(Storie ai limiti del reale)
(a Nicoletta Lauretta e Olivia)
“Un mistero rimane tale finché non viene razionalmente spiegato fin nei minimi dettagli.”
- Avrei una proposta - disse il dottor Silvestri, interrompendo un silenzio che stava prolungandosi troppo e cominciava a causare disagio. Fino a pochi minuti prima gli era sembrato di trovarsi in mezzo ad una riunione in cui tutti parlavano contemporaneamente, sovrapponendo le loro voci, senza preoccuparsi di ascoltare quanto dicevano gli altri. Poi, inspiegabilmente, tutti si erano taciuti senza ragione e si erano messi a fissare i ceppi del caminetto, attratti dallo scoppiettio e dallo sfrigolio di quelli ancora verdi, oppure a centellinare l'ottimo spumante messo a loro disposizione dal padrone di casa. Era il 31 dicembre, la notte di San Silvestro e si erano radunati nella vecchia casa di arenaria del professor Natali per "uccidere l'anno vecchio e battezzare quello nuovo", aveva detto il signor Lattanzi quando, alzando il bicchiere di spumante, imitato dagli altri, aveva fatto il primo brindisi della serata. L'idea di quella riunione era stata del professor Natali. All'inizio di dicembre, sfogliando per caso un album di vecchie fotografie, gli era capitata sott'occhio una foto di gruppo: gli alunni della terza liceo al completo. Tutti i suoi compagni di gioventù. Visi giovani, ridenti, spensierati. Aveva guardato se stesso con una punta di rimpianto e di nostalgia. - Chissà dove sono adesso? - si era chiesto a voce bassa. E gli era venuto il desiderio di rivederli. - Perché non contattarli e invitarli ad una rimpatriata dopo trent'anni? Non era stato facile rintracciarli tutti, ma il piacere di rivedere a distanza di decenni gli amici di un tempo prevalse su ogni difficoltà. A dire il vero, mentre scriveva gli inviti e gli indirizzi dei vecchi compagni, faticosamente trovati dopo molte ricerche, gli era sorto un piccolo dubbio. Forse per qualcuno l'invito non sarebbe stato un piacere, ma una seccatura, un disagio. Un pensiero subito rimosso. Purtroppo quel dubbio era riaffiorato proprio quella sera mentre 'ascoltava' l'improvviso silenzio calato nel salotto. Eh sì, troppi anni erano passati, troppe cose accadute! I compagni d'un tempo erano diventati uomini maturi e donne su cui gli anni avevano pesato; persone diverse da quelle della foto ricordo, ognuna con una somma di esperienze personali che avevano soffocato molti ricordi del passato. Per fortuna al suo invito avevano risposto sei persone: Aldo Lattanzi, imprenditore edile; il dottor Giulio Silvestri; la giornalista Marta Antonelli; Simone Dursi, titolare di una nota società finanziaria (chi l'avrebbe mai pensato ai tempi della scuola quando non riusciva a svolgere alcun problema matematico!); Giovanni Calonghi, di cui non aveva bene afferrato la professione quando si era presentato sull'uscio e Miriam Alfieri, fisioterapista. Pochi per una classe di venti alunni. Sebbene anche altri avessero promesso di venire, avevano rinunciato, trovando la scusa dell'ultimo momento: la famiglia, un raffreddore, la macchina in panne, un improvviso... "Sì, - pensava il professor Natali, avvertendo il peso fisico di quel prolungato silenzio - per fortuna non sono venuti tutti". Già quei sei, pur cari amici un tempo, erano ora ai suoi occhi dei perfetti sconosciuti. In cuor suo ravvisava vagamente la loro fisionomia e abbinava quei volti, giovani nel ricordo, a fatti ed episodi del liceo, ma nulla più. E del disagio si erano resi conto pure gli altri. Dopo l'euforia del primo momento e dopo aver rivangato e ricordato figure ed episodi di un passato durato un solo anno scolastico, se ne stavano ora muti. Sette estranei in un salotto accogliente. Era stato a questo punto che il dottor Silvestri aveva rotto l'imbarazzante silenzio. - Sì, avrei proprio una bella proposta - ripeté. - Mi rendo conto che questa rimpatriata ci ha lasciato un poco di amaro in bocca. Ed era prevedibile. Ci siamo persi di vista per troppo tempo e ognuno di noi è diventato estraneo all'altro. Ve ne sarete accorti, sino a questo momento abbiamo parlato solo di ricordi di scuola. Ricordi di professori amati o odiati; di compagni e compagne; di screzi e scherzi di sapore goliardico. Nessuno di noi ha parlato degli anni successivi perché quelli sono ricordi solo suoi e, probabilmente, non interessano agli altri. Ecco, dunque, la proposta. Io penso che a tutti noi sarà pur capitato in questi ultimi trent'anni di aver vissuto in prima persona qualche fatto strano, fuori dall'usuale o di essere stato protagonista di qualche situazione ai limiti della realtà che lo ha particolarmente colpito. Raccontarlo potrebbe essere interessante e piacevole. Ricordate quando la professoressa Maioli, quella con la peluria sotto il naso, ci invitava a inventare qualcosa e a raccontarlo alla classe con la motivazione "così imparate a parlare in pubblico"? I presenti si guardarono l'un l'altro. - Se ho ben capito, Giulio, tu proporresti ad ognuno di noi di raccontare qualche fatto misterioso di cui è stato testimone. Sì, l'idea mi pare buona, - fece il padrone di casa dopo aver meditato sulla proposta e aver già individuato in fondo alla sacca dei suoi ricordi un evento che più degli altri lo aveva incuriosito. - Però, Giulio, un fatto potrebbe contenere un mistero per te, mentre altri, valutandolo sotto una diversa angolazione, potrebbero considerarlo del tutto normale. Tu lo hai vissuto in prima persona ed emotivamente e potresti averlo deformato con la tua fantasia. Un estraneo potrebbe considerarlo sotto un'altra luce e non vedervi alcun mistero. Per questo aggiungerei una postilla alla tua proposta; una specie di gioco dialettico. Alla fine di ogni racconto gli ascoltatori cercheranno di demolire, di cancellare il presunto alone di mistero, riportando il fatto nella realtà. - Sempre che ci riescano - gli fece notare Giovanni Calonghi. - Ma così si viene a distruggere il meglio! - intervenne Miriam Alfieri. - Si sta avvicinando la mezzanotte, fuori imperversa una bufera di neve. E' una serata adatta ai fantasmi. Se tu mi vieni a dimostrare che il mistero non esiste, i fantasmi sono solo semplici lenzuola appese ad un trespolo e agitate dal vento, mi dici dove va a finire 'la poesia dell'horror'? - Miriam cara, - intervenne la giornalista - esistono sempre dei misteri resistenti ad ogni soluzione logica! Non è mai facile operare un taglio netto tra fantasia e logica, tra mistero e realtà. Realtà romanzesca: ecco. Ne sono certa: un pizzico di ignoto e di inspiegabile rimarrà sempre. - Che ne dite di incominciare? - disse il professor Natali. - E io, quale anfitrione e padrone di casa - continuò - mi arrogo il diritto, dico bene Giulio?, mi arrogo il diritto di essere il primo a raccontare. Il dottor Silvestri approvò col capo e gli altri accolsero con sollievo il diversivo proposto, allettati da quel pizzico di mistero contenuto nella proposta e dal "gioco di demolizione" cui ognuno poteva partecipare. Il professor Natali, da buon padrone di casa, versò di nuovo tutti lo spumante, fece girare un vassoio con fette di panettone, attizzò il fuoco mettendovi sopra nuova legna e poi, affondando piacevolmente in una poltrona, cominciò il suo racconto.
- Debbo innanzitutto fare una doverosa precisazione, amici, - iniziò il professor Natali - il fatto non è accaduto a me, ma, oltre al protagonista, a cui cambierò il nome, nessun altro ne è conoscenza. A quel tempo insegnavo al Liceo "Barabino" di Genova e tra le mie amicizie c'era il contabile di una ditta con sede in Via Dante. La ditta possedeva alcune succursali in riviera e ne aveva da poco aperta una nella cittadina di Casella. Il ragionier Borghi, così chiamerò il protagonista, era un giovane attaccato al suo lavoro e amante della musica. Da ragazzo, mi confidò un giorno, aveva sognato di diventare direttore d'orchestra. Dopo le medie si era iscritto al Conservatorio Musicale Paganini e aveva frequentato con successo i primi anni. Poi, per ragioni non ben chiare, dovette abbandonare gli studi e finì contabile in una ditta. Non lo vedevo spesso sebbene abitasse nel mio quartiere. Un giorno, passeggiando per i giardini di Villa Imperiale, lo trovai seduto su una panchina con un foglio di carta da musica in mano, la penna pronta per mettere giù qualche nota. La vecchia passione per la musica non si era mai sopita, anzi. Scrivere canzoni che finissero sulla bocca di tutti era la sua massima aspirazione e negli ultimi tempi sembrava aver realizzato il suo sogno perché il suo nome era molto noto per numerosi successi musicali. - Complimenti! - gli dissi, sedendomi al suo fianco. - Finalmente ce l'hai fatta a coronare il tuo sogno! Mi guardò e sorrise in modo strano. - Qualcosa non va? - gli domandai. - Prego, si sieda, professore. Sento il bisogno di parlare con qualcuno. Si sieda, le racconterò tutto. Mi sedetti al suo fianco. - Lei mi chiede se qualcosa non va: ebbene tutto non va o meglio non va più. - Spiegati meglio, se posso fare qualcosa... - Non c'è più niente da fare - mi disse. - Purtroppo ho già fatto tutto io e nessuno potrà più aiutarmi. - Continuo a non capirti, Borghi. Era evidente: aveva voglia di parlare e di sfogarsi con qualcuno, ma c'era qualcosa nel suo atteggiamento a trattenerlo, a contrastare con questa decisione. Alla fine si decise. - Forse le sembrerà una assurdità e alla fine mi darà del pazzo, ma non importa: prima ascolti e poi giudichi. E cominciò a raccontare. - Tutto ebbe inizio lo scorso anno. Ricordo ancora quella mattinata mentre uscivo dall'ufficio del direttore. Non sapevo se essere lusingato o seccato. Forse ero entrambe le cose: lusingato perché il direttore per svolgere un lavoro delicato, tra tutti gli impiegati aveva scelto me, dimostrandomi la sua fiducia. Seccato perché avrei dovuto modificare il mio metabolismo. Mi spiego: vede, professore, a me dà un fastidio tremendo dovermi svegliare al mattino presto; uscire di casa quando albeggia appena e per di più, salire su un trenino e starmene seduto su una dura panca per più di un'ora prima di potermi sgranchire le gambe. E tutto questo era compreso nella proposta del direttore. - Borghi da lei mi aspetto un grande favore, - mi aveva detto. - Lei conosce la Giusi, la nostra contabile di Casella? Ebbene la Giusi tra dieci giorni entra in maternità e per un anno non potremo contare su di lei. La ditta in questo momento non può permettersi di assumere un altro impiegato per cui lei dovrà recarsi nella nostra sede di Casella due volte al mese per esaminare i conti, controllare il fatturato, fare l'inventario delle scorte e compilare la lista degli acquisti. Di lei ho fiducia perché ho sempre apprezzato la sua coscienza lavorativa... tranne - aggiunse sorridendo - tranne qualche ritardo mattutino. "Coscienza lavorativa" era l'espressione favorita dal cavalier Ghini, la chicca, lo zuccherino con cui addolciva ogni sua richiesta. E se questa era accompagnata da un ritocco allo stipendio, otteneva sempre quello che voleva. Però a me sarebbero toccate anche le levatacce (per la verità due sole in un mese, ma pur sempre levatacce), proprio a me che amo sopra ogni cosa poltrire a letto il più a lungo possibile. A questo pensavo quel pomeriggio mentre uscivo dall'ufficio. - E chi mi sveglierà a quell'ora antelucana? - esclamai ad alta voce. - Scusi, dice a me? - mi domandò il portinaio indaffarato nel pulire i vetri del portone. - No, Martino, parlo da solo come i pazzi. E mi avviai a piedi verso casa. Sa, professore, a me piace passeggiare dopo il lavoro e fare quattro passi per rilassare i muscoli rimasti per ore inoperosi. Quella sera decisi di percorrere la strada più lunga per arrivare a casa, quella che passa attraverso Borgo Incrociati, sede di qualche negozio di alimentari, di molte botteghe di artigiani e di alcuni negozi di antiquariato nei quali si trova di tutto, dai vecchi mobili tarlati, alle sedie che mostrano l'usura del tempo, a una miriade di oggetti tra i più disparati, prelevati da impolverate soffitte. Roba vecchia e roba antica sono mescolate in un bric-à-brac caotico in cui solo il padrone, di solito un vecchietto semicurvo con addosso uno spolverino nero, anticaglia pure lui, riesce a raccapezzarsi. Però si prova sempre un certo fascino nel guardare attraverso i vetri impolverati tutte quelle anticaglie. Stavo appunto osservando una di quelle vetrine, attratto da un tavolino intarsiato, col ripiano a forma ovale, su cui stava una scacchiera in ebano con i quadretti bianchi fatti di scaglie lattee. I pezzi, in ordine, parevano sfidarsi in attesa di qualche giocatore pronto a muoverli. A fianco della scacchiera stava una teiera in peltro con cinque tazzine. A una mancava il manico. Dietro la teiera faceva bella mostra di sé un orologio, un carillon con cassa di legno in noce, alta una trentina di centimetri, lavorata da qualche abile maestro intagliatore e scultore. Lo stile ricordava la moda del Settecento. Nella parte anteriore era stato incastrato un quadrante rotondo, smaltato di bianco, con le sfere a forma di lancia. Al posto delle ore sei c'era un altro quadrante più piccolo, grosso come una moneta, con tutte le ore elencate, ma aveva una sola sfera: quella che serve per fissare la sveglia e indicare quando il carillon avrebbe suonato. Posato sull''orologio stava un cartiglio con sopra scritto "Pregevole orologio-carillon del XVIII secolo". - Ecco chi mi sveglierà! - esclamai e, spinto da un subitaneo impulso, entrai nel negozio. Come mi aspettavo, il padrone era un vecchietto tutto paludato in una zimarra lunga fino ai piedi. Mi era bastato varcare la soglia con un solo passo per abbandonare il XX secolo e trovarmi in mezzo ad oggetti di varie epoche, immerso in un passato più o meno lontano. - Desidera? - mi chiese il vecchio. - Vorrei sapere il prezzo di quel carillon in vetrina. Il vecchio mi squadrò da capo a piedi. Poi disse perentorio: - Non è in vendita. - Come, non è in vendita! E allora perchè l'ha messo in vetrina? - - Perchè mi piace guardarlo e farlo ammirare dal di fuori. - E quindi non lo vende? Invece di rispondere alla mia domanda, mi chiese bruscamente: - Lei, che mestiere fa? Lo guardai trasecolato. - Che cosa c'entra la mia professione con l'acquisto di un orologio? Ma se proprio ci tiene, non ho difficoltà a dirglielo: sono contabile in una ditta. Storse la bocca. Mi fissò e poi disse: - Ha qualche hobby? Continuai a guardarlo stupito. Era la prima volta che in un negozio mi si rivolgevano domande di quel genere. Però cominciai a trovare la cosa divertente e decisi di dargli corda. - Sì: mi piace pescare; raccolgo francobolli; coltivo fiori in vaso... Ad ogni mio hobby il vecchio scuoteva la testa mormorando tra sé e sé: - No, non posso darglielo; sarebbe un delitto venderglielo. E poi conclusi: - E poi c'è l'hobby a cui sono più affezionato perché è il mio preferito: amo la musica, suono il pianoforte e scrivo canzoni o, almeno, tento di farlo anche se fino ad oggi nessun mio motivo ha mai raggiunto il successo... Mi interruppi di fronte al cambiamento che stava subendo il volto grinzoso del vecchio. Il suo viso si era trasformato. Sembrava ringiovanito di colpo, tanto le sue rughe si erano appianate. - Magnifico! - disse dopo avermi squadrato a lungo. - Magnifico! Stupendo! Dove ha imparato la musica? - Ho frequentato il conservatorio per alcuni anni, - risposi meccanicamente - ma poi, per esigenze di famiglia, ho dovuto trovarmi un lavoro stabile. - Quindi, lei conosce la musica! - Perdinci se la conosco! Non ho mai smesso di coltivarla e, senza falsa modestia, quando mi siedo al piano non sono proprio un dilettante... Il vecchio si avvicinò alla vetrina, prese l'orologio-carillon e me lo porse. - Ecco, se lo vuole, è suo! Glielo vendo. Presi l'orologio e sul cartiglio lessi il prezzo. Era stato scritto con grafia molto piccola e attraverso la vetrina non ero riuscito a decifrarlo. Centoventimila lire. Decisamente troppo per le mie tasche, anche se l'oggetto forse le valeva. - La ringrazio, ma, visto il prezzo, non me lo posso permettere. - Il prezzo? - fece il vecchietto prendendo il cartiglio. - Oh, il prezzo! - esclamò, stracciandolo. - Mi dia diecimila lire e se lo porta via. Fissai l'uomo e poi l'orologio e mi chiesi: "Dove sta l'imbroglio? Ribassare un prezzo da centoventimila lire a diecimila dimostra o la pazzia del commerciante o una truffa". Presi l'orologio tra le mani e lo esaminai da tutte le parti. Era ermeticamente sigillato. Le chiavette per dare la corda, far girare le sfere delle ore, dei minuti, della sveglia, e per caricare il carillon, spuntavano sul retro. - Ma funziona? - Certo che funziona! Il vecchio me lo tolse di mano. Diede la corda sia al meccanismo delle ore sia a quello del carillon e poi fece girare la sfera della sveglia finchè il carillon non cominciò a suonare. Riconobbi subito il motivo: era Eine Kleine Nachtmusik di Mozart. Un motivo delizioso, adatto ad interrompere piacevolmente il sonno. Non stetti più a discutere: pagai e uscii con l'oggetto sotto il braccio, incartato con cura dal vecchio e accuratamente sistemato in una scatola di cartone. Se si trattava di un bidone ci avevo rimesso solo diecimila lire. E poi non è che la sveglia dovesse funzionare tutte le mattine. Doveva bastare per due soli risvegli al mese e solo per il periodo di tempo in cui l'impiegata di Casella sarebbe rimasta assente.
