Era il 14 novembre 2012  quando per la prima volta  incontrai Tiziana  nella Sala Auditorium di Chiavari, dove si  festeggiava l’ottava edizione del "Premio Nazionale - Città di Chiavari al miglior Giornalino per ragazzi” , creato dall'Associazione Ligure letteratura Giovanile.  Quale redattrice-capo del giornalino “Arcobaleno”,  una pubblicazione per ragazzi  che si rivolge alla  minoranza di lingua italiana della Croazia e della Slovenia, era presente pure Tiziana, giunta da Rijeka-Fiume  per ritirare un premio.  Quando seppi che viveva e lavorava a Fiume cominciai subito ad interrogarla sulla sua  città.  Una curiosità, la mia, dettata dal fatto che, appena sposato, avevo spesso trascorso le vacanze estive sulla costa dalmata, in particolar modo a Fiume. Parlammo a lungo, scoprendo che conoscevamo amici comuni ad entrambi.

Dalle sue parole capii che Tiziana  amava profondamente la sua città e che era legata alla minoranza italiana a filo doppio. Ne ebbi la certezza quando un mese dopo mi inviò il testo di un suo articolo “Il silenzio dei rimasti” che aveva scritto per la rivista “Panorama”. Una descrizione biografica  delle sua infanzia trascorsa a Rijeka-Fiume che non ho potuto fare a meno di ospitare  nel mio “Salotto Letterario” e alla quale mi sono permesso di aggiungere un sottotitolo proustiano: À la recherche du temps perdu“.

Durante il pranzo che  concluse la cerimonia di premiazione, attorno al tavolo sul quale non vi erano nè cevapciciraznici palacinche,  ma trenette al pesto,  pansotti con salsa di noci, stoccafisso alla marinara, e vini delle Cinque Terre, parlammo a lungo e, prima di congedarci,  mi chiese se poteva farmi una intervista. sul mio lavoro di bibliotecario e di  scrittore per ragazzi. E chi poteva dire di no al suo sorriso?.

Così, dopo la pubblicazione del suo articolo sulla rivista “Panorama, ho inserito il testo  nel “Salotto”, accompagnato dall’intervista  pubblicata su “La voce del popolo” di martedì 8 gennaio 2013.

 

IL SILENZIO DEI RIMASTI

“À la recherche du temps perdu“

di  Tiziana Dabovic

Non c’è stato attrito. Rimanere, abbracciare i nuovi arrivati, prestare mezza cipolla all’esotica vicina di casa, scoprire pian pianino le lingue balcaniche, imparare a pronunciare parole straricche di segni diacritici e di consonanti. La lingua dolente, il cuore, sanguinante.

Sono nata in casa Cussar a Rijeka, mama perdonime, in Jugoslavia, in un periodo di maretta, quando - dopo lo shock - la pace si confonde con la stanchezza, e non si capisce più se sia pace vera o solo conseguenza dello stress, o paura di aprir bocca.

Inebetiti, loro non lo sapevano. Avevano un quarto di secolo e volevano vivere la vita a casa propria. Non erano ricchi, no, grazie a Dio; i loro padri possedevano solo un piccolo podere sopra via Gelsi: l’orto, quattro galline, due amoli e un pesco. Le botti di rapa colorate di viola dalle drope, la piccola vigna, le vanese col  radicetto, i pomodori e i merlini erano tutto il loro lusso. Non poteva far gola a nessuno, quella timida costruzione con la veranda umida ed un presunto bagno che per arrivarci dovevi attraversare l’orto. Ma la vista sul Quarnero e sul porto, quella sì che valeva, allora. Lo sapeva solo lui, nonno Pepi: usò per anni la sua sordità acquisita al Cantiere dove faceva il tubista, come scusa. No, non era sordo. Nei ritagli di tempo aggiustava orologi a cucù, da polso, da signora: il tic tac l’ha sempre sentito; non aveva semplicemente voglia di parlare.

Sono nata, dicevo, in Jugoslavia. Racchiusa in un tentativo di omertà mai resa palese. Ho parlato in fiuman. Mi hanno insegnato a camminare lungo via dell’Acquedotto, mi son sbucciata le ginocchia in Giardin Pubblico. Tutto era, nella mia testaccia e nella testolina di mia madre, italiano: e tutto doveva rimanere inconsciamente lì. Mille le domande che si aprivano, e vaghe le risposte, accompagnate sempre da sospiri soffocati.

A scuola, una delle quattro italiane della mia città, mi hanno imposto di leggere Pinocchio, il libro Cuore… ho sudato sulle Antologie di letteratura italiana del Petronio. Ho guardato la Rai: Topo Gigio e Carosello. Ma le scarpe, quelle scomode e dure della plastica Borovo, erano decisamente slave. Altrettanto scomoda la mularia di strada, i compagni di gioco che mi prendevano in giro perché non conoscevo le declinazioni croate. A Fiume mi chiamavano mala talijanka, la piccola italiana; in Piemonte invece, da mia nonna, ero la s’ciavetta dall’accento, strano ma vero, veneto.

