non dava adito, almeno così la pensava il signor Martini, ad alcuna polemica politica. Si doveva semplicemente decidere in merito all’ampliamento e al prolungamento dell’acquedotto. Cosa questa su cui comunisti, democristiani erano d’accordo. Una volta tanto il missino non avrebbe alzato la testa, com’era solito fare, per poi dare il suo voto a chi voleva. Costui, pur rappresentando una minoranza nel vero senso della parola, era, in effetti l’arbitro della situazione. Democristiani e comunisti, cocciuti come muli, restavano fermi sulle loro posizioni nella trepida attesa del voto del missino. Quando questo poi lo dava, i vincitori non si lasciavano andare alla gioia, anzi. Si sentivano ribollire di rabbia, dato che di quel voto ne avrebbero fatto volentieri a meno. I vinti, invece, si sfogavano apertamente col dire: - Bella roba una alleanza con un missino! Vergognatevi! Il missino, serio in volto, sghignazzava internamente, felice perché lui nel Consiglio poteva esprimere il suo voto con certezza di successo. -Questa sera, però, non gongolerai – pensò il signor Martini e, dopo essersi ficcato in capo un baschetto, tipo quello dei Chasseurs des Alpes, uscì e si diresse lentamente verso il Municipio. Il sole era tramontato da poco e molta gente ritornava dalla campagna carica di fascine, di sacchi o di ceste piene d’ortaggi. alcuni tra i più abbienti, seguivano la mula o l’asino che, pur curvi sotto un peso talvolta eccessivo, procedevano tuttavia spediti attratti dall’odor della stalla. Frotte di fanciulli si rincorrevano festosi nelle viuzze strette urlando a perdifiato, felici di quel po’ di luce che ancora rimaneva e di quella libertà concessa prima di cena. Qualche giovanotto, dopo essersi ravviato i capelli all’ingresso del paese, si fermava presso la porta della sua ragazza e, appoggiato al manico della vanga, parlava facendole dei complimenti. Gli uomini e le donne più anziani discutevano invece di campi, di semine, di raccolti. Per loro il periodo dei complimenti era passato da un bel pezzo! Era un avvenimento quando qualcuno diceva alla moglie: -Ciao, bella, io esco. ‘Che sia ammalato?’ pensava subito la donna. Il signor Martini incontrò un giovanottino smilzo, azzimato in cui si vedeva subito un estraneo, un cittadino. -‘sera, Grassi, già pronto? -Sì, signor Sindaco. Crede che finirà presto il Consiglio? -Lo spero, con questa bella serata non vorrei passare due o tre ore rinchiuso in quella tetra stanza. Hai un appuntamento con la Lena, eh! – concluse il Martini con un sorrisetto malizioso. Grassi, il segretario del Comune, arrossì e non rispose. -Fa’ attenzione al padre – continuò il Sindaco – perché quello ha la mano pesante. Gli hai già parlato? -No, non ne ho ancora avuto il coraggio. Forse stasera, dopo la riunione. Erano, intanto, arrivati davanti al Municipio, una costruzione vecchia, mastodontica, annerita dagli anni. Alcuni consiglieri erano già in attesa, divisi in due gruppi. A destra del portone d’ingresso i democristiani; a sinistra i comunisti; fluttuante in mezzo ai due gruppi il De Blasi, l’unico missino. In tutti gli altri giorni della settimana parlavano assieme, senza alcuna distinzione, ma nelle sere di Consiglio diventavano nemici e si guardavano in cagnesco. Mentre salivano le scale, il sindaco chiese al Grassi: -Hai provveduto a coprire i due busti? -Sì, signore, sono bellissimi e danno un tono più dignitoso alla sala. -Era proprio quello che desideravo! -E’ il suo dono al Municipio? -Sì e spero che l’apprezzino. Forse qualcuno di loro avrà dimenticato che siamo nel 1961 e che quest’anno ricorre il Centenario dell’Unità d’Italia. I due busti lo ricorderanno. Pur nutrendo forti dubbi in proposito, il Grassi non rispose. Mezz’ora dopo la sala del municipio adibita alle sedute era esaurita. I consiglieri al completo stavano seduti attorno ad un tavolo; dietro le transenne, su tre file di seggiole s’andavano sistemando molti spettatori che non sapendo come trascorrere la serata erano venuti per ascoltare le discussioni e le decisioni del Consiglio Comunale. Tutti quanti, nell’attesa, sbirciavano con curiosità verso la parete alle spalle del Sindaco, chiedendosi che cosa ci fosse sotto quei due involti posati su due piedistalli. Finalmente il Sindaco prese la parola. -Signori, - esordì – prima di invitare il Segretario alla letture dell’Ordine del giorno, permettetemi di offrire al Comune, di cui avete voluto eleggermi Sindaco, un mio modesto dono, che offro in questa occasione e in questo anno particolare in cui in tutta Italia si celebra il Centenario dell’Unità d’Italia. – Poi, rivolto al Segretario: – Prego, Grassi, proceda. Il segretario tirò una cordicella, i drappi scivolarono a terra lasciando scoperti due i busti uno di Garibaldi e l’altro di Cavour. -E chi sono? – chiese un consigliere al suo vicino. - E che ne so? Quello pelato mi sembra Krusciov. L’altro, quello con la papalina in testa, non saprei. -Vuoi dire che sia un papa? Dall’alto dei rispettivi piedistalli i due busti dominavano la scena.