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Il carillon funzionò ma, nonostante le note mozartiane, la prima volta lo odiai per avermi svegliato ad un'ora antelucana. Quando salii sul trenino per recarmi a Casella, avevo ancora gli occhi gonfi di sonno, ma la bellezza del paesaggio che vedevo dai finestrini valse a fugare ogni nebbia. Più il trenino saliva lentamente, inerpicandosi lungo le pendici dei monti, più godevo nel vedere i paesini della riviera, alcuni in riva al mare e altri abbarbicati, quasi appesi alle asperità dei monti strapiombanti sul mare. E poi c'era il mare, tutto il mare splendente sotto i raggi obliqui del sole. Sono quelli i momenti in cui il mio estro poetico, anzi musicale, si risveglia e come a certi suggerisce versi per una poesia, a me suggeriva motivi di canzoni. Anche se non avevo seguito la carriera musicale, dopo aver abbandonato il conservatorio, non avevo mai cessato di occuparmi di musica e neppure perduta la speranza di essere baciato in fronte da Euterpe, la mia musa preferita. Per cui ero solito portare sempre con me dei fogli di carta pentagrammata su cui appuntare suoni e melodie dettate da un momento particolare, come la bellezza del paesaggio in quel momento. E subito cominciai ad scrivere le note che danzavano nella mia mente. Quando arrivai a destinazione mi trovai tra le mani una canzone. Mancavano le parole, ma a queste avrebbe pensato un mio amico discografico di Bologna a cui inviavo tutto quanto producevo. Devo essere sincero: sino ad allora la mia fortuna nel campo della canzone, con tutta la concorrenza che c'è, aveva sempre volato raso terra. Pochi riconoscimenti, nessun successo. Per questo, qualche settimana appresso, lessi con stupore misto a contentezza la lettera di Pietro Masi, il mio amico bolognese. Mi scriveva:
"Vecchio strimpellatore, cosa mi combini? Cambi stile e non mi avverti? Ho proposto la tua canzone alla Electronic Music. Una bomba! Mi hanno chiesto chi sei; che cosa fai; come mai non hanno mai sentito parlare di te. Dimmi la verità: l'hai proprio scritta tu o l'hai rubata a qualcuno? Qui sono entusiasti e vogliono altro materiale. Mettiti al pianoforte e spremiti le meningi. Tuo Pietro
La mia canzone... la Electronic Music... il successo inatteso. I pensieri cominciarono ad affollarsi nella mia mente, ad aggrovigliarsi e soprattutto mi ossessionava la richiesta di altro materiale. Già, altro materiale! Facile a dirsi per l'amico Pietro; per lui scrivere parole per testi musicali equivaleva a girare un rubinetto. Per me no. Io sono lento e poi devo trovare il momento e il motivo adatto. Si tratta di aspettarli e di coglierli. Li colsi quindici giorni dopo, quando composi una seconda canzone. Fu un altro insperato successo! Nel frattempo continuavo il mio lavoro di contabile, il quale, a ben pensarci, mi garantiva uno stipendio sicuro. La musica non doveva interferire nel mio lavoro, comunque nel periodo che seguì i miei primi successi, riuscii a comporre due canzoni al mese e il mio nome cominciò ad essere apprezzato nell'ambiente musicale. La Electronic mi mise sotto contratto e da quel momento notai con piacere che il mio conto in banca cominciava a lievitare sensibilmente, tanto da farmi pensare all'opportunità di dedicarmi alla musica a tempo pieno. Era trascorso un anno dal primo successo e il Long Play lanciato dalla Electronic, comprendente una ventina di canzoni, aveva ottenuto un largo successo di pubblico. Vendite alle stelle, interviste su riviste, rotocalchi e TV. Ci vuol poco a montarsi la testa e io me la montai, anche se in un angolo della mente una vocina mi diceva di valutare le mie possibilità e mi ripeteva: E se la vena musicale si inaridisce? Ne discussi col cavalier Ghini, il mio direttore. - Allora, sei indeciso se lasciarci o no, - disse dopo avermi ascoltato. - Ti capisco, il mondo della musica è più affascinante ed allettante di quello dei registri, delle partite doppie e delle macchine calcolatrici, per cui nemmeno io mi saprei decidere... - Ma io, cavaliere, desidero il suo parere - lo interruppi. - Io sono veramente indeciso. Mio nonno mi diceva sempre: "Ragazzo mio, nella vita devi sempre fare in modo di avere una mano saldamente aggrappata a qualcosa di sicuro. Mai lasciare la presa se prima non ti sei assicurato che l'altra mano sia anch'essa saldamente aggrappata". - Tuo nonno era un saggio. Capisco il tuo problema: non vuoi dare le dimissioni, ma vorresti essere libero di dedicarti interamente alla musica. E' così? - Sì, è così. Vorrei conservare il mio lavoro nel caso facessi fiasco. Il cavalier Ghini stette un poco a meditare sul problema. - Una soluzione ci sarebbe. Come saprai, la Giusi il mese prossimo riprenderà il suo lavoro e quindi le tue gite mattutine a Casella non saranno più necessarie. Qui, per ora, non si prevede un aumento di lavoro, per cui potresti prenderti una aspettativa di sei mesi durante i quali avrai tutto il tempo di meditare e di valutare la situazione. Per me era la soluzione ideale; l'unica accettabile. Privo dell'assillo del lavoro, mi sarei interamente dedicato alla musica. Mi sentii alle stelle. Avrei potuto rispettare comodamente il contratto con la Electronic, la cui clausola principale prevedeva almeno una canzone al mese; al mattino avrei dormito fino a tarda ora; avrei avuto tutto il tempo a mia disposizione. Una pacchia! Le prime due settimane di aspettativa furono di relax. Dormivo sino alle dieci o giù di lì; facevo lunghe passeggiate; mi trovavo con gli amici o me ne andavo a pesca. Portavo sempre con me dei fogli pentagrammati, da usare qualora qualche motivo si fosse formato nella mia mente. Ma poi, a poco a poco, cominciai ad accorgermi che i fogli mi rimanevano in tasca, tanto che alla fine del primo mese non avevo inviato alcuna canzone alla casa discografica. Il tempo continuò a passare e, con mio sommo stupore, neppure nel secondo mese ero riuscito a buttar giù una nota. Per la verità qualche motivo era risuonato nella mia mente, ma si era trattato di brani già noti, di sequenze altrui che, inconsciamente rielaboravo. Di originale non c'era nulla. Capitò quanto mi aspettavo. Un giorno la segretaria del direttore della Electronic mi telefonò. Il suo capo mi fissava un appuntamento per le undici del giorno dopo, "per informazioni attinenti il suo contratto". Questa era la motivazione. Data una rapida occhiata all'orario ferroviario, trovai un treno che partiva da Genova alle sei del mattino e arrivava a Bologna verso le dieci. L'ideale per l'appuntamento delle undici... tranne la levataccia cui non ero più abituato dai tempi dei miei viaggi a Casella. Il treno partì in orario. Cullato dal sordo rumore delle ruote sulle rotaie, chiusi gli occhi e mi misi a pensare al colloquio col direttore della Electronic. Non avevo alcun dubbio: mi avrebbe ricordato il contratto e il mio impegno a scrivere almeno una canzone al mese. E io non avevo nulla da proporgli. Ma era così difficile trovare un motivo musicale? mi dissi. Avevo sempre pensato che la mente doveva essere lasciata libera di esprimersi e non messa sotto sforzo. Ma siccome nulla era capitato in due mesi, quel mattino decisi di forzarla e mi imposi di scrivere subito un motivo da sottoporre al mio arrivo al direttore per dimostrare la mia buona volontà. Quando arrivai alla stazione di Bologna, avevo il ritornello della canzone già pronto e la melodia generale abbozzata. Forse bastava per controbattere il rimprovero del direttore. E perdinci se bastò! Lasciai dire al direttore, un uomo grasso, col volto rubizzo e gli occhi sporgenti, quanto mi attendevo e poi, senza rispondergli, mi recai al pianoforte posto in un angolo del vasto ufficio (anche lui evidentemente si dilettava di musica), mi sedetti e cominciai a suonare il motivo composto in treno. - Sa, - gli dissi dopo l'eco dell'ultima nota, - è un motivo composto di recente, dovrei rivederlo un po'... - Lo riveda! - mi ingiunse burbero. Ma si vedeva: gli era piaciuto assai. - Lo riveda e me lo mandi entro la settimana. E mi raccomando, puntualità per il futuro. Quell'ultima canzone fu un gran successo e la fiducia nelle mie capacità ritornò. Passò un altro mese durante il quale non composi alcun motivo; poi un altro ancora. Ma che strana la mia mente, mi dicevo, c'è stato un periodo in cui riuscivi a comporre due canzoni al mese e ci sono mesi in cui non riesci a cavar fuori un 'la'! Ci sarà pure una spiegazione? Un pomeriggio, mentre me ne stavo seduto sugli scogli in riva al mare a rimuginare sul problema, decisi di cercare la ragione dei miei alti e bassi nel campo musicale. Trassi di tasca fogli e penna, ma non per scrivere musica. Ripensai al mio primo successo e a quando l'avevo spedito al mio amico di Bologna. Uno dei miei vanti è quello di avere una mente matematica, allenata a ricordare cifre e date per cui mi fu facile ricordare. E scrissi: I canzone 6 febbraio II canzone 24 febbraio III canzone 8 marzo IV canzone 29 marzo V canzone 12 aprile VI canzone 27 aprile VII canzone 10 maggio VIII canzone 25 maggio
Prima di continuare l'elenco, rilessi le date e mi colpì subito una coincidenza: ogni mese avevo composto due canzoni; una nella prima quindicina e l'altra nella seconda. Un breve riassunto mentale mi confermò che pure le successive erano state composte in periodi simili, tranne l'ultima, scritta durante il viaggio in treno a Bologna. - O perdinci, che coincidenza! - esclamai. E il mio pensiero corse veloce alla fasi della luna, quando il satellite cambia forma. Che c'entrasse l'influsso lunare? Per l'agricoltura mio nonno ci aveva sempre creduto: nel mio caso forse metteva in moto la mia vena musicale! Ma subito un altro pensiero si sovrappose: i miei viaggi mensili a Casella, erano avvenuti proprio in quei giorni: esisteva forse un collegamento? Ma che c'entravano i miei viaggi? mi dissi. Che cosa mi spingeva a scrivere canzoni? E sì, perché ora intuivo anche un'altra coincidenza: avevo sempre composto le mie canzoni durante il viaggio, mentre il trenino si arrampicava lungo le pendici della collina, attraversando gallerie, macchie di pini, di acacie e di castagni. IL TRENO! Ecco la mia musa ispiratrice! Avevo trovato: era il treno. Col suo ritmo faceva da sottofondo musicale e favoriva la nascita di nuove canzoni. E come conferma alla mia idea c'era pure un'altra prova lampante. Quando il direttore della Electronic mi aveva convocato a Bologna per una tiratina d'orecchi sulla mia "indolenza musicale", AVEVO VIAGGIATO IN TRENO e durante il viaggio avevo, senza alcuna fatica, composto il mio ultimo successo. Se non fosse stato perchè il sole stava tramontando, sarei corso a prendere il trenino per Casella. Saggiamente rimandai tutto all'indomani. Ormai avevo capito dove stava la fonte dei miei successi: bastava che mi lasciassi cullare dal ritmo del treno. L'indomani era una giornata magnifica. Alle dieci presi il trenino per Casella, munito di carta e penna. Dal finestrino osservavo il panorama. La primavera aveva tinto di verde ogni cosa; l'erba nata da poco ricopriva le pendici, i fiori... ma non era la natura in quel momento ad interessarmi. Aspettavo l'ispirazione pronto a tradurla in note... ma non venne. Neppure durante il viaggio di ritorno. Il pomeriggio del giorno dopo entrai nella stazione di Brignole e presi il primo treno in partenza: un regionale diretto ad Albenga. Ma neppure la vista del mare riuscì a risvegliare qualcosa in me. Nei giorni seguenti riprovai ancora, ma fu tutto inutile. Il treno non c'entrava. E allora cosa? Decisi un ultimo tentativo: ripetere le stesse condizioni e le stesse mosse di quando avevo composto il primo motivo. E quel mattino, ancora assonnato come la prima volta, presi il trenino delle sei e dieci per Casella. Quando raggiunsi la stazione di Casella avevo tra le mani non uno, ma due motivi. Li canticchiai e mi parvero bellissimi. Durante il viaggio di ritorno ripensai all'intera faccenda deciso a trovare la soluzione. La sentivo vicina. Ragionai come un detective, controllai, paragonai, scartai e, alla fine, come diceva il grande Sherlock Holmes "quando hai scartato anche l'impossibile, l'improbabile è la verità", fui certo di aver capito. Davanti a me era rimasto un dato o meglio un oggetto ricorrente, legato ad ogni canzone: io avevo sempre composto i miei motivi di successo al mattino, dopo una levataccia e DOPO ESSERE STATO SVEGLIATO DAL SUONO DEL CARILLON. Il carillon e il suo motivo Eine Kleine Nachtmusik di Mozart erano i motivi ispiratori di tutte le mie canzoni. Fu una scoperta sconvolgente, anche se non riuscivo a capire come il motivo suonato dal carillon, sempre lo stesso, potesse avermi suggerito tante canzoni diverse. Che tipo di carillon era? Corsi a casa deciso a risolvere l'arcano. Rimossi la parte posteriore per vedere cosa c'era dentro; ma non scoprii nulla: si trattava di un normale congegno composto da un cilindro girevole da cui spuntavano tante piccole punte le quali, venendo a contatto con delle lamelle di diversa lunghezza le facevano vibrare ed emettere suoni diversi. Tutto lì. Il giorno dopo mi recai in Borgo Incrociati per chiedere al vecchietto che me lo aveva venduto, se sapeva qualcosa. Il negozio era sempre là con la sua finestra impolverata attraverso la quale si vedeva il tavolino intarsiato col ripiano a forma di pisello, la scacchiera in ebano, la teiera di peltro con le cinque tazzine. Tutto era rimasto immutato: solo il carillon ovviamente mancava. Doveva fare affari grami il padrone se non era riuscito nell'arco di un anno a vendere quegli oggetti. Entrai e fui accolto da un giovane. - Scusi, - gli dissi, - vorrei parlare col padrone. - Sono io il padrone. - Ma non c'è anche un signore anziano? L'ultima volta mi ha servito un uomo. Vestiva una lunga zimarra nera. - Allora è stato molto tempo fa. Lei si riferisce a mio padre. Purtroppo è morto da mesi. Feci un gesto di sconforto e il giovane se ne accorse. - Posso esserle utile io? Chissà, mi dissi. Gli raccontai l'intera faccenda e quando apprese il mio nome si dimostrò interessato. Era un mio ammiratore, la mia musica gli piaceva e conosceva tutte le mie canzoni. Mi lasciò completare il racconto e quando lo conclusi fece un bel sorriso. - Finalmente è venuto, signor Borghi. Da molto tempo l'aspetto. Mio padre, alcuni giorni prima di morire, mi parlò di lei e mi preannunciò una sua visita per chiedere notizie sul carillon... - Allora lei sa qualcosa? - lo interruppi eccitato. - So quanto mi disse mio padre quando lei cominciò a mietere successi. "Lo sapevo! Ha funzionato!", mi disse. "Ma pensa, figlio mio, quando mi proposero di acquistare il carillon, ero indeciso perché il venditore era un tipo strano. Secondo lui quel carillon era magico. Io lo avevo guardato con un sorrisino scettico, ma l'oggetto mi piaceva e valeva il prezzo richiestomi. Quell'uomo mi spiegò di averlo comprato ad un'asta dove si vendevano i beni della famiglia Orloff, il cui ultimo discendente era oberato di debiti. Il carillon era appartenuto ad uno dei componenti della famiglia, un giovane handicappato, privo dell'uso delle gambe. Era appassionato di musica e si diceva avesse talento e componesse deliziosi motivi, ma non aveva mai permesso alla sua musica di varcare le mura della sua stanza. La considerava solo sua e suonava per pochi amici e per la fanciulla amata, rimasta al suo fianco sino a quando morì, all'età di ventidue anni." - E il carillon cosa c'entra? - lo interruppi. - Ho rivolto la stessa domanda a mio padre e in più gli chiesi perché avesse la fama di essere un oggetto magico. "Non so risponderti - mi disse. - So solamente che il giovane era affezionato al carillon perché gli era stato regalato dalla sua ragazza. Lo teneva costantemente sul piano quando componeva le sue canzoni. Posso solo azzardare una ipotesi - aveva aggiunto mio padre - una ipotesi assurda, ma tale da spiegare l'alone magico che circonda l'oggetto. Penso che il carillon, stando sempre sul piano 'ha ascoltato' tutte le composizioni, tutti i motivi creati da quel giovane e se ne è imbevuto come una spugna". Tacque un istante e poi riprese: - E anch'io ho la mia ipotesi. Oggi, quando il carillon suona, restituisce e regala a lei tutti i motivi assorbiti, proprio a lei, perché, come quel giovane, è appassionato di musica. Meditai un poco su quanto avevo appreso. - Ma il carillon - obiettai - suona sempre e unicamente il motivo di Mozart. A me non ha mai suggerito altro motivo. - Signor Borghi, un carillon serve a svegliare chi dorme. Chi le assicura che dal meccanismo del suo magico carillon, qualche istante prima di suonare Eine Kleine Nachtmusik, quando lei ancora dorme, non fuoriesca un motivo inedito? Proprio uno di quelli composti dal giovane Orloff? Questo motivo potrebbe rimanere impresso nel suo subconscio e riaffiorare successivamente? Lei il carillon lo ha usato solo per svegliarsi al mattino e la canzone la componeva subito dopo. Non le pare una coincidenza strana? Tutto coincideva. Ora finalmente sapevo da dove veniva la mia ispirazione, anche se l'apprenderlo mi aveva lasciato un poco deluso. Non fa piacere sapere che il tuo successo è dovuto ad un altro e che, inconsciamente, ti trovi a sfruttare la vena poetica di un giovane morto a ventidue anni, due secoli prima. Mi avviai lentamente verso la porta. - Ah, - riprese il padrone del negozio - dimenticavo: mio padre mi raccomandò di consegnarle una lettera quando si fosse presentato per chiedere informazioni sul carillon. Attenda, debbo averla, messa da qualche parte. Andò verso un secretaire ingombro di carte e si diede a rovistare in un cassetto. - Eccola! Mi porse una busta giallastra. L'aprii e ne trassi un foglio.
Egregio signore, ora sa tutto e avrà anche capito perché fui così strano quando le feci tutte quelle domande prima di venderle il carillon. L'uomo dal quale lo avevo acquistato mi raccomandò di dire a chi a sua volta lo avesse comperato una cosa essenziale e importante. Mi dimenticai di comunicargliela all'atto della vendita. Mi disse: informi l'acquirente di non tentare mai, in alcun modo, di aprire il carillon per scoprirne la magia, se no questa sparirà. Con stima
Mi afferrai alla porta per non cadere - Si sente male? - mi chiese il giovane accorrendo premurosamente. - No, un lieve capogiro. E' già passato gli risposi uscendo. Non gli confessai che il giorno prima, dopo aver intuito che il carillon era in qualche modo l'ispiratore della mia musica, l'avevo aperto per vedere come era fatto e che cosa conteneva. Da allora, mio caro professore, - concluse il mio amico Borghi, mostrandomi carta e penna, - continuo a tentare di scrivere qualche canzone, ma la Electronic me le respinge con la motivazione che ho cambiato stile e ai miei ammiratori non piacerebbe.