I dilemmi, le domande che riaffioravano ad ogni pie’ sospinto… siamo italiani? Siamo cioè nati in Italia? No. Ovvero: io sì, tu no. Siamo sempre stati qui.

Un silenzio imbarazzante accompagnava tali risposte sillabiche.  Non potevo insistere: negli occhi tristi di mia madre, intravvedevo pagliuzze di severità.

Nella macelleria in Fiumara, gestita da un serbo, mi scambiavano per la figlia della magiara. Croato, slavo, cognomi che finiscono per ich, per man,  istriani, domaci… un bellissimo intruglio di culture, ma nessuno che fosse pronto a dare risposte semplici e chiare a una domanda elementare quanto scomoda:  Ma io, chi sono?

Ripensandoci, sentivo nei riscontri aleggianti come fuliggine, un senso imperante di vergogna frammisto ad un altro di fierezza, una confusione interiore che si faceva mia.

Un fiasco de vin

Le serate delle feste dentro le case furono immortalate su foto in bianco e nero. Noi ci rivedemmo addormentati in braccio ai genitori che si aggrappavano ad un bicchiere di vino allungato dallo spritzer, in alto i gomiti con gli amici più fidati. Val più un bicier de dalmato, che l’amor mio

Situazioni esasperanti: le parole delle canzoni italiane diventavano fastidiose, rumorose in proporzione inversa ai fiaschi impagliati e vuoti che portavano immancabilmente a sbronze collettive. Nella calda intimità dei poveri delusi, inconfessato orrore.

Alla chetichella

L’immensità della chiesa continuò ad esistere nonostante fosse dichiarata apertamente in collisione con le regole del comunismo. I “comunisti”, là, ci mandavano i loro figli alla chetichella, ribadendo nel contempo la loro marxistica disapprovazione: tanto perché si sentisse.

Noi - figli di gente apoliticamente autoctona - godevamo della prerogativa di poter imparare la dottrina cattolica direttamente in chiesa. Nella cattedrale di  San Vito, col cuore aperto di Gesù sull’altare principale, le prediche ci venivano impartite da un prete erzegovese: il časni, ovvero venerabile, che io continuavo a chiamare časnik  cioè ufficiale, beccandomi regolarmente una penitenza. Il perché lo scoprii maturando.

Perché? Perché la maestra di scuola parlava la mia lingua e il prete no? In quell’ora scomoda, i suoi colleghi italiani avevano già opportunamente tolto il disturbo.

Io invece, a tredici anni non avevo via di scampo: ero costretta a sorbirmi il vangelo dall’uomo in tonaca di Široki Brijeg, rispettarlo ed imparare l’Ave Maria e il Padre nostro in croato. Continuai a frequentare la chiesa dell’Assunta, il mio Duomo, ma solo quand’era vuota. I preti, coi loro bisbigli sentimentali, li evito ancor oggi.

A Pasqua le nostre mamme cuocevano le pinze e i sisseri ma - pensate - i nuovi arrivati non conoscevano le uova di cioccolato. I bambini di strada invidiavano quelle che noi ricevevamo dai parenti d’Italia. Ci guardavano allibiti mentre scartavamo le sorprese accovacciati lungo i marciapiedi del rione di Scoglietto. Da quei pacchi miracolosi uscivano tante scatolette di ciuinghi: le gomme americane a forma di sigaretta, alcune paia di calze di nylon, del caffè, qualche cappottino smesso avvolto in carta luccicante, copie di fotoromanzi insieme all'immancabile Settimana enigmistica. Quegli scatoloni di cartone legati con lo spago, colorati da una sfilza di francobolli e timbri, riuscivano a  mettere in fermento tutto il vicinato. Anche dopo esser stati rovistati da doganieri permalosi, da essi sembrava uscire aria colorata.

Agnus dei

 Gli agnelli però non smisero mai di girare allo spiedo. Solo che da Pasqua si erano spostati ad altre festività: il 25 maggio in primis, data di un presunto compleanno di Tito. A farla da protagonisti arrivavano migliaia di giovani pronti a correre a tappe novemila chilometri per la Patria. Era il compleanno del nostro nuovo signore - il Compagno di tutti i compagni - ma anche la Festa della Gioventù.

 Fazzoletto rosso al collo, camicetta bianca e gonnellino blu. Mi sentivo stranamente uguale a tutti gli altri, potevo confondermi con la maggioranza; anche il Časna Titova pionirska (il giuramento del pioniere) era stato tradotto in italiano. Timidamente, stavo imparando  a nuotare.

Il culmine di quell’euforia di maggio era rappresentato dalla consegna ufficiale del messaggio al Grande Vecchio, trasmessa in diretta da tutti i canali radio e tivù; la Staffetta, che di regola partiva dal monte Tricorno, aveva fatto il giro della Jugoslavia toccando le località più significative della sua storia recente. Quel volto di bronzo imperava dal palco accanto alla sua Jovanka avvolta in vestiti di seta firmata. I miei, a casa, commentavano a labbra strette la manifestazione definendola una pagliacciata: alla faccia dell’uguaglianza, dicevano piano.