-Camillo! Tu qui! – fece Garibaldi. Nessuno nella sala li udì, anche perché nessuno poteva udirli. -Ciarea, Giuseppe. Dove siamo? – disse Cavour, guardando davanti a sé. -Non saprei, forse in un covo di cospiratori. Ma che dicono? -Taci, stanno parlando di noi.
-…e di conseguenza – terminava il Sindaco – ho deciso di portare un soffio d’italianità in quest’aula con la presenza di questi due artefici dell’Unità d’Italia. Dalla folla un vecchietto con voce biascicante e acuta fece: -E il Mazzini?Perché non c’è il Mazzini? Siete forse tutti dei monarchici nostalgici? -Sarebbe stato meglio, - interloquì un consigliere comunista – che avesse fatto mettere due panchine in piazza! -Guardi che i busti li ho pagati di tasca mia! – ribatté piccato il Sindaco. -E ci sarebbe pure mancato che avesse addebitato la spesa a carico del bilancio comunale. Sa, per quei due pezzi di marmo!
- Quello mi è antipatico! –disse Garibaldi a Cavour. -Calmati, Giuseppe,sapessi quanto ho dovuto faticare io per far accettare le mie idee a certe teste!
Il Segretario aveva intanto troncato il battibecco dando inizio alla lettura dell’Ordine del giorno. Alla fine un esponente dell’ala comunista, a seguito dell’invito del Sindaco, aveva preso la parola. -Vorrei sapere innanzitutto - chiese – quale sarà la spesa complessiva per l’ampliamento e per i lavori di ripristino dell’acquedotto. - Dieci milioni - rispose il Sindaco - di cui sei offerti dalla Provincia e due concessi, dietro mutuo, dalla Banca di Credito e redimibili in dieci anni. -Chi si occuperà dei lavori? – chiese un democristiano. -Dopo la gara d’appalto l’offerta della Ditta Masi di Ventimiglia è risultata la più bassa. -Mi oppongo! – disse il democristiano che doveva aver letto molti gialli. – Sempre alla Ditta Masi offrite i lavori perché il capomastro è figlio di quello? - E puntò il dito verso uno dei Consiglieri seduto alla sinistra del Sindaco. – Perché non prendete anche in considerazione altre ditte, come la San Giusto o la Tirrenia o la … -… la ditta Storchi – lo interruppe dalla sinistra, il padre del capomastro – dove è impiegato il fidanzato di tua figlia! -Signori, per cortesia, - intervenne il Sindaco – lasciate una volta tanto da parte le vostre beghe personali e pensiamo invece alle necessità del paese.
-Mi piace quel sindaco – fece Cavour. -Non so che dirti. Non mi sembra che abbia molta grinta. Quello a Calatafimi sarebbe rimasto secco alla prima fucilata. Non è detto che occorra solo la forza per comandare. Si può ottenere molto anche con le parole. -Non sono d’accordo, Camillo. Per me occorrono fatti, solo fatti.