Terminato il racconto, il padrone di casa si era diretto verso la finestra. Aveva guardato il vasto giardino, il turbinare della neve e un alto ippocastano i cui rami si agitavano al soffiar del vento. I presenti tacevano, ripensando all'amara vicenda del proprietario del carillon e a quanto spesso la curiosità sia punita. L'unico rumore, oltre ai ceppi scoppiettanti nel camino, era il violento soffio delle raffiche. Passando attraverso i rami dell'albero lo facevano gemere come un'anima in pena e stridere e urlare quasi un demone si fosse annidato in qualche cavità del tronco. Anche Aldo Lattanzi, l'imprenditore, si voltò a guardare il buio oltre la finestra e a porgere orecchio al sibilar del vento. - C'è un punto nel tuo racconto, o meglio nel racconto del tuo amico ragioniere - ruppe il silenzio Simone Dursi - non ben chiaro. Mentre ti ascoltavo, mi sono chiesto: "Ma dalla morte del giovane Orloff, il compositore, nessuno ha più usato quel carillon? E se, invece, qualcuno lo ha fatto suonare, perché costui non ha mai scritto canzoni?” - Potrebbe anche essere avvenuto. Noi non sappiamo in quali mani sia capitato prima di essere esposto in vetrina. Qualcuno inconsciamente potrebbe aver tratto vantaggio dal magico potere in lui racchiuso, senza esserne a conoscenza. Anche in passato è stata composta buona musica e ottime canzoni - gli fece notare Miriam Alfieri. E poi non tutti scrivono musica. Il carillon avrà anche suggerito qualche motivo a chi lo ha ascoltato nel dormiveglia e costui si sarà solo divertito a canticchiarlo e nulla più. Capita a tutti di canticchiare qualcosa di inedito. - E, quindi, tu vieni a suffragare l'idea dell'improvvisa comparsa della vena musicale del mio amico ragioniere il quale, invece, di musica se ne capiva e sapeva anche come scriverla - disse il professor Natali, pronto a difendere la magicità del carillon. - Non mi dirai, Alberto, di credere nella magia proprio alle soglie del duemila! - E allora, come spieghi le canzoni scritte dal Borghi? - Una improvvisa intuizione musicale... - Non è una spiegazione esauriente. Uno non diventa un piccolo Mozart all'improvviso. E poi come spieghi l'inaridimento della vena musicale proprio dopo l'apertura del carillon "per guardarci dentro"? - Lo spiega persino la mitologia - intervenne Antonelli. - Pensate al vaso di Pandora. Dentro erano stati chiusi e sigillati tutti i mali del mondo; è bastato aprirlo e puff!... sono volati via. - Ma non spariti, Marta, non spariti: anzi! - le fece notare il professor Natali. - Mentre tutti i motivi del carillon, quelli sì sono spariti. No, io resto legato ai 'poteri magici' di quell'oggetto e per quanto possiate discutere non riuscirete a convincermi del contrario. - A meno che - intervenne Giovanni Calonghi rimasto sino a quel momento ad ascoltare - a meno che il carillon magico non avesse esaurito la sua scorta di melodie. - Giovanni, sei sempre il solito mediatore come ai tempi del liceo. Riesci a conservare l'alone magico caro a Natali e a dare una spiegazione razionale all'inaridimento di una vena musicale sostenuto da Borghi e da Antonelli. Per un poco si udì solo lo scoppiettìo della legna nel camino, poi, Lattanzi, posando il bicchiere su un basso tavolino, disse: - A proposito di magia, il tuo racconto mi ha richiamato alla memoria un fatto accadutomi una estate di qualche diecina di anni fa. Tu, Giulio, hai proposto racconti anche personali purché‚ contengano un pizzico di mistero e si trovino ai confini della realtà. Ho inteso bene? Io non so se la mia vicenda lo sia o se si tratta solo di un banale sogno. Ma nella conclusione vi sono dei fattori particolare. Non sono mai riuscito a spiegarmeli e mi hanno sempre lasciato perplesso. Giudicherete voi dopo aver ascoltato.
Non so se qualcuno di voi ha la passione della pesca. Io ce l'ho sin da ragazzo. Datemi una spiaggia, una canna, degli ami e delle esche e farete la mia felicità. Ho un ricordo nitido dell'estate del 75, un'estate strana, iniziata con un caldo torrido dovuto a venti del sud. Una calura soffocante ti fasciava la testa, ti riscaldava il cervello e ti offuscava le idee. Quell'estate mi trovavo ad Albisola dove avevo preso in affitto una casetta in riva al mare e ogni giorno mi recavo su un lembo di spiaggia libera per pescar cefali con la canna a lancio. A dir la verità non è il tipo di pesca che preferisco. A me piace usar la canna fissa perché dà maggiori soddisfazioni. Ti permette di guardare il galleggiante e di capire subito, vedendolo affondare tra le onde, se il pesce sta abboccando. La pesca con la canna a lancio è, invece, noiosa e ti dà poche soddisfazioni. Infili l'esca sull'amo, lanci il piombo il più lontano possibile dalla battigia (se possiedi l'abilità di un lanciatore di giavellotto), infili la canna su un sostegno... e poi aspetti. Aspetti la tocca di qualche cefalo, orata o branzino. Ma capita raramente e per te comincia una lunga attesa e, se non hai compagnia, ti vien voglia di sdraiarti sulla sabbia o di appoggiarti a qualche masso e fatalmente ti addormenti.
Fu quanto mi capitò quel giorno di luglio. Avevo sistemato due canne da lancio poco distante da uno stabilimento balneare da cui proveniva il suono di un juke-box, un vociar di bimbi, grida di richiamo e uno strillare continuo di madri nell'eterna ricerca del pargolo perduto. Un elicottero girava sulla baia, al largo rombavano alcuno motoscafi. L'avrete notato tutti: quando rumori diversi si mescolano, all'orecchio giunge una cacofonia da farti impazzire. A me i rumori fanno l'effetto contrario: mi conciliano il sonno E anche quel giorno, senza accorgermene, dopo aver dato una ennesima occhiata ai cimini delle due canne, sempre immobili come pali, scivolai lentamente nel sonno e ogni rumore attorno a me si dissolse. - E non prendesti pesci - concluse ridendo Dursi, il consulente finanziario - perché si sa, chi dorme... Lattanzi lo guardò sorridendo e proseguì. - Mi svegliò il silenzio. Proprio così, il silenzio. Un silenzio innaturale. Tra le palpebre socchiuse guardai le canne per vedere se, mentre dormivo, qualche preda avesse abboccato all'amo... Non le vidi. " Mi hanno fregato le canne!" pensai subito, balzando in piedi completamente sveglio. In quell'istante avvertii una strana sensazione, una sensazione di freddo e l'assenza attorno a me di ogni suono. Il sole stava per calare dietro i monti e la spiaggia alla mia destra e alla mia sinistra era completamente deserta. " Possibile " mi dissi. "Non puoi aver dormito tutto il pomeriggio". In quel momento mi accorsi di essere completamente vestito: brache di fustagno tutte stropicciate e con buchi, un camicione lungo sino alle anche, legato in vita da un cordiglio sul tipo di quelli usati dai frati francescani, sandali di cuoio grezzo. Indumenti decisamente non miei. Non erano nel mio stile. Mi ero addormentato in costume da bagno firmato da un noto stilista milanese e mi svegliavo con addosso indumenti non certo adatti alla stagione e fuori moda. Forse andavano bene a qualche contadino del Medioevo. Preoccupato, guardai alle mie spalle e rimasi a bocca aperta. Un vago senso di paura cominciò ad insinuarsi nella mia mente. Lo stabilimento balneare non c'era più e con esso erano pure sparite tutte le cabine costruite lungo l'arenile. Pure le villette e le case dei dintorni erano scomparse e non c'era nemmeno più traccia delle strade e stradicciole che conducevano alla spiaggia. Tutto scomparso come le mie canne. Non c'era all'intorno alcuna costruzione. Solo la natura rigogliosa veniva a morire in riva al mare. Un paesaggio di centinaia, forse d'un migliaio di anni prima. Cominciai ad aver veramente paura e, lo confesso, a tremare e non soltanto per l'assenza del sole ormai sparito dietro i monti. Decisi di risalire la scarpata e di avviarmi verso l'interno. Avrei pur trovato qualcosa o qualcuno a cui chiedere spiegazione sul luogo dove mi trovavo! Ma più mi inoltravo, più aumentava il senso di paura, di angoscia, di terrore che mi aveva afferrato. Un terrore di cui la natura stessa pareva intrisa: cespugli aggrovigliati, dense macchie di rovi. Dovevo continuamente fare attenzione e aggirare rami bassi pronti a colpirti impietosamente in faccia se non stavi attento a scansarli, radici a profusione, sporgenti dal suolo, anche queste pronte a farti inciampare. Non abituato a quei sandali di cuoio grezzo e duro, caddi più volte. Una volta persino ruzzolai per una breve scarpata e andai a sbattere con lo zigomo contro il tronco di un albero. Avrei urlato di dolore se non fosse stato per il timore stesso di urlare e di vedermi comparire di fronte qualcuno o qualcosa che sarebbe stato meglio non incontrare. La paura gioca spesso di questi scherzi. E fu un bene non chiamar aiuto. Mi ero allontanato dalla spiaggia per oltre un chilometro, quando fui colpito da un suono particolare. Era un misto di voci, quasi una nenia salmodiante, una melodia strana e per nulla gioiosa né romantica; ma non era neppure un coro di avvinazzati. E quanto più mi avvicinavo alla fonte, tanto più il canto si diffondeva nell'aria, insinuandosi tra i rami degli alberi e tra i cespugli come una nebbia malefica, piena di miasmi pestiferi, simile a quella che si addensa sulle paludi al calar del sole. Non avevo mai udito un canto così tetro, così funebre, così ossessionante. Cautamente mi feci largo tra i cespugli finché non scorsi in una radura poco lontana un gruppo di persone riunite attorno ad un pozzo recintato da un alto muretto in pietra. Pensai subito ad una setta segreta, riunita per celebrare chissà quale rito. Le donne, tutte vestite di nero, con gonne lunghe sino alle caviglie, portavano lunghi capelli non riuniti in trecce o in crocchie, ma lasciati liberi sulle spalle, capelli che raramente avevano avvertito la carezza di un pettine. Se ne stavano riunite da una parte del pozzo e agitavano alte sul capo le braccia, verso gli uomini raggruppati dalla parte opposta. Gli uomini mi colpirono più delle donne. Avevano un cappuccio conico. La faccia non si vedeva. Solo due buchi all'altezza degli occhi permettevano loro di vedere. Indossavano nere palandrane con sopra disegnati simboli dorati. Dalla distanza a cui mi trovavo, non riuscivo a decifrarli. Tutti quanti parevano danzare perchè al suono della melodia intonata dalle donne, si dondolavano ora su un piede ora sull'altro come orsi in gabbia. Ma la figura più imponente, quella che più accrebbe in me la paura, fu un gigante di circa due metri ritto e solitario a poca distanza dal muretto del pozzo. A differenza dei suoi compagni non indossava alcun cappuccio, per cui potei notare la chioma bianca brillare di luce argentea. Il volto, oh Dio!, il volto! Quello non lo scorderò mai. Rugoso, butterato, le guance rientranti, scavate, il naso aquilino e fortemente ricurvo e gli occhi pieni di ferocia, esprimenti la volontà e il potere di chi è malvagio di natura. Era avvolto in un ampio mantello color violaceo, anch'esso cosparso di segni e simboli. Doveva essere il capo di quella setta: il sacerdote supremo. Mentre tutti cantavano una melodia strana, pareva provenire dalle profondità del pozzo, se non dall'inferno stesso, il gigante in silenzio teneva in una mano per le zampe un gallo vivo e nell'altra un coltello dalla lama lunga e affilata. Davanti a lui, sul bordo del muretto che in quell'occasione fungeva pure da altare, stava disteso un bimbo di forse cinque, sei anni, nudo. Il bimbo si agitava debolmente. Dovevano averlo drogato con qualche pozione, pur lasciandolo cosciente. A togliermi ogni dubbio che si trattasse di un rito magico, satanico addirittura, fu un intreccio di righe perfettamente visibili, tracciate con calce tutto attorno al pozzo. Formavano una stella a cinque punte: un pentacolo, il simbolo magico capace di preservare dalla magia, ma usato durante i riti diabolici, le messe nere, i sabba satanici e i sacrifici umani. Non v'era dubbio: quello a cui stavo assistendo era un rito diabolico, la funzione di un culto satanico eseguito da quelle persone. Nella calma della notte, ormai calata, vidi tutti i presenti trarre da sotto le vesti una fiaccola e accenderla ad un braciere posato ai piedi del pozzo. All'improvviso lo spiazzo tutto attorno fu illuminato da un bagliore rossastro che conferì alla scena un carattere ancora più allucinante e si udirono le parole del sacerdote levarsi alte nel silenzio notturno. - O Mio Signore, Signore delle Tenebre, Angelo ribelle a Dio, e anche voi, demoni, Astaroth, Belial, Ariman, accettate questo modesto sacrificio. Ve lo offriamo noi, umili servi. Ecco, per voi, accettate! E così dicendo, mentre i presenti levavano un nuovo canto in cui si mescolavano odio, rabbia, terrore, esultanza, il gigante dalla chioma bianca, tenendo il gallo alto per le zampe, sopra il corpo del bimbo, vibrò un fendente col coltello, decapitando la povera bestia. Vidi nitidamente il lampo rossastro della lama guizzare veloce, colpire e troncare la testa dell'animale. La vidi cadere nel pozzo. Il corpo del gallo decapitato si agitò convulso, mentre il sangue, sgorgando copioso, scendeva sul corpo del bimbo imbrattandolo. Poi, mentre il canto dei presenti si smorzava, divenendo quasi un sussurro malefico, il sacerdote, gettato il corpo dell'animale oltre il pentacolo, afferrò con ambo le mani il bimbo, lo tenne alto sopra il capo per farlo vedere a tutti i presenti e poi lo scaraventò nel pozzo. Urlai, urlai con tutte le mie forze. I volti dei partecipanti a quell'orrendo rito si voltarono di scatto verso il punto in cui mi ero nascosto, impossibilitati di vedermi nell'ombra notturna. Il primo a riscuotersi fu il gigante. Facendo un cenno con la mano nella mia direzione, gridò: "Prendetelo e portatelo qui!" Non stetti ad attendere gli uomini scatenati contro di me e fuggii verso il mare, sperando di far perdere le tracce e di distanziare quell'orda di assassini, impacciati nell'inseguimento dalle loro lunghe vesti. Corsi a perdifiato, incurante dei rami che mi flagellavano, dei rovi che mi si impigliavano nelle brache, nella camicia e parevano trattenermi per consegnarmi agli inseguitori. Ansante, trafelato e terrorizzato, quando fui in prossimità della spiaggia non mi accorsi di una radice sporgente dal terreno. Inciampai, caddi e rotolai per la scarpata finché con lo zigomo già ammaccato in precedenza, non urtai contro un masso. Svenni.
Forse fu il vociare dei bimbi o il rumore dell'elicottero in volo sopra la baia a farmi tornare in me. Lentamente aprii gli occhi e per prima cosa vidi i cimini delle mie due canne da pesca. Se ne stavano perfettamente immobili, puntati verso il cielo. I pesci stavano disdegnando le mie esche. Mi guardai attorno. Nulla era mutato: gente sulla spiaggia, corpi distesi al sole, gente in mare o sotto un ombrellone. Gli altoparlanti degli stabilimenti diffondevano musica. Quei rumori fugarono di colpo il mio incubo e cancellarono la visione di un gallo decapitato, del corpo nudo di un bimbo, ricoperto di sangue, gettato vivo in un pozzo senza alcuna pietà. L'incubo era passato e mi trovavo di nuovo nella mia dimensione abituale. - Ma ne sei sicura? - disse dietro di me una voce di donna. - Ma sì, sono sicura! Non hai sentito le sirene della polizia? Ho chiesto al gestore del bar e me lo ha confermato. L'hanno trovato qui vicino - rispose un'altra voce femminile. - Povero bambino! Ma pensa, proprio qui vicino! - Dicono sia caduto in un pozzo. - Un pozzo! Non sapevo dell'esistenza di un pozzo qui attorno! Eppure da otto anni vengo qui in villeggiatura! Ma dov'è il mio Paolino? Paolino! Paolino! - cominciò a gridare. Senza volere avevo ascoltato il colloquio delle due bagnanti sedute sotto un ombrellone poco distanti da me e le parole 'pozzo' e 'bambino' mi avevano colpito, - Che cos'è successo? - chiesi. - Sembra l'abbiano trovato - mi rispose la donna rimasta. L'altra, la madre di Paolino, era andata alla ricerca del figlio. - Chi hanno trovato? - Il piccolo Marco. Ricordai il fatto. I giornali e la televisione da giorni lanciavano appelli. Marco Riesi, il figlio di una coppia venuta in vacanza, era misteriosamente scomparso. Si parlava di rapimento, qualcuno pensava ad una sua fuga (ipotesi poco attendibile perché il bimbo aveva solo quattro anni). Si mormorava circa la presenza di un carrozzone di zingari visto in quei giorni. C'era chi ipotizzava un rapimento da parte di una setta di balordi, malintenzionati, abituati a radunarsi in un luogo poco distante da Albisola, in un casolare semidiroccato, lontano da ogni altra abitazione. Ma le ricerche non avevano dato esito alcuno. - Si tratta proprio del piccolo Marco? - Così mi ha detto il barista. Io ho solo sentito alcune sirene, forse la polizia o l'ambulanza... perchè non va lei a vedere e poi mi racconta. - Già, perchè no! Lasciai le canne e la cassetta da pesca in custodia alla donna e mi avviai seguendo altri curiosi attratti come me dalla novità. Ci fermammo dopo quasi un chilometro, su un terrapieno dove già si era radunata una piccola folla e da dove si potevano vedere alcune macchine della polizia, una ambulanza e un automezzo dei Vigili del Fuoco. La zona attorno al pozzo era stata prontamente recintata da un nastro di cellofan colorato e la gente se ne stava raggruppata in cima al monticello da cui era possibile vedere ogni cosa. Avvertivo nei presenti un senso di curiosità morbosa, insana e la leggevo sui volti. Tutti si attendevano qualcosa di inconsueto. Due vigili del fuoco stavano chini sull'orlo di un pozzo, guardando verso il fondo e parlavano con un loro compagno calato all'interno mediante l'aiuto di una fune. Non si capiva cosa dicessero. Guardando la scena, notai in quel pozzo, qualcosa di déjà vu. Quel pozzo io lo conoscevo: era lo stesso del mio incubo di poco prima... " Ma si è veramente trattato di un incubo?" mi chiesi all'improvviso. Uno dei due vigili corse all'automezzo e ne ritornò con un cesto oblungo, legato ad una corda. Con l'aiuto del compagno lo calarono nel pozzo e poi, dopo aver parlato col vigile che stava sul fondo, cominciarono a tirare lentamente la corda. La folla taceva e guardava. Quando il cesto riapparve, grondante acqua melmosa, un mormorio di raccapriccio si diffuse nel vedere una piccola massa scura, il corpo di un bimbo nudo, esanime, coperto di fango e di alghe. Distolsi lo sguardo da quella vista e mi guardai attorno. Il desiderio del macabro era stato appagato e ora sul volto dei presenti c'era solo la pietà, il raccapriccio e l'orrore per quanto era capitato ad un bimbo di soli quattro anni. E forse già nella mente di qualcuno si andava facendo strada una domanda: "Come ha fatto un bimbo così piccolo, nudo, a scavalcare il muretto del pozzo, alto più di un metro, e cadere? O ce l'avevano buttato? Allora lo vidi! Se ne stava immobile, in mezzo alla gente e guardava me invece del cesto posato a terra dai vigili. L'uomo guardava me. E io guardai lui intensamente. Non avevo certo dimenticato il gigante dai capelli bianchi, col volto rugoso, butterato, le guance rientranti, scavate, il naso aquilino, gli occhi pieni di ferocia e malvagi. Era il sacerdote del mio incubo di quel pomeriggio... se proprio di incubo si era trattato, cosa della quale cominciavo a dubitare, anche se non riuscivo a trovare una spiegazione. Rivedevo il ghigno satanico quando aveva decapitato il gallo, guardato il sangue colare e imbrattare il corpo del bimbo. Rivedevo sul suo volto la gioia perversa con cui lo aveva scaraventato nel pozzo. Di diverso in lui c'erano solo i vestiti: non più l'ampio mantello violaceo, cosparso di simboli dorati. Ora indossava giacca, cravatta color viola e pantaloni neri, non certo adatti in un pomeriggio afoso e assolato. Ma non parevano dargli fastidio. Nessuna goccia di sudore imperlava la sua fronte. Guardava fisso solo me. Lo spettacolo pietoso attorno al pozzo non lo interessava: forse già lo conosceva per averlo vissuto in precedenza. Distolsi a fatica gli occhi da quel volto satanico per guardare gli infermieri con la barella e il medico avviarsi verso l'ambulanza. Li vidi chiudere il portellone posteriore e poi l'automezzo partì alla volta dell'ospedale. Tutto si era amaramente concluso e la folla cominciò a disperdersi. Cercai con lo sguardo il gigante, ma non c'era più. "Non può essersi allontanato di molto", pensai. " E poi con la sua mole e vestito di nero in mezzo a gente che indossa vestiti leggeri e chiari, alcuni addirittura in costume da bagno, è impossibile dileguarsi e passare inosservato." Segui la gente. Tutti stavano tornando verso la spiaggia. Chiesi ad alcuni se avessero visto un uomo alto, vestito di nero con giacca e cravatta. Nessuno l'aveva visto. Era sparito, svanito nel nulla. Ritornai verso il pozzo dove ancora stazionava la polizia. Volevo riferire la mia visione, ma non lo feci. Nessuno mi avrebbe creduto. - Si faccia visitare da un medico - mi avrebbero detto con comprensione. - Lei si è preso un bel colpo di sole. Dall'alto della collinetta dove ero rimasto solo ad osservare il pozzo, notai uno strano particolare, sino ad allora sfuggito. Qualcuno con l'aiuto di una motozappa si era divertito, forse la sera prima, a tracciare profondi solchi nel terreno. Visti dall'alto della collinetta formavano un perfetto pentacolo. Una stella a cinque punte di cui il pozzo occupava il centro. Ritornai lentamente verso la spiaggia. La donna aveva diligentemente custodito i miei attrezzi da pesca. Le raccontai brevemente la scena, ma tralasciai di accennarle alla presenza dell'uomo in nero. Lei accompagnò il mio racconto con dei "Oh mio Dio! Poverino! Povera creatura! Chissà il dolore della madre!" Quando ebbi terminato e, raccolti i miei attrezzi, stavo per allontanarmi, la donna mi disse: - Segua il mio consiglio e ci metta sopra una bella bistecca. - Bistecca! - risposi guardandola stupito. - Ma sì, se la metta sullo zigomo. Deve aver violentemente urtato contro qualche cosa. Non si è accorto di avere un grosso livido sotto l'occhio destro? Mi toccai lo zigomo e avvertii un sordo dolore. Ma quando mai mi ero ferito se quel giorno avevo dormito, non ero caduto e non avevo mai urtato contro alcun ostacolo... tranne due volte, nel mio incubo? Ma era stato veramente un incubo? Ancora oggi non l'ho capito.