Poi arrivava il turno del 29 novembre, giorno di estrema unzione per i maiali.  Peccato non ci sia più, il Dan Republike: si mangiava bene e per pochi dinari. Il marchio di fabbrica “29. novembar” di Subotica si era conquistato i mercati esteri piazzando i suoi prodotti di carne nei paesi del  Medio ed Estremo oriente e soprattutto in Unione Sovietica. Era diventato un brand, il brand della giornata delle paštete…

A vent’anni, i miei vent’anni, bastavano un asciugamano, due pomodori e una di quelle paštete per godere mare e sole sdraiati in qualunque spiaggia della nostra estate. L’estate del bratstvo i jedinstvo, della fratellanza e dell’unità, dei Dragan e degli Orlando, dei Faruk, delle Patrizia e Mirsada. Ortodossi, cattolici e musulmani in discoteca a scatenarsi con la musica dei Deep Purple, dei Bijelo Dugme, dei Paraf, dei Bulldozeri. Eravamo tutti uguali.

Ho incontrato Faruk una decina di anni più tardi.  Non l’avrei quasi riconosciuto, senza barba e capelli. E senza jeans. Stava insieme a una donna dal viso coperto dal burqa. Me la presentò; era Nusrija, sua moglie. Mi raccontò di essere molto occupato. Aveva fondato un Centro musulmano a Fiume: Faruk era diventato un fanatico rispettoso delle leggi islamiche. Più che sorpresa, mi chiesi se lo fosse stato anche nei tempi in cui  mi cantava all’orecchio Da li znaš da te volim di Dado Topić.

Gli domandai timidamente di Dragan. Il suo volto per un attimo fu attraversato da un’espressione dura. Era scappato in Bosnia, disse, ma dalla parte serba. Si era consegnato volontario. Preferii non porre altre domande. 

Un altro colore

Oggi? Attraverso il Corso per raggiungere piazza Žabica cacciandomi in bocca un chewing gum. Non ha più il gusto che aveva cinquant’anni fa.  Mi dà fastidio il riverbero delle insegne al neon.  Quei piccoli soli imbottigliati, bugiardi e facili, posti su antichi intonaci della mia città, non riescono certo a nascondere l’umiliazione che si è subita. Nike e Max Mara, Benetton e Hugo Boss, neanche a forze riunite sono in grado di offuscare il Smrt fašizmu, sloboda narodu. Ci avevo creduto, un giorno. In cima alla decapitata torre civica svetta la bandiera. Di un neonato colore. Indeficienter? I fiumani o meglio i riječani di oggi la credono un’offesa.

Nel mio portamonete tante carte di credito coi conti in rosso. Ed il tesserino col tricolore che esibisco a ogni entrata in Comunità degli Italiani.

Prendo un giornale: presto raggiungeremo l’Unione Europea, dicono in prima pagina. Non ne vedo l’ora. In seconda, raccontano che cinquecento milioni di euro sono spariti nel processo di privatizzazione. In terza un trafiletto: trecentosessantamila disoccupati. In seno alla madre Europa sarà meglio, concludo. E vado a sbattere contro le dame, le  drugarice del Corso. Chiedo scusa. Nella mia mente una domanda: chissà se le dame, diventate nel frattempo signore nonne che occupano le prime file in chiesa sfoggiando pellicce rigorosamente ecologiche, - torceranno il naso scoprendo che Jelačić trg, prima di chiamarsi piazza Belgrado, era intestata al celebre dottor Scarpa?  Chissà se durante la messa si sono chieste chi fosse stato San Vito? Troppe pietre hanno scalfito quel crocifisso che esiste e resiste. Proprio come noi. Il 10 febbraio è alle porte. Ostinati, sicuri della nostra buona fede, i miei esuli parlano di me.

Il viaggio

Un biglietto per Trieste dell’agenzia di viaggi cittadina costa 100 kune. Partenza: ore 6.00. Arrivo: 8.40. Ottoequaranta? Ottoequaranta. Perché per entrare in Europa, alla dogana slovena ti fanno scendere dal bus. Uno per uno. Timbro del passaporto. Sento pietà e disprezzo, nelle prevedibili domande. Ha qualcosa da dichiarare? Ho tanto da dichiarare. Vado a trovare il mio povero cugino invalido. Quello che mi ha raccontato la storia del mio Liceo.  La storia di Antonio Grossich. Per qualcuno un fascista, per lui un eroe.  Le ferite bruciano ancora, la sua tintura di iodio, lodata dal Mikado e dall’omologo russo dopo la battaglia a Port Arthur, ci starebbe  a pennello.  Le ferite della mia gente sono ferite mie. E della mia gente.  Io e mio cugino, possa piacerti o meno, siamo cugini.

Intasco il biglietto, godendomi il sapore di una marcia consuetudine. Reduce da tutte le guerre non scelte, per me domani, sveglia ostinata alle 5. Con la borsa robusta, capace di contenere le sarme. Avvolte su carta di giornale. La Voce del popolo serve eccome. L’odore acre dei crauti, i “capuzi garbi”, non filtrerà.  Mi avvio verso casa. Calpesto tenacemente la mia terra nella latente promisquità. E la “q” al posto della “c” rende bene la situazione.

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