-Signori, - prese a dire il Sindaco – vi siete sempre lamentati che l’acquedotto attuale è insufficiente, che in molte case l’’acqua non arriva. Mi sembra, quindi, che questo progetto si debba discutere urgentemente. Se, poi, non siete d’accordo circa la ditta prescelta, portate prove che possano dimostrare qualche irregolarità nella gara d’appalto appena conclusa e promuoveremo un nuovo concorso. In caso contrario direi di procedere. -D’accordo fece un consigliere di sinistra – ma prima di procedere vorrei vedere il progetto sulla carta. Il Segretario porse ai presenti alcuni fascicoli con allegate delle carte topografiche. Per un po’ ci fu silenzio in quanto tutti si immersero nella lettura. Si sentiva solo il brusio degli spettatori. D’un tratto, quello che aveva chiesto spiegazioni, si alzò rosso in viso e cominciò ad urlare: -Ecco, ne ero sicuro! Avete fatto passare le tubatura nella mia vigna e anche nella tua – aggiunse rivolgendosi al suo vicino. -Come! Tra le mie viti! Ma voi siete matti! – sbraitò quello, balzando in piedi, strappando di mano al suo amico le carte e mettendosi ad analizzarle minuziosamente. -E già! Proprio in tutta la fascia di sotto, quella con i nuovi vitigni di rossese. Se qualcuno si azzarda solo a toccare un metro della mia terra, vedrete se non lo prendo a fucilate, sì a fucilate! -Calmati, Pietro, - disse il Sindaco – calmati e ragiona. Se guardi bene la carta capirai che è giocoforza passare attraverso la tua vigna. D’altronde sarai indennizzato. -Per quei quattro soldi! – sbottò Pietro. – Tre mesi ho impiegato a scavare in quella fascia, tre mesi di sudore e di sangue e, perdio, tu credi di pagarmeli con quattro soldi? Ci sputo sopra sui soldi. Il Sindaco rimase un attimo in silenzio, poi: -Hai ragione tu pure – disse – ma l’acquedotto è indispensabile. Devi mettertelo in testa. L’utilità pubblica deve precedere sull’esigenza privata. -Mi spieghi un po’ –intervenne con voce melliflua il compagno di Pietro che per primo aveva messo in discussione il percorso dell’acquedotto, - mi dica un poco, chi ha fatto il progetto e chi ha scelto il tracciato dell’acquedotto?
-Mi sa tanto, Giuseppe, che quello abbia trovato il pel nell’uovo. -Lo penso anch’io, Camillo. Quel tipo lì avrebbe ben figurato tra in tuoi diplomatici.
Il Sindaco, dopo aver girato alcuni fogli, disse: -E’ l’ingegnere Soffietti, l’incaricato della provincia. -E’ forse parente con l’onorevole Soffietti. -E’ suo figlio. -Lo dicevo io che c’era lo zampino di quelli lì – fece alzandosi in piedi e puntando il dito contro i democristiani. – Lo sappiamo che pur di proteggere l’onorevole Soffietti andrebbero nel fuoco! Con tutti i voti che gli avete dato. Guardate, guardate pure tutti sulla carta: basterebbe abbassare la tubatura di tre metri e, invece di passare sul mio podere e in quello di Pietro, i tubi passerebbero nella tua vigna – concluse puntando il dito contro il Segretario dell’unica sezione democristiana del paese. -Per tua norma e regola, io l’ingegner Soffietti non lo conosco nemmeno. -Però conosci il padre! -Sentite, - intervenne il Segretario Comunale – lasciamo un po’ da parete la politica e cerchiamo d’essere pratici… -Tanto pratici da permettere che si metta all’aria la mia vigna, quando si potrebbe mettere all’aria quella di un altro?- fece Pietro alzandosi. – Ma non pensarlo nemmeno! L’ho detto e lo faccio: prendo a fucilate il primo che si avvicinerà alla mia terra. -Perché, credi forse che io non sappia sparare? – lo rimbeccò il democristiano.
-Due uomini di carattere, eh, Giuseppe! -Ti dirò, Camillo, - disse Garibaldi – tra le mie Camicie Rosse ce n’erano dei più sfegatati. Quelli prima sparavano e poi si mettevano a discutere. -Taci, vediamo un po’ come va a finire – lo interruppe Cavour.