Il signor Lattanzi tacque. Prese il bicchiere di spumante e guardò fuori della finestra. Il vento continuava a soffiare, 'parlando' tra i rami e le foglie dell'ippocastano. - Be', caro Aldo - disse Marta, passandosi i pollici sulle tempie a mo' di massaggio o per scacciare cupi pensieri, - se avevi intenzione di farmi venire i brividi, ci sei riuscito. Non tanto per la tua esperienza, quanto per il ricordo di alcuni miei servizi giornalistici sulla reviviscenza della magia nera, dei sabba di streghe, di riti satanici ancor oggi in voga in molte parti del mondo. - Allora, secondo te il mio sarebbe stato solo un incubo? - Direi proprio di sì. In quel periodo devi aver letto su qualche rivista descrizioni di riti magici e il tuo inconscio ne è rimasto suggestionato e al momento opportuno ti ha colpito di sorpresa, giocandoti un brutto scherzo. E' stato facile abbinare la morte di un bambino a riti satanici. L'hai ammesso tu stesso nel racconto: per la scomparsa del bimbo nei giorni precedenti si era ipotizzato il rapimento da parte di una setta satanica. Non c'è dubbio, per me si è trattato di un incubo - Mi associo alla tua diagnosi, Marta, - intervenne Simone Dursi - il tuo, mio caro Aldo, è stato un vero incubo in cui il clima della riviera e il sole ci hanno messo lo zampino. Tu stesso hai esordito accennando ad una estate particolare, caratterizzata da un caldo afoso e feroce. Dormendo sulla sabbia, ti sei preso 'un colpo di caldo', come diceva mia nonna. 'I colpi di caldo' possono anche far impazzire. Stando al mare, ti converrà sempre metterti un cappello in testa. Ci scommetterei: tu quel giorno non l'avevi! - Io non indosso mai cappelli: mi fanno sudare. - Come immaginavo - concluse Simone. - E come spieghi l'ematoma sotto l'occhio? - lo stuzzicò Miriam. - Questo non lo saprei spiegare. - E la presenza del pentacolo? - Una suggestione dovuta al tuo incubo. - A me, invece, caro Aldo, il tuo racconto - riprese la giornalista - e in particolar modo la conclusione, ematoma, pentacolo, a cui non sappiamo dare una spiegazione logica, ma solo supposizioni, checché ne pensi il nostro scettico Simone, ha un certo fascino misterioso, un punto di contatto con una avventura vissuta tre anni fa, quando feci un giro in Jugoslavia per conto della mia rivista.
Ero stata incaricata di scrivere una serie di articoli sui castelli della Slovenia e della Croazia. Ero partita da sola a bordo della mia Skoda dopo aver tracciato un itinerario accurato. Prevedeva escursioni nei dintorni di Lubiana, Zagabria, Banja Luka e tutto il litorale croato sino a Fiume. Il giro mi avrebbe tenuta piacevolmente occupata per alcune settimane. Il fatto misterioso e strano mi capitò durante il mio soggiorno a Karlovac. Avevo visitato il castello di Jastrebarsko, costruito nel XV secolo, poi quello di Dubovac, ad ovest della cittadina. Era stato la residenza signorile dei conti Zrijnski. Ora mi sfugge la ragione per cui la visita al castello di Dubovac mi avesse particolarmente depressa; ma per tirarmi su il morale, avevo deciso di visitare la zona dei Laghi di Plitvice. Ne avevo sentito dire meraviglie e volevo constatare di persona se quanto si diceva corrispondeva a verità. Vi assicuro, amici, se ancora non avete visitato quella zona dell'ex Jugoslavia, avete perso qualcosa di stupendo. Vale la pena di visitarla. Anche se la giornata scelta non era molto propizia e la strada per arrivare alla zona dei laghi piena di buche, l'incanto mi fu assicurato. Non v'è nulla di più suggestivo e fiabesco nel vedere centinaia di minuscoli laghetti, formatisi col passare delle stagioni e per il continuo lavorio dell'acqua. E' come se fossero vivi. Li vedi riversarsi gli uni negli altri, confluire, allargarsi in piccoli specchi d'acqua allungati, trattenuti da dighe naturali ricoperte da folta vegetazione, dalle quali l'acqua limpida tracima formando cascatelle più o meno alte. E ogni cascatella si riversa nel laghetto sottostante e via via l'acqua dà vita ad altri bacini sempre più bassi. Hai l'impressione di trovarti di fronte a delle vere terrazze d'acqua. L'incanto di quella visione mi afferrò come una morsa e, quando decisi di ritornare a Karlovac, il sole era già tramontato. Forse avrei fatto meglio a pernottare all'Albergo Plitvice, ma la distanza da Karlovac, una sessantina di chilometri, non era poi molta per cui misi in moto la mia Skoda e mi avviai. Procedevo con calma perché la strada, tutta curve e controcurve, seguiva i vari torrenti infossati tra gole simili a canyon. Ma i guai non dovevano venire dalla mia prudenza nella guida. La mia Skoda era vecchia e dopo aver arrancato per raggiungere la sommità di un colle, si mise a scoppiettare e a tossire come un asmatico, finché il motore si spense. Inutilmente provai a rimetterlo in moto. Non ci fu verso di farlo ripartire. Dovetti arrendermi e rimasi in attesa del passaggio di qualche macchina, anche se durante il tragitto di andata avevo incrociato solo due o tre auto e nel ritorno nemmeno una. La notte era fresca, ma passarla in una macchina non era la mia massima aspirazione, per cui scesi e mi guardai attorno, sfruttando i momenti in cui la luna piena usciva dalla nuvolaglia e rischiarava il panorama. Mentre andavo ai laghi, mi sembrava di aver veduto proprio da quelle parti una costruzione, un maniero ricoperto di edera. E, infatti, c'era, a un centinaio di metri dalla strada, dietro un gruppo di alberi. "Forse lì troverò aiuto" mi dissi. E, presa la torcia elettrica, mi avviai. Quando giunsi in prossimità del vecchio maniero, nel vederlo immerso nel buio, sebbene non fosse tardi, pensai che tutti fossero già a letto perché dalle finestre non trapelava alcuna luce. Non mi feci scrupolo alcuno e, vista una cordicella pendere vicino al portone, la tirai. Nella calma della notte udii il tintinnio di una campanella e poi un rumore di passi. Un battente si aprì e comparve un uomo anziano con in mano un candeliere a tre bracci. - Desidera? - chiese con voce sommessa. - Mi scusi, signore, la mia macchina ha avuto un guasto. C'è qualcuno in casa che possa darmi una mano? - Direi di no, signora. In casa c'è solo il mio padrone, il conte Usinovic, sua moglie e la piccola Tanja. Nessuno di loro se ne intende di motori e tanto meno io. Le mie mansioni - aggiunse - sono quelle di maggiordomo e di cocchiere. Il conte non ha mai avuto fiducia nelle macchine. - E forse non ha torto - bofonchiai. E poi aggiunsi: - C'è un telefono in casa? - Sì, signora, ce n'è uno nello studio del conte. Si accomodi, vado ad avvertirlo della sua presenza e del suo desiderio di telefonare. Si fece da parte ed entrai nell'atrio, mentre il vecchio si allontanava. L'atrio era rischiarato da alcune fiaccole resinose piantate in appositi sostegni sistemati lungo le pareti. Il soffitto a cassettoni di legno era annerito dal tempo e negli angoli si vedevano pendere delle ragnatele. In mezzo all'atrio, su un pregevole tavolo di rovere, con le gambe arcuate e lavorate, terminanti con piedi a zampa di leone, stava un candeliere con tre candele accese. Evidentemente in quella casa o era saltata la valvola del contatore oppure il padrone, come era nemico delle macchine, odiava pure l'elettricità. Per mia fortuna aveva fiducia nel telefono, tanto da aver sentito il bisogno di farsene sistemare uno nello studio. Lungo una parete stava un grande cassettone in rovere dello stesso stile del tavolo e sulla parete opposta era sistemato un armadio pure esso di rovere. Tutti i mobili avrebbero fatto gola a un qualsiasi antiquario. Il maggiordomo ritornò sempre reggendo il candeliere e, senza parlare, mi fece cenno di seguirlo. Giunto in fondo ad un corridoio, bussò e, senza attendere risposta, aprì la porta, si fece da parte per lasciarmi entrare e la chiuse alle mie spalle. Mi trovavo in un vasto studio. Le pareti erano tutte occupate da librerie contenenti volumi per lo più rilegati in cuoio. E di cuoio era l'odore che aleggiava intorno. Un signore anziano, dall'aria austera stava seduto dietro una scrivania. Aveva posato sul ripiano il libro che stava leggendo e mi guardava in attesa della mia richiesta. - Mi dispiace importunarla, signor conte, ma è causa di forza maggiore. Permette: mi chiamo Antonelli Marta. Sono una giornalista. Scrivo per una rivista e sto cercando materiale per un articolo sui castelli di questa regione. Come le avrà detto il suo maggiordomo, la mia macchina è rimasta in panne e io non so rimetterla in moto. Le chiedo la cortesia di permettermi di telefonare al mio albergo di Karlovac per chiedere l'invio di un carro attrezzi. - Sarà difficile trovare qualcuno disposto a scomodarsi a quest'ora. Forse domattina - mi disse il conte. Aveva una voce piacevole e il suo sguardo era dolce, con un fondo di malinconia. - Io non dispero mai, signor conte - ribattei con un sorriso. - Provi se vuole. Il telefono è su quel mobiletto. Ebbi subito la comunicazione con il direttore dell'albergo in cui ero alloggiata e gli esposi il problema. - Attenda all'apparecchio, signorina Antonelli, il tempo di rintracciare il nostro meccanico di fiducia. In quale punto della strada è rimasta in panne? - Tra Vojnic e Tusilovic. A poca distanza dalla casa del conte Usinovic. - Conosco quel tratto di strada, signorina. La prego di attendere. Rimasi con il microfono appoggiato all'orecchio. Il conte mi guardava in silenzio. Illuminato dal candeliere posato sulla scrivania, mi faceva pensare a certi quadri scuriti dal tempo in cui i personaggi raffigurati sembrano guardarti severi e austeri dall'alto del loro prestigio e della loro importanza. Ma nello sguardo del conte Usinovic, c'era, come ho detto, un fondo di dolcezza e di malinconia. Forse anche di dolore, ma questo era molto nascosto. - Pronto, mi sente? - Sì, mi dica. - Sono spiacente, signorina Antonelli, ma il meccanico non è presente. Si è dovuto recare fuori Karlovac per rimorchiare l'auto di un altro cliente. Mi dispiace: potrà venire solo domattina verso le sette. - E io cosa faccio? Non potrebbe mandarmi una macchina? - Non sono sicuro di poterne trovare una. - E io come faccio? - ripetei. - Se rintraccio qualcuno disposto a venire glielo invierò. Lei rimanga in macchina. - Non si disperi, signorina Antonelli, c'è rimedio a tutto. - Ad intervenire era stato il conte. - Dica pure al suo albergo di non preoccuparsi e di mandare il meccanico domattina. Nessuno bussa alla porta del conte Usinovic senza poter trovare ospitalità per una notte, - concluse con un sorriso. Valutai la situazione e decisi di accettare. - Non si disturbi a cercare,- dissi al direttore dell'albergo. - Mi mandi pure il carro attrezzi domattina. - E senza aggiungere altro riattaccai. - Le sono oltremodo grata, signor conte. Lui fece un cenno con la mano come per indicare che ogni ringraziamento era superfluo e poi disse: - A quest'ora, signorina, sono solito bere una tazza di cioccolato, ne gradirebbe una? - E suonò un campanello senza attendere la mia risposta. A me il cioccolato non piace, ma, date le circostanze, non avrei potuto rifiutare. Sarebbe stato scortese. Poco dopo la porta si aprì ed entrò il maggiordomo con un vassoio su cui erano posate due tazze e una cuccuma fumante. In silenzio versò la cioccolata, porse una tazza a me e una la lasciò sulla scrivania. Poi, sempre in silenzio, attese. - Titov, - gli disse il conte prima di congedarlo - prepara la camera degli ospiti. Quella a pianterreno e avvisa la contessa. Tra poco sarò da lei. Il maggiordomo uscì. Senza parlare, accostai alle labbra la tazza di cioccolata ma la bevanda era calda da scottarmi. Feci un un brusco movimento e alcune gocce di cioccolato cascarono sulla mia gonna chiara. - Poco male, - dissi, vedendo il conte alzarsi premurosamente e trarre dal taschino della sua veste da camera un fazzoletto bianco. - Non è nulla: la mia solita sbadataggine. - Lei si interessa dei castelli della regione? - mi chiese, sedendosi. - Sì. Ne ho già visitati molti e in genere li ho trovati suggestivi. Però non le nascondo di averne trovati alcuni un poco cupi, in particolar modo le leggende ad essi connesse... - Oh, le leggende, sono la mia passione! - esclamò il conte. Da quel momento il nostro colloquio non si discostò dall'argomento e non ci accorgemmo del trascorrere del tempo finché il maggiordomo non bussò, dicendo: - Signor conte, è quasi mezzanotte. La signora contessa si è già ritirata. - Il piacevole conversare accorcia il tempo, mio caro Titov. Accompagna la signorina Antonelli nella sua stanza. - Si alzò dalla poltrona e, dopo avermi dato la buona notte, se ne andò. La stanza degli ospiti era accogliente, seppure arredata all'antica, con un letto a baldacchino e pesanti tende alla finestra. Il letto era però troppo morbido per il mio gusto e dormii un sonno agitato, pieno di sogni confusi. Mi svegliai più volte per rumori strani. Una volta mi parve di udire il pianto di una bimba, un pianto accorato e doloroso; un'altra furono grida di donna, addirittura urla. Ma i suoni cessavano subito, non appena cercavo di individuarne la fonte e subito ricadevo nel sonno. Mi svegliai all'alba e cominciai a prepararmi per andare incontro al carro attrezzi. Sarebbe arrivato verso le sette, almeno così mi aveva assicurato il direttore dell'albergo di Karlovac. La sera prima avevo salutato e ringraziato il conte per la sua cortese ospitalità e mi ripromettevo di salutare Titov prima di lasciare la casa. Raggiunsi l'atrio immerso nella penombra. Le tende alle finestre erano tirate e la luce filtrava a stento. Sul tavolo di rovere c'era il candelabro spento. Chiamai Titov più volte, ma non venne. "Forse è occupato in altri lavori e non mi ha sentito" mi dissi. Per cui trassi di tasca il mio taccuino e scrissi ancora due righe di ringraziamento per il conte e posi il foglio vicino al candelabro. Solo allora mi accorsi dello spesso strato di polvere depositato sul tavolo. Titov era un maggiordomo premuroso, ma in quanto a pulizia lasciava un poco a desiderare. Questo, però, non era affar mio. Uscii e mi ritrovai avvolta in una nebbiolina leggera. Il sole, alzandosi sull'orizzonte la scioglieva lentamente. Il prato tutt'attorno era coperto di rugiada brillante nei tratti investiti dai raggi radenti. Ritrovai la mia macchina, anch'essa bagnata, aprii lo sportello e mi sedetti al posto di guida. Accesi una sigaretta e attesi. Il carro attrezzi arrivò dopo una mezz'ora e il meccanico si mise subito all'opera. Trafficò nel motore poi si coricò supino e strisciò sotto la macchina che aveva alzato col cric e poi diede la sua sentenza. - Qui non posso fare niente, signorina. Debbo portare la macchina in officina. Si sposti. Debbo agganciarla con la gru per il traino. Lei viaggerà con me nella cabina. Accesi un'altra sigaretta, lo guardai trafficare. Evidentemente ci sapeva fare. Poi partimmo. Per il primo tratto di strada il meccanico non disse nulla, badava a prendere correttamente le numerose curve. Poi, quando la strada cominciò a correre in piano, disse: - Mi dispiace di non essere stato in sede ieri sera e di averle fatto trascorrere una notte in macchina. Avrà avuto freddo, signorina. - Ma non ho passato la notte in macchina. Per fortuna poco distante c'era la casa del conte Usinovic. Il conte è stato di una gentilezza squisita tanto da mettermi a disposizione la camera degli ospiti. Il carro attrezzi ebbe un leggero sbandamento e il meccanico mi guardò stupito. - Lei è stata ospite del conte Usinovic? - Sì. Una persona veramente gentile e amabile. E' stato lui, mentre telefonavo all'albergo, a invitarmi a pernottare in casa sua. L'uomo frenò bruscamente e arrestò il carro attrezzi ai limiti della strada. - Lei ha telefonato dalla casa degli Usinovic? Ieri sera ha proprio telefonato dalla casa del conte Usinovic? - Che c'è di tanto straordinario a fare una telefonata! - ribattei, guardandolo stupita a mia volta. - Ho telefonato all'albergo per chiedere il suo intervento e lei, infatti, è qui, no? - Eh già, io sono qui. Scusi la domanda: quando ha conosciuto il conte? - Ieri sera. Ho bussato alla sua porta; mi ha aperto il maggiordomo Titov e mi ha fatto entrare. Il meccanico trasse di tasca un ampio fazzoletto a quadri e si deterse la fronte. Mi chiesi perchè. Era mattino presto, faceva fresco e il fresco non fa certo sudare. - Signorina, è sicura di quello che dice? - Perché‚ ho forse l'aspetto di una visionaria o mi prende per una pazza! - Cominciavo a seccarmi di quella specie di interrogatorio da parte di uno sconosciuto. - No, che pazza! Sono stupito perché la casa degli Usinovic è abbandonata da almeno tre anni. Il conte è morto e così pure Titov. Rimasi trasecolata. - Ma è certo di quello che sta dicendo? Io li ho visti entrambi e non più tardi di ieri sera. Ho pure udito durante la notte il pianto convulso di una bimba e le grida di una donna. Doveva essere la moglie del conte perchè Titov disse al conte Usinovic che la moglie si era ritirata nella sua stanza. - Signorina, non metto in dubbio le sue parole. Però sono sicuro delle mie. Il conte è morto tre anni fa. Titov, lo conoscevo personalmente, è morto due mesi dopo il conte. Sono stato persino al suo funerale. La moglie e la figlia, che lei dice di aver sentito questa notte, sono entrambe decedute cinque anni fa: la figlia per un brutto male e la moglie per una disgrazia. E' caduta da una finestra della casa. Così si disse. In verità si è buttata per il dolore della morte della figlia. Io non so chi lei abbia visto stanotte, ma dubito fosse la famiglia del conte Usinovic... almeno in carne e ossa, - aggiunse il meccanico. E, riacceso il motore, si avviò senza aggiungere altro. Si voltava a tratti verso di me e mi fissava. Aveva anche accelerato l'andatura: non è divertente stare con chi afferma di aver parlato con i fantasmi. Quel giorno stesso mi recai alla sede del giornale locale per consultare l'archivio. Era tutto come mi aveva spiegato il meccanico. Andai anche all'ufficio telefonico per un ulteriore controllo. L'apparecchio degli Usinovic era stato staccato da tre anni perché nessuno pagava più la bolletta. Quando, una settimana dopo, partii da Karlovac e mi presentarono il conto dell'albergo, trovai anche un foglietto della lavanderia su cui stava scritto: "Per pulitura di macchie di cioccolato su gonna e stiratura: 200 dinari." Da allora due sono le domande che continuano a risuonarmi in mente quando ripenso a quella notte: Come avevo fatto a telefonare all'albergo da una casa il cui telefono era stato staccato? E come mi ero procurata macchie di cioccolato sulla gonna se a me il cioccolato non piace e ne avevo bevuto solo in casa del conte? La giornalista rimase in attesa di una risposta. - Non vi è dubbio, mia cara Marta, - disse il padrone di casa - Le tue domande possono sottintendere un mistero, però se consideri la situazione nel suo insieme, troverai anche una risposta logica. - Perché tu ne avresti una? - Rivediamo la situazione. Tu sei andata in Jugoslavia per un servizio sui castelli,vero? - Sì, è vero. - E ne avevi già visitati altri, prima della tua gita ai laghi di Plitvice? - Sì, certo. Ne avevo già visitati altri. - E come avevi fatto a scoprirli? - Consultando delle guide turistiche e sfogliando libri in biblioteca. - E frequentavi anche le biblioteche delle località che visitavi? - Faceva parte del mio lavoro. Ma dove vuoi arrivare? - Voglio arrivare ad una semplice conclusione. Durante le tue ricerche probabilmente ti sei imbattuta anche nella descrizione del maniero del conte Usinovic e hai letto qualche breve notizia relativa ai suoi abitanti. Morti violente e tragedie sono eventi quasi sempre presenti nei testi che illustrano cose e fatti del passato. Forse hai letto in fretta e en passant la notizia della morte della figlia e della moglie e l'hai memorizzata, ma senza darvi peso perchè non si riferiva a un castello celebre, ma ad un maniero di poco conto. La mente gioca spesso di questi scherzi, non credi Giulio? - disse il padrone di casa rivolgendosi al dottore quasi a cercare appoggio alla sua teoria. - Si tratta di un atto inconscio; di rimozione di qualcosa poco interessante - spiegò il dottor Silvestri. - L'ho osservato spesso in alcuni miei pazienti. - Giusto: rimozione ma non cancellazione. La notizia rimane in qualche angolo della mente e può venire fuori quando meno te lo aspetti. - Sì, - rispose il dottore - specialmente in momenti particolari... - Come quello di trovarsi in panne, di notte, in una località sconosciuta e con la prospettiva di non ricevere immediato aiuto, almeno fino al giorno dopo. Cara Marta, la spiegazione è semplice. Tu non hai trascorso la notte nella casa del conte, ma ti sei addormentata nella tua auto e, durante il sonno, evidentemente scomodo e agitato, quelle notizie lette e apparentemente dimenticate, sono riaffiorate alla tua mente per comporre il quadro che hai descritto. - Tu, Alberto, con la tua logica distruggi e demolisci ogni cosa! Tu sei agnostico per natura! - sbottò Miriam la quale, invece, si era immedesimata nella vicenda dell'amica e aveva accettato con un brivido la storia dei fantasmi. - Miriam hai ragione a credere nei fantasmi! Infatti, c'è un particolare ad avvalorarlo: le macchie di cioccolato sulla gonna di Marta. Se ha trascorso la notte in automobile, come se le è procurate? - chiese Lattanzi, rimasto sino ad allora in silenzio ad ascoltare la storia. - Come le spieghi se Marta asserisce di non aver mai bevuto tazze di cioccolato? - Anche per questo c'è una spiegazione logica. Marta, per quanto tempo ti sei fermata a Karlovac? - Per una diecina di giorni. - Sei entrata in qualche bar? - E questo che c'entra! - C'entra, c'entra. Allora ci sei entrata? - Sì, più volte. - Potresti negare che qualcuno sbadatamente abbia spruzzato la tua gonna di cioccolato senza che tu te ne sia accorta o che con la gonna tu non abbia sfiorato, che so, una tovaglia, un tavolino, il bancone del bar su cui era gocciolato del cioccolato? - Ma tu ragionando così smonteresti ogni accusa in un tribunale. - Spesso mi diverto a fare proprio questo, - le rispose sorridendo il padrone di casa. - Io sono un appassionato di gialli e uno dei miei personaggi preferiti è l'avvocato Perry Mason. Il metodo di smontare una accusa l'ho imparato da lui. - E allora, "avvocato Mason", come spieghi la telefonata fatta all'albergo per richiedere l'intervento del carro attrezzi? - chiese Giovanni Calonghi, pensando di aver trovato una falla nel ragionamento, pur logico, del professore. - Presto fatto: Marta, per il tuo lavoro, usi il telefonino portatile?. - Sì, lo uso. - Ecco da dove è partita la telefonata di soccorso - concluse il professore soddisfatto. La giornalista stava per replicare, ma preferì tacere. Era quasi sicura che il suo amico, abituato ai cavilli e ai sotterfugi sottili alla Perry Mason, avrebbe trovato una risposta a quanto stava per ribattere. PER CUI NON RIVELO' CHE IL SUO TELEFONINO PORTATILE, IL GIORNO PRIMA DI RECARSI A PLITVICE, ERA ANDATO IN FRANTUMI CADENDO A TERRA.
- Ora è il tuo turno, dottore - disse il padrone di casa, rivolgendosi al dottor Silvestri. Nessuno, infatti, aveva trovato altri cavilli per controbattere le sue idee. - Hai bisogno di uno stimolante? - aggiunse, indicando alcune bottiglie di liquore. - No, per ricordare un fatto anche nei minimi particolari, è meglio essere sobri. - E incominciò a raccontare. - A noi medici capitano spesso casi strani e particolari, legati alla nostra professione e il caso accaduto a me alcuni anni fa, quando lavoravo in ospedale, ha dell'incredibile. Era una domenica di pieno inverno ed io ero di guardia al pronto soccorso. Stranamente quel giorno c'era calma e questo mi permise di seguire interamente il caso di Renzino. Arrivò in ambulanza e fui io ad accoglierlo e a prestargli le prime cure. Per la verità non dovetti faticare affatto perché il ragazzino, dell'età di quasi dieci anni non presentava ferite, non aveva dolori, non manifestava alcun sintomo di sofferenza. Se ne stava immobile, disteso sulla barella, gli occhi aperti fissi al soffitto. Non si chiusero quando avvicinai la mia mano né quando cercai di toccargli le pupille. - Cos'è accaduto? - chiesi all'infermiere accorso alla chiamata di soccorso. - Quando siamo arrivati a casa del ragazzo l'abbiamo trovato disteso a terra, immobile. Non parlava. La madre lo scuoteva senza ottenere alcuna reazione. Non so perché, ma ho pensato subito alla catalessi. Nella mia breve esperienza di medico non mi era mai capitato di vedere un corpo starsene così immobile. Comunque feci tutti gli esami necessari. Nonostante le prime cure, il corpo continuò a manifestare la perdita momentanea della contrattilità muscolare volontaria; in parole più semplici, assumeva la posizione che tu gli davi come se si fosse trattato di un manichino di cera. Decisi di ricoverarlo in una stanza singola e poi invitai i genitori a seguirmi in un ufficio. La diagnosi azzardata dall'infermiere, cioè un caso di catalessi, coincideva con le mie prime impressioni e siccome la catalessi per lo più è legata ad una sorta di riflesso provocato da un trauma o da qualche impressione o manifestazione che colpisce il soggetto, volevo avere maggiori informazioni. La madre, seduta su una seggiola, torceva tra le mani un fazzoletto, mentre il marito, standole alle spalle cercava di confortarla. - Come vi siete accorti del malessere di Renzino? - Sono entrata nella sua stanza per dirgli di abbassare l'audio del televisore - disse sua madre. - Il mio Renzino è un patito della televisione; quando ha un momento libero, invece di andare a giocare, guarda la TV. L'ho trovato seduto davanti all'apparecchio, con le mani abbandonate sui fianchi. "Renzino, vuoi abbassare il volume?" gli ho gridato. "Tra poco i vicini si lamenteranno." Ma lui non mi ha nemmeno guardato. Se ne stava immobile e continuava a guardare fisso l'apparecchio. Allora mi sono arrabbiata e ho spento la TV. Lui, però, ha continuato a rimanere immobile. Solo allora mi sono accorta di qualcosa di innaturale nel suo atteggiamento. Non aveva reagito, non si era mosso e continuava a guardare davanti a sé. Ho chiamato mio marito. - E' proprio così, dottore, - intervenne l'uomo, battendo dolcemente con una mano sulla spalla della moglie. - Mi sono inginocchiato presso il mio ragazzo e l'ho chiamato, ma non si è mosso. Allora l'ho scosso e quello si lasciato cadere a terra dove è rimasto immobile. Non le dico la scena. Sono subito corso a chiamare una ambulanza. - Era mai accaduto qualcosa di simile in passato? - Mai. - Suo figlio ha mai avuto qualche attacco isterico? L'uomo scosse più volte il capo. - E lei e sua moglie? - No mai, dottore. Ma perché ce lo chiede? - Una semplice domanda. Suo figlio comunque verrà tenuto in osservazione. Domattina lo farò visitare da un neuropsichiatra. Per ora posso solo rassicurarvi sulle funzioni vitali del ragazzo. Sono normali. Li congedai dando loro appuntamento per l'indomani. Ma il giorno dopo non portò alcun miglioramento. Renzino rimase nella stessa posizione in cui lo avevamo messo. Solo il terzo giorno del ricovero ricevetti una visita la quale, indirettamente, aveva a che fare col caso del "ragazzo in trance", come lo aveva definito il neuropsichiatra. Era l'una. Avevo appena finito il mio turno e, libero da impegni, mi ero seduto su una panchina davanti all'ospedale per leggere alcuni opuscoli illustrativi di nuovi medicinali, quando un uomo si sedette vicino a me. - E' lei il dottor Silvestri? - mi chiese. Accennai con la testa. - Lei ha in cura Renzino Corti? Feci di nuovo un cenno di assenso col capo. - Vorrei sapere, dottore, se mi è possibile rivolgerle alcune domande sul ragazzo. - Mi scusi, lei chi è? - Sono Silverio Brocchi, un detective privato. Un mio cliente mi ha incaricato di svolgere una indagine e le ricerche mi hanno condotto fino a questo ospedale dove il ragazzo è ricoverato. All'ingresso non mi hanno voluto dare alcuna indicazione, mi hanno solo detto di rivolgermi a lei. Ecco la ragione della mia richiesta. - Come ben sa, essendo lei un detective, l'etica mi impone di non dirle niente. Non mi è permesso parlare dei miei pazienti con estranei. Ma potrei sapere perché si interessa di Renzino, signor Brocchi? - Capisco, dottore, le spiegherò. Io non ho alcuna difficoltà a raccontarle come sono arrivato sino all'ospedale. Il mio cliente mi ha esplicitamente detto di spiegare l'accaduto a chiunque me lo avesse chiesto. Ecco la cronistoria. Lunedì mattina si è presentato nel mio ufficio il signor Massimo Rende, in arte Houdini Junior, un illusionista assai apprezzato. Si esibisce in molti teatri e anche alla televisione. Mi raccontò di essere stato invitato il giorno precedente ad una trasmissione della locale rete televisiva per esibirsi in uno spettacolo per bambini. Ma ecco dalla sua viva voce il resoconto del colloquio. Vede, nella mia professione è sempre opportuno o prendere a appunti o registrare i colloqui. Io preferisco la seconda soluzione. E' più comoda e più completa. Il detective trasse di tasca un registratore, inserì una cassetta e schiacciò il pulsante dell'audio e si udì la voce del detective.
" Allora, signor Rende, cominci pure. " Come le ho detto, sono un prestigiatore. Ieri stavo facendo uno spettacolo per bambini alla TV. Mi piace lavorare per i bambini; con loro mi trovo a mio agio. Mi ero già esibito in diversi giochi di prestidigitazione e stavo per concludere col numero del pappagallo. E' un numero di effetto e per questo lo lascio sempre come bouquet finale del mio programma. "In che consiste? " Mi faccio consegnare da qualcuno del pubblico un piccolo oggetto appariscente e di valore. Ieri fu una signora ingioiellata a darmi uno dei suoi anelli... "Erano presenti anche adulti? " Sì, molti parenti avevano accompagnato i loro ragazzi. Stavano in un settore appartato, mentre i ragazzi erano seduti a semicerchio davanti a me sulla moquette. " Prosegua. " Il gioco consiste nel seguire quanto un pappagallo addestrato mi dice dall'alto del suo trespolo. Quando l'animale mi ordina: 'Tubo!' io prendo un tubo di cartone color nero, aperto alle due estremità. Lo mostro al pubblico perché veda l'interno completamente vuoto. 'Chiudi uno!' continua il pappagallo e io chiudo una delle due estremità con un disco di cartone. 'Infila!' A questo punto prendo l'oggetto (ieri, come le ho appena detto si trattava di un anello con brillante) e lo metto nel tubo. 'Chiudi due!' ordina ancora il pappagallo ed io chiudo l'altra estremità con un altro tondino di cartone. Poi consegno il tubo ad uno dei presenti pregandolo di non agitarlo e di tenerlo fermo. 'Spalla!' dice a questo punto l'animale, intendendo che vuole salire sulla mia spalla. Vado al trespolo, permetto al pappagallo di sistemarsi sulla mia spalla e ritorno dal ragazzo che regge il tubo. A questo punto l'animale ordina: 'Agitare!' e io invito il ragazzino ad agitare il tubo. Si sente l'anello battere contro la parte interna del tubo. Il rumore a poco a poco si affievolisce fino a sparire. 'Aprire!' ordina ancora il pappagallo e quando il mio improvvisato aiutante apre il tubo, l'anello non c'è più. Senza allontanarmi dai bambini, invito uno di loro a recarsi vicino al trespolo e a guardare nella vaschetta dei semi di girasole, dove troverà l'anello sparito. E' un gioco fatto centinaia di volte e non mi è mai capitato nulla. " Tranne ieri. " E sì, tranne ieri. Nella vaschetta dei semi l'anello non c'era. Sparito veramente. " Doveva trovarsi nella vaschetta' " Ma certo: ce l'avevo messo io quando ero andato a prendere il pappagallo. Per fortuna la trasmissione finì col mio numero e gli spettatori non si accorsero di quanto successe dopo nello studio. La proprietaria dell'anello fece una scenata. Rivoleva indietro da me il suo anello del prezzo di quattro milioni; voleva sporgere denuncia. Si calmò solo quando il direttore della trasmissione, subito accorso, si impegnò a farle rimborsare l'importo qualora l'anello non fosse stato ritrovato. " E' stata chiamata la polizia? " Ho voluto chiamarla io stesso. Sono un artista serio e sarebbe andato di mezzo il mio prestigio. La polizia ha fatto accurate ricerche, ma l'anello non è stato trovato. Ecco perché mi sono rivolto a lei. " E cosa spera da me? Se la polizia non ha trovato nulla! " Lei deve indagare su tutti i presenti: i cameramen, la segretaria di produzione, l'addetto alle luci, tutti... Le sarà facile escludere molte persone perché esiste la videoregistrazione di tutto il programma, una cassetta contenente tutta la ripresa televisiva. Se riesce a ritrovare l'anello, bene. In caso contrario io avrò sempre salvaguardato la mia figura di artista. " Qualcuno potrebbe anche pensare che lei ha assunto un detective per allontanare i sospetti da sé. " Questo non lo penserà nessuno. Io sono solito guadagnare ben più di quattro milioni con un solo spettacolo, quindi perché avrei dovuto rubare un anello di quel valore col rischio di rovinare per sempre la mia carriera?