-Sentite, signori, bisticciando in tal modo non arriveremo ad alcuna soluzione, - intervenne il Segretario Comunale. – E’ inutile inveire l’uno contro l’altro, tanto il progetto non è ancora definitivo e il percorso si può ancora cambiare. Basta mettersi attorno a un tavolino e ragionare con calma. - E allora provi un po’ a farlo passare nella vigna di quello là – ridacchiò Pietro. -No, farò di meglio – gli rispose serio il Segretario. – C’è un solo modo per appianare la questione senza danno da alcuna parte. Siete in tre a discutere sul percorso dell’acquedotto in quel tratto: io direi quindi che due di voi traccino due percorsi in cui siano coinvolti i tre terreni e lui –concluse rivolto al democristiano – ne scelga uno. In tal modo sarete tutti soddisfatti.
-Te lo dicevo io che quel giovanotto mi piaceva - fece Cavour a Garibaldi.- La sua è una soluzione decisamente salomonica. -Sarà, - rispose l’altro che, aggrottando le sopracciglia cercava di aggiustarsi la papalina sul capo – sarà, ma insisto nel dire che a Calatafimi l’avrebbero fatto subito secco. -Oh!- sbottò Cavour –tu, Giuseppe, non sai parlar d’altro che di Calatafimi! - Perché? Ti par poco, Camillo! Io laggiù giocavo la vita, non come te che a Plombiéres giocavi solo la tua reputazione
I consiglieri, intanto, tacevano, tutti intenti a digerire la saggia proposta del Segretario Comunale, mentre gli spettatori, dietro le transenne, bisbigliavano tra di loro, alcuni discutendo dell’acquedotto, altri di semine e di raccolti. Finalmente il Sindaco riprese la parola. -Dunque, signori, a parte questa piccola divergenza sul percorso, mi sembra che in generale siate tutti d’accordo, no? Grugniti di consenso gli vennero da destra e da sinistra. -Io non lo sono – disse pacatamente il De Biasi che in quel consiglio si sentiva un po’ tagliato fuori. -Tu stai zitto! – gli gridarono da più parti. – Sei uno solo e non conti niente. Il De Biasi ridacchiò e se ne stette tranquillo. Il suo intervento l’aveva fatto, la sua opinione l’aveva espressa ed era bastata a dimostrare al Consiglio comunale che c’era anche lui, lo volessero o no.
-Quello mi sembra Talleyrand a Vienna – notò Cavour. Vi andò come il rappresentante di una Francia prostrata e per poco non dettò legge.
-Signori, esaminiamo gli altri punti della questione. Per quanto riguarda gli allacciamenti qui in paese non c’è da preoccuparsi, occorre, invece, stabilire dove dovranno essere sistemate, lungo il percorso, le nuove prese d’acqua, cercando logicamente di ridurle al minimo onde evitare sprechi inutili. Se guardate gli schemi sui fogli che ho fatto distribuire, vedrete che le prese sono state ridotte a tre: una per la frazione Pian del Pero dove vivono venticinque famiglie e l’acqua è per loro indispensabile come per noi; la seconda serve per il gruppo di frantoi che si trova in fondo valle. Mi sembra che non ci sia bisogno di discutere perché tutti ve ne servite per frangere le olive. D’altronde i frantoi lavorano solo una parte dell’anno, quindi non vi sarà alcuno spreco. Vediamo ora la terza presa. -Sì, vediamola un poco! – si levò sarcastica una voce da sinistra. Il Sindaco si voltò verso l’interlocutore e poi studiò la carta topografica. In effetti la terza presa, messa in quel punto gli sembrava superflua. Pur essendo posta appena fuori del paese, ma non di molto, si trova distante dalle case situate sul fondo valle e francamente il Sindaco non sapeva come giustificare quella scelta. Sotto lo sguardo divertito di alcuni consiglieri di sinistra, girava e rigirava tra le mani il foglio col tracciato, incapace di giungere ad una conclusione. Fu, infine, il Segretario a dargli l’imbeccata, sussurrandogli: -Signor Martini, tenga presente che quel gruppo di case non ha alcun allacciamento con il precedente acquedotto. -Ecco il perché – sbottò il Sindaco che già cominciava a sudare. – La presa è giustificata perché il gruppo di case del Fontanazzo è privo di allacciamento e dovendosi procedere alla costruzione di uno nuovo, si è inserita in quel punto una presa d’acqua. Il Segretario, rosso in volto, sorrise e guardò prima alla destra del signor Martini, poi alla sinistra dove incontrò lo sguardo sarcastico di colui che poco prima aveva interrotto il Sindaco. Il giovane arrossì ancora di più.