Il detective spense il registratore e mi guardò . - Molto interessante, - gli dissi, - ma ancora non capisco come il mio paziente possa essere coinvolto in un fatto a cui non ha preso parte. Purtroppo per lui, proprio ieri, durante la trasmissione televisiva, veniva ricoverato in ospedale. - E proprio per questo sono qui. Lo guardai trasecolato, senza capire. - Mi lasci proseguire e capirà. Dopo la visita del prestigiatore, mi sono recato allo studio televisivo per un sopralluogo. La polizia mi aveva preceduto, ma poteva aver trascurato qualche indizio. Trovai lo studio nello stesse condizioni in cui era stato lasciato dopo la trasmissione e dopo la perquisizione degli agenti. Fa parte del mio metodo indagatorio osservare attentamente tutti i particolari, anche quelli più insignificanti, in particolar modo quelli che, apparentemente, sembra non rientrino nell'ottica della vicenda accaduta. Solitamente si tende a trascurarli. Ad esempio, per terra, vicino al trespolo, c'era un foglio. Si trattava di una pagina strappata da un quaderno simile a quelli usati dagli alunni delle scuole elementari. Era stato lasciato lì dalla polizia per non alterare la scena, ma evidentemente i poliziotti non lo avevano ritenuto importante ai fini della ricerca dell'anello. - Era importante? - Non lo so ancora. E' stata però quella pagina a condurmi fin qui per interrogare il suo paziente. Vedendo un cenno di diniego da parte mia, alzò la mano. - No, dottore, non prenda una decisione affrettata e mi ascolti. Ho con me la pagina in questione. L'ho presa senza chiedere il permesso a nessuno; intanto dubito che la polizia faccia un altro sopralluogo. In fondo il furto non è di grande entità e la vittima verrà rimborsata; e poi, lo studio deve servire per la nuova trasmissione di domenica e qualche inserviente provvederà a pulirlo, cancellando tutte le tracce. Trasse da una cartelletta di cuoio la pagina trovata e me la porse. Su un lato, con una grafia infantile, c'era scritto: ...non mi piaciuta perché come tutte le altre fiabe c'ho letto finisce sempre a taralucci e vino, come dice il mio nonno." Il testo proseguiva con: "Recensione di Renzo della V C. Scuola elementare "Caselli". Sulle parole "c'ho" e "taraluci" c'erano due segni rossi, probabilmente messi dall'insegnante. La pagina era siglata. - Giri il foglio - disse il detective. Ubbidii e sul retro lessi una parola incomprensibile: ORTEVLENASSAP - E' priva di senso - notai. - Appunto, non significava nulla neanche per me. Allora ho telefonato al mio cliente e lui mi ha spiegato l'arcano. Il nostro Houdini Junior, quando fa una trasmissione per i bambini, è solito rivolgersi ai suoi spettatori lontani parlando davanti alla macchina da presa e invitando chi in quel momento lo sta guardando a raggiungerlo subito. Lo fa, mi ha spiegato, per instaurare un rapporto più diretto con i suoi spettatori, un rapporto addirittura fisico, dice lui, e li invita a partecipare ai giochi. Per poterlo raggiungere subito, spiega sorridendo ai telespettatori , basta che lo desiderino ardentemente e pronuncino la parola magica ORTEVLENASSAP. E' una trovata scenica, d'accordo, ma a me interessava capire il significato di quella parola e chi fosse quel Renzo della Quinta C. - Ovviamente - dissi - era qualche ragazzino presente in studio di nome Renzo pure lui, come il mio paziente. Ha udito la formula magica e l'ha scritta. - E' quanto ho pensato anch'io, ma la soluzione non mi ha convinto. Non mi spiego perché un ragazzo si sia presentato a quella trasmissione con in tasca una pagina strappata da un quaderno e poi perché abbia scritto la formula magica se a lui, già presente nello studio televisivo, non serviva affatto. - Le reazioni dei ragazzi sono spesso imprevedibili. - Ne convengo, ma c'è dell'altro. Come mi aveva consigliato il mio cliente ho chiesto di visionare la cassetta su cui era stata registrata l'intera trasmissione. Mi interessava la parte comprendente il gioco col pappagallo per vedere se qualcun altro, oltre il prestigiatore, si era avvicinato al trespolo. Per un colpo di fortuna, durante il gioco, il trespolo era costantemente rimasto in campo sotto l'occhio delle telecamere. Ebbene, tranne il momento in cui il prestigiatore si era avvicinato per far salire il pappagallo sulla spalla, e, come mi aveva confessato, per far scivolare l'anello nella vaschetta dei semi di girasole, nessuno, proprio nessuno si era avvicinato. Solo al terzo passaggio, perché quelle scene le ho visionate tre volte per essere certo di non lasciarmi sfuggire alcun particolare, mi ha colpito un fatto. Mentre il pappagallo saliva su una spalla di Houdini, notai che A TERRA NON C'ERA ALCUN FOGLIO, poi, mentre il prestigiatore si avvicinava al ragazzino col tubo chiuso in mano, IL FOGLIO ERA LI'. Ho fatto riportare indietro il nastro dal tecnico e, assieme, abbiamo fatto scorrere fotogramma per fotogramma e in uno di essi il foglio apparve. Nel precedente fotogramma non c'era, nel successivo era lì. Guardai stupito il tecnico, ma quello mi disse subito: 'No, amico, non stato operato alcun taglio ne ritocco. Io non c'entro e poi guardi in alto a destra. Nelle nostre riprese è sempre presente l'ora in cui la trasmissione viene effettuata e anche i minuti e i secondi. Se nota bene i secondi si susseguono senza interruzione di continuità'. Ora, dottore, mi dica: non lo trova strano? Da dove era venuto il foglio e come si era materializzato in quello studio televisivo? - Sì, è strano - dissi dopo aver meditato un poco. - Ma non tanto se si pensa ad uno spettacolo di magia. Ha chiesto il parere del mago? - Gliel'ho chiesto, ma non mi ha saputo fornire alcuna spiegazione. La materializzazione di oggetti non fa parte del suo bagaglio di trucchi. Mi sono allora recato alla scuola elementare "Caselli" per interrogare il Renzo della V C. Quella classe era frequentata da tre alunni di nome Renzo. In quel momento due erano presenti; il terzo assente per malattia. Ho scartato i due presenti perché quella domenica uno era stato col padre allo stadio a vedere la partita; l'altro era rimasto tutto il giorno in casa dei nonni in un paesino fuori città. Capisce ora perché sono qui a chiedere informazioni al terzo Renzo quello ricoverato? Senza dubbio il foglio di quaderno gli appartiene perché l'insegnante lo aveva visto e non l'aveva strappato. Quindi faceva parte del quaderno dove l'alunno aveva fatto il riassunto di una fiaba. L'insegnante mi disse di averlo corretto il venerdì precedente e di avervi apposto la sua sigla. Quindi, non c'è dubbio alcuno: il Renzo ricoverato in ospedale è in qualche modo coinvolto in quella trasmissione. Il racconto del detective aveva destato tutta la mia curiosità. Mi sentivo attirato e incuriosito da quella vicenda. - Quando ha avuto luogo la trasmissione televisiva? - chiesi. - Nel pomeriggio di domenica. E' iniziata alle quindici e si è conclusa alle sedici. - Lei mi ha detto di aver visto l'ora esatta in cui il foglio è apparso ai piedi del trespolo... - Erano le quindici e cinquantuno... e sedici secondi per la precisione. - E allora il mio paziente non potrà fornirle nessuna spiegazione. - Perché? - Le spiego: il centralino del Pronto Soccorso, ha l'obbligo di segnare tutte le telefonate in arrivo. La chiamata della famiglia Corti è arrivata alle quindici e dieci e il paziente è giunto alle quindici e quarantacinque circa, poco prima, quindi, della comparsa in trasmissione del foglio da lei trovato. Come vede non vi può essere alcuna connessione. - Allora, come spiegare la presenza del SUO foglio di quaderno? - Potrebbe averlo portato nello studio qualche suo amico che ha partecipato alla trasmissione. - Impossibile: ho chiesto alla V C se qualcuno era stato invitato dalla TV locale. Nessuno, e per di più tutti hanno detto di non aver visto quella trasmissione. Come vede il mistero permane. Ecco perché vorrei parlare con Renzo. Non mi sembrò di venir meno ai miei doveri professionali dicendogli che la sua richiesta non poteva essere esaudita perché il ragazzo non poteva parlare, trovandosi in un apparente stato di catalessi. Gli promisi di informarlo non appena avesse ripreso coscienza. Da parte mia riferii quanto avevo appreso al mio superiore. Mentre glielo dicevo era presente anche il neuropsichiatra che aveva visitato Renzino ed era ritornato per una ulteriore visita. Il giorno dopo il neuropsichiatra venne a trovarmi. Si sedette davanti a me. Sembrava nervoso. - Ho ripensato al suo racconto di ieri, dottore, e, spero mi comprenderà, se mi sono preso il permesso di interpellare il detective per riascoltare da lui tutto il racconto. Ho fiducia nella sua memoria, ma avevo alcune domande da porre al detective a cui lei non aveva forse pensato. - Rimase un attimo assorto e poi mi chiese: - Lei crede nello sdoppiamento? - Allude allo sdoppiamento della personalità alla dottor Jeckyll e Mister Hyde, tanto per intenderci? - No, intendo la separazione del corpo materiale da quello immateriale, il 'doppio', intangibile e invisibile, quello definito da alcuni parapsicologi anche 'corpo sottile o eterico o fluidico o astrale'. - E vedendo sul mio volto una smorfia di scetticismo, si sentì in dovere di aggiungere: - Guardi, il concetto è presente in antiche dottrine di derivazione induista o egiziana. Oggi, da noi, anche i neurologi hanno cercato di affrontarlo. Non risposi perché non avevo ancora capito dove volesse andare a parare. E lui proseguì. - Una delle cause dello 'sdoppiamento' pare sia il sogno, quel particolare tipo di sogno in cui ci si rende conto di stare sognando. Chi ha vissuto questa esperienza dice che il corpo cosiddetto astrale può separarsi da quello fisico e vagabondare per proprio conto, visitando luoghi mai visti prima. In quei viaggi il corpo fisico rimane immobile in uno stato simile alla catalessi. - Se ho ben capito, per lei Renzino ha subito uno sdoppiamento e in questo momento il suo 'doppio astrale' è da qualche altra parte? - Sì, è quello che penso. Lo 'sdoppiamento' sembra avvenire, secondo quanto affermano gli psichiatri, a seguito di esaurimenti nervosi e di stati di affaticamento. - Ma queste non sono cause valevoli per il nostro paziente - gli feci notare. - D'accordo, ma lo sdoppiamento può avvenire anche a seguito di una forte tensione o di uno choc e i genitori del ragazzo mi hanno detto descritto Renzino come un soggetto molto emotivo. - Tutto questo non ci aiuta a tirarlo fuori dal suo stato di immobilità. - Io vorrei tentare un esperimento, ma vorrei il suo assenso prima di chiedere il permesso ai genitori. Ora le spiego in che cosa consiste. Stetti ad ascoltarlo. Non avevo fiducia nel suo esperimento, ma non glielo dissi perché si trattava di un trattamento innocuo. Ne avrei parlato io ai genitori di Renzino, gli dissi e lo avrei informato. I genitori del ragazzo diedero il consenso. Avrebbero dato il consenso anche se si fosse trattato di un ciarlatano pur di alimentare la speranza di riavere il loro figlio. Lo stesso pomeriggio ci ritrovammo in una stanza appartata. C'era il direttore. Avevo richiesto io la sua presenza. C'erano i genitori, il detective, il neuropsichiatra e, ovviamente, il paziente disteso su un lettino in posizione seduta. Davanti a lui era stato collocato un televisore e un videoregistratore. I genitori erano in uno stato di visibile apprensione; il direttore e il detective erano incuriositi, mentre il neuropsichiatra pareva agitato e nervoso. Toccò a me inserire la videocassetta nel lettore e accendere l'apparecchio. E lo spettacolo cominciò . Non so se i presenti lo seguirono perché i loro occhi erano fissi sul paziente. Il ragazzino se ne stava immobile a fissare lo schermo. - Sta sempre così, quando guarda la TV, - mormorò la madre. - Quell'apparecchio lo affascina e lo strega. - Maledetto il giorno in cui gli ho sistemato in camera quel televisore! - borbottò il padre. - Perché: è quello che stava nella camera di suo figlio? - gli chiesi. - Sì, il neuropsichiatra ha voluto che fosse lo stesso. Quando si stava per materializzare il foglio ai piedi del trespolo, tutti si voltarono verso il televisore, poi di nuovo verso il ragazzo. Renzino continuava a rimanere immobile. Se il neuropsichiatra si aspettava qualcosa, dovette rimanere deluso. Il suo esperimento sembrava fallito. Le immagini continuarono a scorrere sullo schermo, ma parevano non interessare più nessuno. - E adesso? - chiese l'investigatore. - Che cosa riferisco al mago Houdini Junior? - Che l'ho fregato! Ci voltammo di scatto verso il letto. Renzino ci guardava stando sempre seduto, con la schiena appoggiata alla spalliera. - Renzino! - gridò la madre correndo ad abbracciarlo. - Renzo! - fece il padre. Accorsi anch'io e allontanai bruscamente i genitori per controllare il ragazzo. Gli esaminai il polso, gli occhi, gli appoggiai lo stetoscopio sul cuore. Tutto normale. Renzino mi lasciò fare, si limitava a sorridere. - Renzino, - disse la madre - ci hai fatto stare in ansia. Cosa ti è capitato? - Niente. Il mago Houdini mi ha invitato ad entrare nella sua trasmissione; mi ha detto come fare; mi ha suggerito la parola magica e io l'ho scritta su un foglio strappato da un quaderno; l'ho pronunciata e mi sono ritrovato nello studio. Ma nessuno mi ha visto perché dovevo essere invisibile. - E perché non sei più rientrato in te stesso? - Perché qualcuno mi ha chiuso la porta. - Quale porta? - chiesi io. - Quella da cui ero entrato. - Tu hai seguito le istruzioni del mago e per entrare nello studio sei passato attraverso lo schermo? - Sì, ma poi qualcuno ha spento l'apparecchio e io sono rimasto in trappola. Non sapevo più come fare a uscire. Ora capivo perché il mio collega aveva voluto usare lo stesso televisore presente nella camera del ragazzo. Quella era la porta a cui Renzino aveva accennato. La parola ORTEVLENASSAP, letta al contrario, significa PASSA NEL VETRO, cioè nello schermo di vetro del televisore. Attraverso il vetro era passato il 'doppio astrale o eterico' di Renzino, come lo aveva definito il neuropsichiatra. Un doppio invisibile a tutti. - Quindi, - intervenne il detective, - tu, anche se nessuno ti vedeva, eri presente nello studio, mentre il mago faceva il gioco col pappagallo. -Sì. - E quando sei arrivato avevi con te la pagina strappata dal quaderno? - Sì, l'avevo portata con me perché la parola magica era difficile da ricordare e mi poteva servire per ritornare nella mia camera. - Renzino, ho saputo dai tuoi compagni di classe che ti piace fare degli scherzi. Ne hai fatto uno anche al mago? Il ragazzo arrossì, alzò le spalle e sorrise. - Sì. Quello cercava di imbrogliare. Quando aveva mostrato il tubo di cartone e lo aveva chiuso alle due estremità, non aveva messo dentro l'anello come aveva fatto credere. Aveva fatto finta e se l'era tenuto in mano. Poi, quando era andato a prendere il pappagallo, lo aveva fatto scivolare nella vaschetta dei semi di girasole. Allora ho pensato di fargli io un bello scherzo. Ho preso l'anello e l'ho sempre tenuto stretto in una mano. - E la pagina del quaderno? - Non ricordo. Forse l'ho lasciata cadere vicino al trespolo. - E dove hai nascosto l'anello? Nello studio non è stato trovato. - Certo che non l'hanno trovato: l'ho sempre tenuto nascosto dentro il pugno. Lo aprì facendo vedere l’anello. Guardai il neuropsichiatra. Sorrideva e, probabilmente, stava come me pensando ad un particolare sfuggito ai presenti: le mani di Renzino (e ne sono così sicuro da poterlo giurare sulla Bibbia) , le sue mani, per tutto il tempo in cui era rimasto immobile nel letto d'ospedale sotto le mie cure, erano sempre rimaste aperte.
Il dottor Silvestri tacque e guardò i presenti. - Marta, - disse Miriam - se ricordo bene, ai tempi del liceo eri appassionata di parapsicologia. Voi tutti ricorderete le discussioni col professore di filosofia e con Don Rinaldi, l'insegnante di religione. Perché non tenti tu di trovare una spiegazione razionale all'esperienza raccontata da Giulio? - Perché quando ci sono di mezzo la parapsicologia e le percezioni extrasensoriali io non mi pronuncio. I misteri della mente sono infiniti e noi, uomini del ventesimo secolo, utilizziamo solo una minima parte delle possibilità racchiuse nella nostra mente. Non sapremo mai quale particolare possibilità possa aver utilizzato il piccolo Renzino, caduto in catalessi e poi uscitone all'improvviso, pimpante come se nulla fosse accaduto. - E per di più con l'anello in mano - aggiunse Lattanzi. In qualità di imprenditore e affarista non aveva perso di vista il dettaglio dell'anello recuperato. - Be', - disse la giornalista - questo è il minimo che potesse accadere. - E no, mia cara, - le fece notare Giovanni Calonghi, afferrando con la mano sinistra un pezzo di panettone. - Il ragazzino ha partecipato ai giochi del mago in puro spirito e in puro spirito è rientrato nel suo corpo materiale. Ma l'anello è materia. Ritieni che anche la materia possa sdoppiarsi in corpi eterei? Il Calonghi sorrise e addentò il panettone. Se qualcuno stava per dire qualcosa, se ne astenne perché il cicalino della porta aveva suonato. - A quest'ora! E chi sarà? - brontolò il padrone di casa.