-Te l’avevo detto, Camillo, che quello era una monachella. Guarda un po’ che viso! -Forse hai ragione: ritengo, però, che non sia per timidezza che arrossisce, bensì per qualcosa che ha combinato e che sta per venire a galla.
-Ha qualcosa da obiettare? – chiese il Sindaco. - Direi proprio di sì. Non le sembra una spesa eccessiva portar l’acqua da quel punto sino in fondo valle quando sarebbe assai meglio allacciare quelle case direttamente col paese? Guardi pure il percorso, sarebbe in piano e assai più breve. Basterebbe che i tubi seguissero la cunetta della strada. Per un istante, mentre il Sindaco esaminava la cartina, non si sentì volare una mosca, poi una voce dal pubblico disse: -Ma se togliete la terza presa, il padre della Lena come farà ad impiantare la sua serra di fiori e ad innaffiare il suo orto? Certo che qualcuno si è già preparato un bel dono di nozze! Collerico per natura, il Duca, così era soprannominato Giovanni, il padre della Lena, balzò in piedi, rovesciando la seggiola: -Chi ha parlato? – urlò paonazzo in volto con i pugni stretti. – Fatti avanti! Per tua norma sappi che io non sapevo nemmeno che fosse prevista una presa d’acqua in quel punto. Invidiosi! Siete solo degli invidiosi perché sto per impiantare una serra! – si passò le dita nel colletto della camicia, poi, dopo aver sbottonato l’ultimo bottone, riprese. “E poi, che c’entra il dono di nozze? -Va là, Duca! Non far finta di cadere dalle nuvole! – sbottò un consigliere di sinistra. – Ammettiamo pure che tu non sapessi nulla della presa d’acqua, ma non vorrai farmi credere di non saper nulla che il Grassi amoreggia con la Lena, no? -Che… che dici? – fece il Duca con voce arrangolata. Il segretario Grassi avrebbe preferito essere sotto terra piuttosto che affrontare la questione posta in quel luogo affollato e in quei termini. -Calma, signori – intervenne il Sindaco, - lasciamo le questioni private fuori da quest’aula. -No, no e no! – insisté il Duca battendo sul tavolo con forti pugni. Qui mi hanno lanciato un’accusa e insultato la figlia: qui voglio soddisfazione! -Ora non esagerare, Duca, - tentò di calmarlo un suo amico. – Nessuno ti ha accusato e tanto meno hanno insultato la Lena. Ti sembra un insulto dire che è innamorata del Grassi e lui di lei? -Ah, perché? Lo ammetti anche tu! -Ma certo che lo ammetto – rispose seccato l’amico.- Ih! Quante storie, come se non fossi stato anche tu innamorato ai tuoi tempi! -Che c’entra questo! Io mia figlia a quello lì non gliela do. Le donne – urlò guardando con occhi di fuoco tutta l’assemblea – me le tengo in casa. -E le corna in testa! – disse la solita voce proveniente da dietro le transenne. A quella poco opportuna battuta due avrebbero potuto essere le soluzioni. La prima che al Duca venisse un colpo apoplettico tanto il sangue gli era affluito alla testa; la seconda che si slanciasse contro le transenne. Prevalse la seconda. Al vederselo arrivare addosso come una catapulta, la prima fila dietro le transenne tentò di indietreggiare dando con i gomiti nelle pance e con le scarpe chiodate sui calli dei malcapitati che stavano dietro, ma la calca era tale che nessuno riuscì a muoversi. Non appena il Duca giunse vicino alle transenne, lo si vide barcollare, annaspare con le mani in cerca di un appiglio e poi cadere a terra. Probabilmente aveva inciampato nel sostegno della transenna o nel piede di qualcuno che lo aveva posto intenzionalmente per frenare il suo slancio. Grassi, il segretario, si precipitò per aiutarlo, ma si vide scostare in malo modo dal Duca che, rialzatosi, col sangue che gli colava dal naso, incapace di ragionare, lasciò partire due pugni che presero in piena faccia due giovanotti. Costoro dopo un attimo di smarrimento, rovesciate le transenne, si precipitarono verso il Duca che alcuni suoi colleghi tentavano di ricondurre alla ragione. Un istante appresso, non si sarebbe potuto dire come, l’aula del consiglio comunale si era tramutata in una bolgia di dannati. Senza alcuna ragione apparente la lotta aveva coinvolto tutti e gli amici di un istante prima erano diventati acerrimi nemici. Vecchie questioni sopite, litigi per i confini di un campo, ormai dimenticati da anni, rancori che covavano sotto la cenere, venivano a galla d’improvviso e servivano a mettere olio sulle fiamme. Nessuno però vi accennava, sembrava che quelle discordie fossero così presenti e così vive che non aveva alcuna importanza parlarne. Alcune seggiole intanto volavano da un angolo all’altro colpendo e ammaccando alla fine della traiettoria teste, nasi, spalle, per altro già peste dai pugni ricevuti. Il Sindaco e il Segretario, con una seggiola in mano per ciascuno, tenevano a bada quegli energumeni, allontanandoli con le stesse tecniche con cui un domatore respinge i leoni. Chi si trovava più a malpartito di tutti era il De Blasi. Per anni democristiani e comunisti avevano cercato, peraltro senza trovarlo, un sistema per fargli ingoiare quei sorriseti sarcastici con i quali ripagava i vincitori e i vinti, allorquando lasciava cadere con sufficienza il suo voto determinante ora da una parte, ora dall’altra. Adesso il momento era giunto. Il povero De Blasi si difendeva come poteva, ma per un pugno dato dieci erano quelli ricevuti. Pesto,sanguinante, sputando denti a destra e a manca, cercava di allontanarsi dalla mischia. Non solo lui, però, era ammaccato. Dovunque apparivano occhi pesti, nasi sanguinanti, gente che avendo preso un colpo basso, si allontanava, quando poteva, piegata in due. Dall’alto dei due piedistalli, miracolosamente rimasti intatti durante il parapiglia, i due busti commentavano l’accaduto.
-Hai visto, Camillo, E’ bastato che nella discussione si accennasse ad una donna, all’eterno femminino, perché si giungesse a questo. Ah, le donne, Camillo, le donne! -E che! Lo vieni a dire a me che fui anche sensale di matrimoni! -Già, passasti i tuoi guai con la Clotilde – fece filosoficamente Garibaldi. -Non ti sembra di essere ritornato ai tuoi tempi, Giuseppe – disse Cavour, cambiando discorso, - tu ti ci trovi in questo parapiglia. -Ti dirò, Camillo , questi italiani si sono molto imborghesiti dai nostri tempi. Però come passano veloci le belle epoche!
Chi in tutto quel trambusto si era risparmiato per un fine assai più nobile e aveva evitato di prendere botte, era un vecchietto con una piccola barba caprina, quello che aveva protestato quando il Sindaco aveva fatto scoprire i busti. Per tutta la serata non aveva fatto altro che guardarli con astio e rancore e ora , avvicinatosi a essi, cercava con dei saltetti di raggiungerli. -Maledetti voi, senza il Mazzini qui non vi ci lascio! Credevate di farmela eh! Poveri illusi: val più un alluce del mio Mazzini che voi due legati insieme. Era, intanto, riuscito ad afferrare Cavour e, pur sballottato, l’aveva trascinato verso la finestra. Lo posò sul davanzale, lo guardò, poi cercò una parolaccia da rifilargli e non trovandone alcuna adatta gli disse: “Monarchico!” e lo cacciò giù nella vasca del cortile sottostante a posarsi sul fango soffice, in mezzo ai pesci rossi. Poco dopo anche Garibaldi seguiva la stessa strada.
-Oh, Giuseppe! – ci si rivede. -Ma è matto quello lassù! – si infuriò Garibaldi, bagnato fradicio. -Che vuoi che ti dica, amico mio, più guardo questa gente e più mi accorgo che avremmo fatto meglio a lasciare l’Italia com’era. Be’ ciarea, Giuseppe. -Buonanotte, Camillo.
Nella sala del consiglio la lotta era, intanto, cessata e tutti se n’erano andati, eccetto il signor Martini e il giovane Grassi. -Signor sindaco, e adesso? -Adesso ce ne andiamo a dormire. Domani farai l’inventario dei danni e poi riconvocherai il consiglio, Vedrai che a forza di picchiarsi il progetto dell’acquedotto entrerà pure in quelle zucche calde e si calmeranno. -Speriamo! – concluse il segretario che stava però pensando a tutt’altro.
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