- Perché ti stupisci? Non è ancora passata la mezzanotte. Sarà qualcuno dei vecchi compagni in ritardo alla riunione. L'Antonelli non si era sbagliata. Il padrone di casa, allontanatosi per aprire l'uscio, ritornò sorridente, tenendo abbracciata una bella bionda (artificiale, pensarono subito l'Antonelli e l'Alfieri) la quale sorrideva a sua volta. La donna aveva un trucco pesante, marcato e indossava un vestito da sera lungo sino alle caviglie, una pelliccia di color rosso cupo con l'orlo inferiore macchiato di fango quasi avesse strisciato per terra. Nell'euforia del momento nessuno, tranne la giornalista lo notò. Sotto il braccio teneva una borsetta ricoperta di strass. La bionda si divincolò dall'abbraccio del padrone di casa e si rivolse ai presenti salutandoli e chiamandoli tutti per nome. - Ma come! Non ve la ricordate? - disse il professor Natali, vedendoli perplessi. - Vi siete dimenticate della studentessa più pazza della nostra classe? La Federici, pensarono tutti. Come avevano fatto a dimenticarla! La studentessa più pazza, più estrosa, più simpatica, più arruffona e indiavolata! Persino i suoi due nomi erano un programma: Aracne Athena. Chissà che tipo di genitori erano i suoi per averle affibbiato quei due nomi! - Chiedo scusa a tutti se arrivo a quest'ora. Però siete pochini: dove sono gli altri? Caro Albertone, - disse rivolta al padrone di casa - sei sempre il solito distratto: ma come si fa a convocare una riunione di ex alunni la notte di fine d'anno! Non hai considerato che con tutti gli impegni presi a molti sarebbe stato impossibile venire! Ci scommetto: voi tutti siete o scapoli o nubili o vedovi senza figli e quindi non avreste saputo dove andare se l'Albertone non vi avesse invitati. Già, anche lui è rimasto uno scapolone e ha trovato il modo di avere compagnia per ammazzare l'anno. La Federici non era cambiata. Diceva sempre quello che le passava per la mente, anche le verità più scottanti o spiacevoli senza curarsi se offendeva o se usava poco tatto. Ma l'avevamo sempre perdonata: come si poteva non perdonare quella ragazza esuberante! Non era possibile odiarla. Ognuno di noi aveva avuto un intero anno scolastico a disposizione per capire il suo carattere. Nelle sue azioni e nelle sue parole non vi era mai malizia. Per lei la vita sembrava solo un gioco. - E tu, ti sei sposata? - le chiese l'Antonelli. - Marta cara, ti sembro il tipo adatto per fare la moglie? Niente mariti, ma solo libertà... 'Sempre libera degg'io folleggiar di gioia in gioia', - comincio a cantare, piroettando per la stanza. I presenti la guardavano ammirati e sorridenti. Non appena Aracne Athena aveva varcato l'uscio di quella stanza l'atmosfera era mutata improvvisamente ed era diventata più allegra, quasi più intima. La donna si lasciò cadere su una poltrona molto vicino al camino, strinse attorno al corpo la pelliccia quasi avesse freddo e, senza attendere il padrone di casa, si versò un bicchiere di spumante. - Libera - ricominciò - libera di fare qualunque cosa mi frulli per la testa, anche di presentarmi a mezzanotte in casa di amici. Dico bene, Albertone? Però proprio da te, sempre pronto a dire peste e corna dei professori, non mi sarei mai aspettata una tua adesione a quella categoria. E' la nemesi: ora le frecciatine sarai tu a riceverle. Vero? - E, senza attendere la risposta, si rivolse al Lattanzi. - Tu, Aldo, invece, hai scelto la strada giusta. Sei sempre stato un opportunista e sei diventato un imprenditore edile. Chissà quante bustarelle hai dato in giro per avere appalti e chissà i guadagni! Ne hai depositati molti di soldi in Svizzera? E tu, il mio amato Giulio! Un dottore! Suona bene: dottor Giulio Silvestri. Ricordo di essermi presa una cotta per te ai tempi del liceo tu, però, non te ne sei mai accorto. Eh, già tu avevi occhi solo per quella smorfiosetta della Andreina. L'ho incontrata mesi fa in riviera! L'ho trovata ingrassata ed era accompagnata da due ragazzini, di certo i nipoti. Marta cara, di te non dico niente. Conosciamo tutti i tuoi articoli su giornali e riviste. Ne ho letti molti. Mi piacciono perché talvolta sei un poco carognetta nei tuoi giudizi. - Fa parte del mestiere - le rispose la giornalista per nulla seccata della critica. - Sei bene informata su di noi, Aracne, o preferisci Athena? - Debbo esserlo per forza: lo richiede la mia professione. - E sarebbe? - Non certo un mestiere insegnato nelle scuole. L'ho sempre sostenuto: la scuola non serve per la carriera. Un mestiere te lo devi creare. Io ne ho trovato uno formidabile. Si alzò in piedi gesticolando con le braccia quasi volesse indicare un manifesto appeso ad una parete. Si avvolse più strettamente nella pelliccia e con le spalle al camino, disse: - Aracne. Legamenti d'amore. Unisce. Intreccia. Riavvicina. Per amori piccoli, grandi o perduti, Aracne é al tuo fianco. Chiamami. Ti aiuterò e ti consiglierò . 144.63.22.41. - Aracne, non dirmi che fai la chiromante! - esclamò la giornalista. - Ma che chiromante d'Egitto, Marta cara! Io sono una esperta in esoterismo; una dottoressa dell'occulto. Presente, passato e futuro non hanno segreti per me. Conoscendo la Federici non ci si poteva attendere di meno. Quello fu il pensiero comune. - E di me non dici nulla? - chiese Simone Dursi. - Io non discuto con chi ha la fortuna più sfacciata del mondo. - Alludi alla mia società finanziaria? - No, ai fondi che ti hanno permesso di fondarla. Fossi stata in te, invece di chiamarla 'Finanziaria Insubria', l'avrei battezzata 'Finanziaria Tiresia' , in ricordo dell'indovino di Tebe... - Come lo sai? - chiese Dursi il cui viso si era fatto improvvisamente serio e alcune rughe gli si erano formate sulla fronte. - Sono esperta in esoterismo, te l'ho appena detto. Per me presente e futuro e specialmente il passato non hanno segreti. I presenti avevano ascoltato il colloquio dei due; un colloquio legato a fatti di cui non erano a conoscenza. Ma la Federici cambiò subito argomento. - Miriam cara, stai ingrassando. Dovresti far sparire quella ciccia dalle anche. Per te non dovrebbe essere difficile con tutti gli attrezzi di ginnastica presenti nella tua palestra. Non guardarmi così, cara! Anch'io so di avere qualche chilo di troppo. Ma non aspettare una mia visita: non potrò più essere tua cliente. - Tirò un profondo sospiro e aggiunse. - La casa dove abito ora è troppo lontana dalla tua palestra. - Hai cambiato casa di recente? - disse il professor Natali, ricordando l'indirizzo dove aveva mandato l'invito per quella sera. - Sì. L'ho cambiata. Proprio oggi ho preso possesso del nuovo appartamento - rispose, guardandolo fisso. E poi aggiunse: - Ehi, Albertone, tra poco scatta la mezzanotte. Ce l'hai in frigo lo champagne d'obbligo? Purtroppo dopo il brindisi dovrò lasciarvi, fuggire come Cenerentola. Ho promesso ad alcuni amici di far loro visita per la bicchierata del nuovo anno. Aracne pronunciò le ultime battute senza sorridere. Pareva restia nel pronunciarle. Il tocco della mezzanotte li sorprese con il bicchiere in mano. Brindarono. Seguì il rituale bacio sotto il vischio appeso al lampadario. - Bene, amici, vi ringrazio. Aracne posò il bicchiere sulla mensola del camino, si voltò verso la fiamma, volgendo la schiena ai presenti, aprì la pelliccia quasi a voler raccogliere il maggior calore possibile, poi la strinse attorno al corpo come se volesse impedire al calore di disperdersi e si voltò verso gli amici. Aveva di nuovo il sorriso sul volto. - Ora proprio vi debbo lasciare. Ho promesso. Debbo fare un lungo tratto di strada per raggiungere altri amici. Mi spiace, ma sono contenta di avervi rivisto. Sono passati... quanti, Albertone? Trent'anni dall'ultima volta? Mi auguro di vedervi tra altri trenta... ma che dico, meglio altri sessant'anni per brindare assieme. Addio, amici! E con quello strano augurio ci lasciò. Uscì nella notte ventosa e piovigginosa e si allontanò verso il cancello, da sola, senza attendere che il padrone di casa l'accompagnasse. "La solita Federici" pensò l'Antonelli. "Non poteva fare a meno di uscire dalla scena in modo sensazionale." Solo allora si rese conto di un fatto. Aracne Athena era passata come una meteora in quella riunione di ex studenti, aveva parlato con tutti, accennando alle loro professioni, ma stranamente non aveva degnato di una parola, né fatto alcun accenno a uno degli ospiti presenti, a Giovanni Calonghi, il quale, da parte sua sembrava averla ignorata. C'era forse qualche antico screzio nato ai tempi della scuola e di cui nessuno di loro era a conoscenza? E, inoltre, perché non si era mai tolta la pelliccia, con l'orlo macchiato di fango, e se l'era tenuta stretta al corpo? Che avesse freddo? Forse sì perché per tutto il tempo era rimasta vicino al camino acceso, sebbene la stanza fosse assai riscaldata. Stranezze di Aracne Athena Federici, esperta in esoterismo e dottoressa dell'occulto. Dopo la sua partenza l'atmosfera si raffreddò nuovamente e il colloquio ristagnò. - Peccato sia fuggita proprio come Cenerentola e senza lasciarsi dietro una scarpetta, - disse il dottor Silvestri. - Con la sua professione chissà quante storie strane avrebbe saputo raccontarci. - Per la verità una scarpetta l'ha lasciata - disse Calonghi. - Di quale scarpetta parli? - Potrebbe spiegarcelo meglio l'amico Simone. Secondo una allusione di Aracne ci deve essere nella sua vita qualcosa di misterioso e di strano. Chiamato in causa, Dursi, scosse il capo dubbioso. - Effettivamente l'accenno di Aracne alla mia società finanziaria e all'indovino Tiresia, mi ha colto di sorpresa, perché ha alluso ad un fatto della mia vita che per anni mi ha lasciato perplesso. Non l’ho mai svelato a nessuno per la sua stranezza e, per me, incomprensibilità. Non vi é nulla di cui mi debba vergognare e ve lo racconterò; poi starà a voi giudicare.
Tutto ebbe inizio quando, uscendo di casa per andare al lavoro - allora ero un semplice impiegato di banca - ritirai dalla cassetta delle lettere una busta. Qualcuno doveva avervela messa quel mattino stesso o la sera precedente. Si trattava di una busta comune, aperta, senza indirizzo e senza mittente. " Reclame " pensai e me la ficcai meccanicamente in tasca senza preoccuparmi di aprirla. Solo quando fui seduto sul filobus, la ripescai dalla tasca e ne trassi un foglio - pareva una fotocopia - su cui c'era scritto:
Egregio Signore, sono un veggente in possesso di straordinari poteri i quali mi permettono di poter scrutare nel futuro . Purtroppo è una facoltà di cui non posso approfittare personalmente perché chi me la concesse mi escluse da ogni beneficio. Ecco perché mi prodigo per il benessere dei miei simili. Si chiederà perché ho pensato proprio a Lei e se la conosco. No, io non la conosco e Lei non conosce me. Ho scelto il suo nome a caso sull'elenco telefonico, come quello di molti altri cui voglio elargire quanto di bene può derivare dalla mia facoltà. Da parte sua non dovrà compiere nulla di eccezionale, ma seguire solo le mie istruzioni. Sabato prossimo, alle piscine del CONI, si svolgeranno i campionati nazionali di nuoto. Nella gara dei cento metri stile libero saranno presenti i campioni: Centi, Rocchi, Talenti, Pagano, Gaggiolo e Moriconi. Come Lei saprà, in occasione di avvenimenti particolari molti allibratori, legalmente autorizzati, accettano scommesse sugli atleti. LE CONSIGLIO DI SCOMMETTERE SU PAGANO VINCITORE. Non le dico "Buona fortuna". L'avrà perché ho letto nel futuro.
"Ma guarda tu, - pensai - cosa vanno ad escogitare per invogliare il pubblico a scommettere." Appallottolai foglietto e busta e, appena sceso dall'autobus, gettai il tutto in un bidone dell'immondizia. Stavo pensando all'invito entrando in banca, quando vidi un mio collega, patito di sport, intento e leggere la pagina sportiva di un quotidiano. - Mazza, ti intendi per caso anche di nuoto? - gli chiesi. - Sì, un poco. Perché lo vuoi sapere? Ti sei forse convertito allo sport? Sarebbe un miracolo. - Nessun miracolo, Mazza. Volevo solo chiederti una informazione. Nella gara dei cento metri stile libero di sabato, quella per il titolo nazionale, che possibilità ha Pagano di vincere. - Pagano é un buon nuotatore, ha forza nelle braccia e nelle gambe ma difetta di carattere. E poi ha il vezzo di sbagliare l'ingresso in acqua. Perde sempre decimi di secondo. Gli sono spesso costati molte gare. - Non ti ho chiesto, Mazza, di farmi l'identikit di un nuotatore. Ti ho solo chiesto se Pagano sabato vincerà. - No, non ha nessuna chance, ci sono alcuni avversari più forti di lui. Ma perché lo vuoi sapere? - Qualcuno mi ha fatto una soffiata dandomi Pagano vincente. - Se rivedi ancora quel qualcuno, dagli pure dell'incompetente a nome mio e, se proprio vuoi scommettere, punta su Moriconi. In questo momento è il più forte. Ovviamente, non puntai su nessuno dei due e quel sabato non mi recai affatto alle piscine. E la faccenda finì lì. Il lunedì successivo rividi in banca l'amico Mazza. Mi venne incontro, fingendo un atteggiamento sottomesso. - Dimmi che non ce l'hai con me! - Perché dovrei avercela con te? - Per il consiglio che ti ho dato. - Vedendo che non capivo, aggiunse: - Avevi ragione tu. Pagano ha vinto i cento metri. Se tu avessi puntato su di lui, avresti vinto. - Allora il mio informatore aveva ragione. - Sì, me lo fai conoscere? Scossi il capo. - Mi dispiace, ma non lo conosco neppure io. Mazza mi guardò di sottecchi. Non mi aveva creduto. Quindici giorni dopo trovai nella cassetta un'altra lettera. Stessa busta, stesso foglio.
Egregio signore, visto la bella gara di Pagano? Spero abbia puntato forte su di lui e mi congratulo per la sua vincita. Ma questo è niente. Lei potrà rimpinguarla con qualche altra scommessa. Da poco é iniziata allo Stadio delle Alpi la selezione regionale per scegliere gli atleti da inviare alle gare nazionali. I partecipanti al salto in lungo sono quattro: Cerullo con un record personale di metri 6,90; Compiani 6,85; Basile 7,12; Senigaglia 7,08. Ecco la mia previsione: COMPIANI VINCERA' LA GARA.
Stavolta non chiesi alcun parere all'amico Mazza e neppure gli accennai della soffiata ricevuta. Comprai un giornale sportivo e cercai la notizia per sapere quando la gara avrebbe avuto luogo. Il giornale mi diede una piccola delusione perché dava per favoriti Basile e Senigaglia, senza alcuna possibilità per gli altri due. Quella domenica mi recai allo stadio e forzando la mia natura contraria al gioco d'azzardo, cercai un allibratore e puntai cinquantamila lire su Compiani dato per uno a otto. Se avessi vinto avrei intascato otto volte la posta e cioè avrei intascato quattrocentomila lire. Compiani vinse. Tornando a casa con la somma in tasca, mi chiesi perché l'ignoto informatore si desse tanta fatica per inviarmi le sue informazioni. D'accordo, un foglio di carta e una busta costano poco e, inoltre la lettera non era stata spedita, ma sempre recapitata a mano e quindi non era nemmeno affrancata. A parte ciò non esisteva alcun motivo per prendersi una tale briga. La ragione mi fu nota quando ricevetti la lettera successiva.
Egregio Signore, ha visto il bel salto di Compiani? Eccezionale veramente. E se lei ha avuto fiducia nelle mie previsioni, anche le sue finanze hanno fatto un bel salto in avanti... se ha fatto una scommessa consistente. In caso contrario, non si morda le dita: io le sono veramente amico. Infatti ho pensato di nuovo a lei. Si diletta di scacchi? Non importa. Da giorni i giornali riportano la notizia dell'incontro di venerdì prossimo tra Karpov e il polacco Zivnjieski, un giovane emergente, sconosciuto nei tornei internazionali. Da tempo Karpov cerca un avversario degno di lui, ma nessuno osa affrontarlo. Zivnjieski é giovane, ha poco da perdere e si deve fare le ossa affrontando avversari quotati. Si dice negli ambienti informati che il polacco non ha alcuna possibilità di vittoria. Ma il futuro é nelle mani di Dio... e anche nelle mie. ZIVNJIESKI BATTERA' KARPOV. Scommetta su di lui. Da quando é iniziato il nostro rapporto Lei si sarà spesso chiesto: "Ma questo ignoto informatore perché mi scrive? Che cosa ci guadagna? Perché non tiene per sé le sue previsioni, scommettendo per conto suo? E' molto semplice, caro amico. Glielo dissi nella prima lettera: io non posso utilizzare a mio vantaggio quanto le mie facoltà di Veggente mi suggeriscono. Non mi chieda la ragione: non gliela saprei spiegare. Quanto al guadagno che posso ricavarne da oggi dipenderà da lei. Finora le ho fornito due notizie senza nulla pretendere. D'altronde é Lei a impegnare i suoi soldi. Mi permetto, comunque, purché sia lei a desiderarlo, di fare come i clienti quando pagano i conti dei ristoranti o degli alberghi. Lasciano solitamente una mancia del dieci per cento dell'importo pagato. Potrebbe imitarli. Badi bene, non é un obbligo. E anche se non mi invierà nulla il nostro rapporto continuerà ugualmente. PS. L'eventuale mancia va spedita in contanti alla Casella Postale n. 329. Posta Centrale di Milano.
Dopo aver letto la lettera, rimasi indeciso se inviargli le quarantamila lire "di mancia" relative alla precedente vincita, ma ritenni più opportuno attendere l'esito dell'incontro di scacchi. Puntai sul giovane Zivnjieski trecentomila lire delle quattrocentomila vinte in precedenza. Il giovane era dato a dieci contro uno. Karpov fu inaspettatamente battuto. Avevo la testa confusa quando ritirai i tre milioni della vincita e il mio primo pensiero fu di introdurre tre biglietti da centomila lire in una busta e di inviarla alla Casella Postale n. 329. Non starò a tediarvi parlandovi del contenuto di tutte le lettere seguenti e delle scommesse fatte. Si trattava delle scommesse più disparate: incontri di boxe in cui era in palio il titolo mondiale; finali di calcio, di tennis, di pallavolo; finali di bridge; ci fu persino una lotta di galli tenutasi in Brasile, la quale appassionò gli amanti del genere per la notorietà dei due animali. Puntualmente, per ogni avvenimento, una settimana prima mi arrivava la previsione e risultò sempre esatta. In quel periodo ero alquanto esaltato, anche se cercavo di controllarmi. La febbre del gioco mi aveva preso a tal punto da arrischiare - meglio dire da impegnare, perché ero certo di vincere e quindi non c'era alcun rischio - somme sempre maggiori. Giunsi persino a suddividere le mie puntate fra diversi allibratori e in città diverse per non attirare l'attenzione su di me, tanto giocavo forte. Fu un periodo frenetico. Il mio conto in banca salì vertiginosamente e anche quello del mio informatore cui puntualmente inviai "mance" sempre più cospicue. Nessuna delle sue previsioni, per quanto azzardata fosse, mi stupiva. C'era un unico neo, per me incomprensibile: quell'individuo, in ogni sua lettera, cambiava la Casella Postale. Non ho mai capito perché e non mi presi di certo la briga di scoprirne il motivo. Poi arrivò l'ultima lettera.
Caro amico, abbiamo percorso assieme un lungo e proficuo cammino. Purtroppo siamo giunti al termine. Presto dovrò fare un lungo viaggio. Ho sempre desiderato conoscere un luogo della terra: il Tibet, non tanto per la sua bellezza quanto per la saggezza dei suoi monaci. Avverto sempre più il desiderio di approfondire la fonte dei miei poteri, di capire da dove essi provengono e quei monaci sono detentori del segreto. Ci dobbiamo lasciare e poiché Lei è sempre stato generoso nei miei confronti, ho deciso di darle un'ultima informazione. Lei lavora in una banca dove si occupa di azioni e di investimenti. Conoscerà, quindi, la situazione delle azioni della Golf Petrol. Stanno perdendo quota e scendono a precipizio. Tutti cercano di disfarsene, dandole via per poco o niente.Ecco la mia predizione e il mio consiglio:
COMPERI. COMPERI, AMICO MIO! RASTRELLI DAL MERCATO IL MAGGIOR NUMERO POSSIBILE DELLE AZIONI E NON SI PREOCCUPI SE CONTINUERANNO A SCENDERE. VEDRA': LUNEDI' 26 DI QUESTO MESE LE SONDE DEL GOLFO DEL MESSICO TROVERANNO UNA ENORME SACCA DI PETROLIO. LE AZIONI SALIRANNO ALLE STELLE. SOLO ALLORA LEI VENDA E SARA' RICCO. Addio.
PS. Potrà inviarmi i suoi ultimi saluti alla Casella Postale n. 1212 della Posta Centrale di Torino.
Ve lo confesso, amici, rimasi a lungo indeciso se accettare quest'ultima sfida. Stavolta l'ignoto informatore aveva invaso un settore finanziario: il mio settore. Ero a conoscenza del calo a picco delle azioni della Golf Petrol. E chiunque ne era in possesso cercava di liberarsene. La Società della Golf Petrol si era imbarcata in ricerche sottomarine nel Golfo del Messico, iniziando trivellazioni in una zona di mare dove si presumeva la presenza di consistenti giacimenti di petrolio; erano passati mesi e le trivelle della piattaforma galleggiante non avevano incontrato l'oro nero previsto. Le ingenti somme investite minacciavano di far fallire la società. Ma il mio ignoto informatore non aveva mai sbagliato una previsione e ora mi consigliava di comperare. E se, invece, avesse sbagliato quell'ultima previsione? E se, invece, avesse previsto giusto come sempre? Non so se qualcuno di voi è mai stato assalito dalla febbre del gioco. A me, in tutti quei mesi fortunati, era salita oltre i quaranta e non accennava a scendere. Mi decisi. Comprai, comprai tutte le azioni. Dopo aver impegnato tutto quanto avevo guadagnato in precedenza, e si trattava di centinaia di milioni, arrivai addirittura a farmi prestare una considerevole somma da una banca. I miei colleghi mi diedero del pazzo o almeno diedero del pazzo al cliente che mi aveva dato l'ordine di acquistare le azioni. Avevo fatto credere di aver ricevuto l'ordine da un cliente. Non avrei altrimenti saputo come giustificare il possesso di tutte le centinaia di milioni vinti nei mesi precedenti. I giorni che mi separarono da quel fatidico lunedì 26 furono per me un vero incubo. Le azioni continuavano a scendere e io continuavo a comprare. Non dormivo la notte; prendevo continuamente tranquillanti; ero nervoso, agitato, intrattabile, litigioso. Un incubo, ripeto. Poi proprio lunedì 26, come aveva predetto il mio indovino, che Dio lo abbia in gloria!, dal Golfo del Messico rimbalzò negli ambienti finanziari una notizia. Le sonde della Golf Petrol avevano raggiunto una enorme sacca di petrolio. E l'orizzonte per me ridivenne limpido. Il mio informatore aveva visto giusto. Per me fu la fortuna. - E ci scommetto: da allora hai continuato a giocare, - gli disse Lattanzi. - Perderesti la scommessa, caro Aldo. Se non mi arrivano più soffiate per lettera dal mio ignoto informatore, io non scommetto più. La febbre é calata. - Hai mai avuto notizie sul tuo informatore? - No. Dopo avergli inviato un consistente pacchetto di banconote all'ultimo fermo posta indicato, non ho mai più saputo nulla di lui. Sparito, volatilizzato, dissolto nel nulla. Un vero mistero. - Sparito sì, volatilizzato e dissolto nel nulla non credo - disse Calonghi. - Probabilmente si sta godendo i poco onesti milioni guadagnati alla faccia di poveri disgraziati caduti nel suo piano machiavellico. Non me la sento di definirlo imbroglio o truffa o raggiro perché sarebbe improprio. - Che dici, Giovanni! Imbroglio, truffa, raggiro! Nessuno mi ha mai imposto nulla: ho sempre agito di mia volontà. E poi l'informatore non mi ha mai chiesto denaro; il suggerimento di inviargli una "mancia" non é stata una imposizione, ma un semplice invito. Potevo anche non mandare alcuna somma alla Casella Postale. - Ma non te la sei sentita di godere di un beneficio senza avvertire un obbligo morale a "pagare" una quota. - Sì, hai ragione: l'ho sentito come un obbligo morale. Se ci pensi ero solo io a godere dei suoi poteri paranormali e a vincere. - E proprio su questo 'senso morale' l'informatore faceva leva. Ne era certo: tu, come gli altri, gli avresti inviato il dieci per cento delle vincite, la cosiddetta 'mancia'. Ma non hai mai pensato agli altri, a chi forse ha perso ingenti somme rimettendoci di tasca propria? - Quali altri? - volle sapere Marta. - Mi meraviglio di te, Marta. Proprio tu, una giornalista, non hai fiutato il piano machiavellico messo in atto dall'ignoto informatore? La giornalista scosse il capo. - L'ignoto informatore dell'amico Dursi... Vogliamo dargli un nome convenzionale, come già ha fatto Aracne e chiamarlo Tiresia, come l'indovino di Tebe? Ebbene, Tiresia ha saputo giocare bene le sue carte. Per la verità chiamarlo Tiresia é fare un torto al vero Tiresia, perché se quello poteva essere considerato un vero veggente, il nostro nel campo della divinazione è un perfetto illetterato, anche se un ottimo manipolatore dell'occulto. - Spiegati meglio, Giovanni. Continuo a non capire. Tu potresti dare una spiegazione logica al mio mistero? - chiese Dursi. - Una spiegazione logicissima, Simone. Calonghi si sistemò sulla poltrona e si versò un bicchiere di champagne con la mano sinistra. “ To', ancora con la mano sinistra,” pensò la giornalista Antonelli, " Non avevo mai notato che Giovanni fosse mancino!". Dopo aver bevuto, Calonghi cominciò a spiegare. - I fatti strani e apparentemente paranormali mi hanno sempre affascinato e mi sono imbattuto una volta in un caso analogo al tuo, caro Simone. Anche in quel caso si trattò di divinazioni continue e sempre esatte. Ma erano in realtà previsioni scontate. Rivediamo in sequenza quanto ti é accaduto. All'inizio il nostro Tiresia si basò su una previsione legata a una gara di nuoto cui partecipavano sei atleti e ti spedì l'invito a scommettere su uno di loro; la seconda previsione si basò su una gara di salto in lungo cui parteciparono quattro atleti e tu ricevetti la lettera con l’indicazione del vincitore. Ed ora, Simone, vorrei sapere: le altre previsioni coinvolgevano gruppi di atleti o di squadre oppure i contendenti erano sempre e solamente due? - Erano sempre due. Si trattava di incontri di boxe, di finali di calcio, di incontri di scacchi... Già, é vero: i contendenti erano sempre due. Ma questo che vuol dire? - Sta alla base della ‘trovata matematica’ del nostro Tiresia. Ecco come procedette. Per prima cosa scelse dall'elenco telefonico 1536 utenti con relativo indirizzo... Non stupitevi del numero esatto: infatti si tratta di una ‘trovata matematica’. Gli utenti avrebbero potuto essere anche 3072 oppure 6144. Li scelse con oculatezza tra utenti il cui nome era preceduto da un titolo professionale come "dr., ing., avv., prof. ecc.", cioé persone, si presume, di un certo prestigio e probabilmente con un discreto reddito. Facciamo un esempio concreto e ammettiamo che Tiresia abbia scelto 1536 utenti. Come prima operazione li divise in sei gruppi, di 256 persone ciascuno. Badate bene, sei gruppi, tanti quanti erano i nuotatori della prima gara. Ad ogni gruppo inviò la stessa lettera, in fotocopia o ciclostile, avendo però l'accortezza di variare il nome del vincitore e invitando a scommettere su di lui. Di conseguenza solamente ogni persona del gruppo di 256 utenti cui era stata inviata quella previsione, nel nostro caso la vittoria del nuotatore Pagano, se aveva scommesso, vinse. I componenti degli altri cinque gruppi, se scommisero, persero. Calonghi fece una pausa per permettere ai presenti di inquadrare la situazione. E poi riprese. - Il nostro Tiresia si trovò, quindi, con 256 persone le quali, avendo ricevuto l'imbeccata giusta, avevano vinto e gli avrebbero di nuovo concesso la loro fiducia. Per la seconda previsione scelse una competizione a cui dovevano partecipare solo quattro persone. E trovò la gara di salto in lungo. A questo punto divise i 256 nominativo in quattro gruppi di 64 persone e inviò un'altra lettera, uguale per tutti, TRANNE IL NOME DEL VINCITORE. Questo variava da gruppo a gruppo. - Comincio a capire - disse Simone. - Io no, - fece il padrone di casa. - Continua. - Spedì le lettere: o meglio provvide a metterle direttamente nelle cassette della posta e attese. Dalla gara risultò vincitore Compiani, un outsider. Tiresia, come aveva fatto in precedenza, accantonò i tre gruppi contenenti i nomi degli atleti perdenti e si dedicò alle 64 persone che avevano ricevuto la previsione vincente. Solo allora aggiunse alle lettere successive l'invito a mandare una mancia del dieci per cento. E solo da quel momento le proposte a scommettere si limitarono sempre a due competitori, squadre o atleti che fossero. - Adesso comincio a capire anch'io - disse Natali. - Il seguito é prevedibile. L'ineffabile Tiresia divise i 64 rimasti in due soli gruppi e al primo, composto di 32 nominativi, diede come vincitore Karpov; agli altri 32 Zivnjieski. Solo trentadue vinsero. - Questi a loro volta vennero suddivisi in due gruppi da 16 - concluse Miriam - e poi da 8, da 4 e da 2, finché è rimasto un solo vincitore, tu Simone. - Comincio a sentirmi male - fece Simone, afferrando un bicchiere di spumante e bevendolo d'un fiato. - E ne hai ben donde! - gli disse Giovanni. - Tu hai avuto la fortuna di trovarti sempre dalla parte del gruppo vincente. Ma pensa a tutti coloro che all'improvviso, dopo aver sempre creduto nell'infallibilità del nostro Tiresia si sono trovati dalla parte sbagliata e hanno scommesso! E tieni presente un fatto legato alla natura umana. Tutti, come te, pensando all'infallibilità della previsione, devono aver scommesso somme enormi. - Quindi, - disse Simone, pallido in volto, - se quando siamo rimasti in due, Tiresia avesse messo nella mia buca da lettere la busta con la previsione errata io avrei perso tutto! - Precisamente. - Non voglio nemmeno pensarci. - Purtroppo ci avrà pensato l'altro, quello della busta con la previsione sbagliata. - Poveretto! - fece Marta. - Che vigliaccata! - Tiresia non gli aveva mica ordinato di scommettere? - disse il dottor Silvestri. - Ognuno risponde delle sue azioni. - Comunque é sempre un imbroglio ignobile. - Pensa a quanto deve aver guadagnato Tiresia! Lui deve aver cominciato a ricevere mance dai primi sessantaquattro vincitori, poi dai trentadue, dai sedici, dagli otto, dai quattro dai due e dall'ultimo. Avrà incassato chissà quanti milioni! - Giovanni, secondo te nessuno dei perdenti avrà cercato di trovare il falso informatore? - Se l'ha fatto non sarà riuscito a trovarlo, sia perché le Poste non sono autorizzate a fornirti il nome dell’affittuario di una Casella Postale, sia perché il numero delle caselle cambiava sempre. E avrebbe reso difficile, se non impossibile, la ricerca. E poi il nostro Tiresia avrebbe potuto dichiarare un nome e un indirizzo falsi, presentando alle Poste documenti contraffatti. Per un poco nessuno parlò. Poi Dursi, rivolgendosi a Calonghi, disse: - Caro Giovanni, non saprei se esserti grato per avermi svelato un problema o se rimproverarti per aver tolto una aurea di mistero all’episodio più strano e al periodo più fortunato della mia vita. - Sei proprio sicuro, Giovanni, di aver risolto il mistero? - intervenne Miriam. - Io direi di no. - Spiegati. - Pensa all'ultima lettera ricevuta da Simone, quando rimase solo e unico vincitore in quella specie di gara ad eliminazione. Tiresia non aveva più alcuna alternativa da proporre perché era rimasto un solo il suo nome. Il gioco era quindi concluso. Eppure ha mandato ancora un'ultima previsione, invitando Simone non a scommettere, ma a fare una operazione finanziaria. Perché l'ha fatto? Se Simone avesse perduto tutta la tua fortuna, Tiresia non avrebbe ricavato nulla. Eppure gli ha consigliato di comprare le azioni della Golf Petrol. - Una spiegazione si potrebbe sempre trovare - ribatté Calonghi. - Tiresia aveva ormai esaurito tutte le sue fonti di guadagno e prima di abbandonare la scena sparò una predizione alla cieca. Lui non aveva nulla da perdere, mentre, se la sua previsione si fosse avverata, il nostro amico gli avrebbe inviato ‘una mancia’ alquanto considerevole. Ti va come spiegazione? - A metà perché non spiega un fattore particolare, un fattore legato all’occulto e al mistero. Mi dici COME FACEVA TIRESIA A SAPERE CHE IL PETROLIO SAREBBE STATO SCOPERTO PROPRIO LUNEDI' 26 DI QUEL MESE? - Questo è l'unico mistero del racconto di Simone a cui non so dare una risposta - concluse Calonghi.‑ Il professor Natali approfittò della pausa per stappare un'altra bottiglia di champagne e per far girare un vassoio di gianduiotti e di torroncini.
Fuori il vento era calato e dalle basse nubi veniva giù un nevischio misto ad acqua. Il ritorno alle rispettive abitazioni non sarebbe stato agevole a causa del fango e di qualche lastrone ghiacciato. Forse per questo nessuno si decideva a congedarsi. E inoltre, secondo la proposta del dottor Silvestri e accettata da tutti, Miriam e Giovanni dovevano ancora raccontare la loro esperienza. - Siete rimasti in due - disse Marta. - Anche la vostra vita non sarà stata così lineare e limpida da non comprendere almeno un mistero o una stranezza. Miriam, tu che ci racconti? Chiamata in causa la donna si dimenò a disagio sulla poltrona e curvò le labbra in una piccola smorfia. - Nella mia professione non esiste molto spazio per le cose strane e misteriose, a meno che tu non le voglia creare di proposito. Ve l'ho detto, dopo il liceo abbandonai gli studi o meglio seguii dei corsi di ginnastica e di fisioterapia. La mia aspirazione era di aprire un salone di ginnastica e di massaggi, come in seguito feci. - Peccato abbandonare gli studi - le disse Dursi. - Tu eri bravissima in italiano e altrettanto brava in latino e greco... - E anche in matematica se ricordo bene, - intervenne Lattanzi. - Avresti potuto iscriverti a qualsiasi facoltà universitaria e con successo. Miriam continuò a muoversi a disagio sulla poltrona. - Avete ragione a metà. Se ricordate ero brava negli scritti, ma ero anche una frana in orale. - Bella scoperta, - disse Marta, - non studiavi mai! Mi sono chiesta spesso come facevi ad essere poi così brava negli scritti. - Fa parte del mio mistero, Marta. - E allora sotto col tuo racconto, Miriam, e vedremo se qualcuno di noi potrà trovare anche per te una spiegazione razionale, - la invitò sorridendo Giuseppe. La giornalista guardò Calonghi: lo vedeva sorridere per la prima volta. - La mia avventura ebbe luogo l'anno in cui, terminati gli studi di fisioterapia, frequentai un corso del CONI per massaggiatori sportivi autorizzati. Mi ero iscritta perché, avendo intenzione di aprire una palestra, ritenevo indispensabile alla mia professione avere cognizioni di massoterapia. In quel periodo, durante un soggiorno a Montecatini, avevo conosciuto Laura Zinni. Tutti conoscerete la Zinni, no? - E chi non la conosce - fece Dursi. - E' la nostra campionessa di ciclismo. Ha vinto tre giri d'Italia e due di Francia, battendo la Longo... - Hai scommesso anche su di lei? - gli chiese il professor Natali, destando l'ilarità generale. - Sì, conobbi proprio la campionessa italiana di ciclismo - riprese Miriam - e diventammo subito amiche per affinità di carattere. Discutemmo spesso di sport e lei, quando conobbe la mia professione, mi fece una proposta vantaggiosa. - Perché non diventi la mia massaggiatrice personale? Con la precedente ho avuto più volte a ridire per questioni personali e l'ho licenziata. Per la prossima stagione ho bisogno di qualcuno in grado di occuparsi dei miei muscoli. Saresti disposta? Le confessai la mia inesperienza in massoterapia, anche se al corso promosso dal CONI avevo imparato molto sul massaggio sportivo. Per farla breve, Laura aveva il dono di convincere la gente e io mi lascia convincere. Avrei avuto la possibilità di girare l'Italia e la Francia perché si era iscritta ai rispettivi Giro e Tour. E poi c'erano anche diverse gare in altre nazioni. Insomma, la prospettiva era allettante, anche dal punto di vista finanziario. Così ebbe inizio la mia avventura sportiva. Le prime tappe del Giro d'Italia furono per la Zinni un successo, come c'era da aspettarsi. Vinse la prima tappa a cronometro, arrivò seconda nella terza tappa e di nuovo prima nella quarta. Poi ci fu la defaillance nella quinta tappa. Arrivò con dodici minuti di ritardo e perse la maglia di leader. - Non me lo spiego, Miriam, - mi confessò, mentre la massaggiavo dopo la corsa. - Non me lo spiego. Alla partenza mi sentivo in forma, agile, scattante. Pensavo di attaccare a fondo negli ultimi cinquanta chilometri. - E l'hai fatto! - dissi, ripensando allo scatto con cui aveva sorpreso tutto il plotone. - Sei andata via come una freccia. Ho pensato "Adesso non la pigliano più" - Anch'io l'ho pensato, ma poi, all'improvviso, ho avvertito una pesantezza ai muscoli delle gambe e ho cominciato a pedalare con fatica. Una strana sensazione: dalla cintola in su non avvertivo nulla di mutato, solo le gambe sembravano di legno e non era certo la strada, pianeggiante sino all'arrivo, a procurarmi fatica. No, erano proprio le mie gambe a rifiutarsi di collaborare. Il dottore della squadra, dopo averla visitata, non trovò nulla di cui preoccuparsi. - L'acido lattico e l'acido piruvico ti hanno giocato un brutto scherzo, Laura cara. Mi dispiace per i dodici minuti di distacco, ma domani ti riprenderai. Il direttore della squadra per la tappa successiva le ordinò di non tentare alcun attacco, anche se il percorso con un premio di montagna di seconda categoria, sembrava fatto su misura per le capacità della mia amica. Laura arrivò al traguardo col gruppo. Le sue gambe avevano girato al solito ritmo: nessun dolore; nessuna pesantezza. Tutto normale. - Oggi tento di riprendermi un po' di minuti - mi confessò il mattino successivo mentre la massaggiavo prima della partenza. - La terza salita, quella col gran premio di montagna di seconda categoria, sembra fatta per me. Un ideale trampolino di lancio verso il traguardo. Aspetta, Miriam, e vedrai. Attaccò, come mi aveva preannunciato. Staccò il gruppo e in breve prese tre minuti. Poi, inspiegabilmente venne ripresa. Dall'auto al seguito da cui seguivo la corsa, vidi una smorfia di rabbia sul suo volto. Si voltò verso di me e mi fece un cenno d'intesa. Capii subito le sue intenzioni: avrebbe ritentato. E tentò di fuggire per altre due volte. Fu sempre riassorbita e dovette accontentarsi di arrivare in gruppo al traguardo. - E' inspiegabile, Miriam, - mi confessò . - Quando scatto mi sento bene, poi, all'improvviso le gambe mi si fanno legnose. Mi sembra di pigiare su molle durissime anziché su agili pedali. E poi, quando il gruppo mi riassorbe, tutto scompare. Hai visto: ho tentato più volte di scappare, ma mi é sempre capitato lo stesso malessere. Miriam, mi hanno stregata! - mi disse facendo un vocione cavernoso e sbottando poi in una allegra risata. Laura era fatta così. Non se la prendeva mai più di tanto. Le gare erano per lei un gioco in cui uno vince e altri perdono. - Io ho già vinto la mia parte e vincerò ancora. Perché prendersela? - era solita dire. - Purtroppo la fama guadagnata mi impone di dare il meglio di me. Ebbene, cercherò di darlo e se, quando attaccherò, verrò ripresa, pazienza. Cercheremo assieme di capire da dove viene il mio improvviso calo di forma. Le tappe continuarono e il malessere della Zinni pure. Non riusciva più a staccare il plotone senza essere ripresa. - Il tuo racconto, Miriam, - la interruppe Lattanzi, - mi ricorda il film di Totò, Totò al giro d'Italia. Anche in quel film il comico napoletano staccava di prepotenza i suoi avversari, Bartali, Coppi, Magni, poi veniva raggiunto e staccato a sua volta. Ma alla fine vinceva sempre le tappe. - L'ho visto anch'io - disse l'Antonelli - ma se non sbaglio, Totò in quel caso aveva venduto l'anima al diavolo. Un diavolo dalla figura di gentiluomo gli dava la forza di vincere. - Miriam, dovevi consigliare alla tua amica di vendere l'anima al diavolo, per risolvere il problema - fece Lattanzi sorridendo. - Laura non l'avrebbe mai venduta, ma qualcun altro sì - gli rispose seria l'Alfieri. - E chi? - Non lo so. Durante l'ultima giornata di riposo prevista, prima delle sei tappe finali di cui una cronosalita e quattro tapponi di montagna prima dell'ultima tappa, la passeggiata finale, Laura entrò nella mia stanza, tenendo in mano una sua fotografia. - Io te lo dissi per scherzo, ma credo sia vero, Miriam. Io non sono superstiziosa, non lo sono mai stata e non mi hai mai visto portare un amuleto su di me come altre mie compagne. Ti ripeto, sono razionale e non ci credo, ma qualcuno mi ha gettato addosso il malocchio. - Che dici! - Tu ci credi? - Ho letto su alcune riviste che in molte regioni europee, Italia compresa, la stregoneria é tutt'ora presente. Certo, alle soglie del Duemila, viene spontaneo rifiutare procedimenti di magia e di stregoneria. Però le fatture sembrano essere ancora in vigore nelle nostre città e nelle campagne. Gli inserti e gli annunci pubblicati sui giornali da maghi disposti a toglierle, dimostrano che qualcuno le fa e il fenomeno é più esteso di quanto si creda. - Miriam, non ti ho chiesto se esistono maghi e fattucchiere: ti chiedo solo se tu ci credi. - Sì - Non l'avrei mai detto - si intromise Simone. - Tu, Miriam, credi nelle pratiche occulte? - Ci ho sempre creduto, sin da quando sedevo sui banchi di scuola. Da dove credi venisse la mia bravura nei compiti in classe? - Questa sì è una novità! - esclamò il dottor Silvestri. - Allora, prima di ogni compito in classe ti recavi da qualche fattucchiera? - Non ce n'era bisogno. Andavo da mia nonna. Nel paese dove abitavo allora, mia nonna aveva fama di essere una maga, in senso buono. Tutti si recavano a lei per consigli e forse anche per fatture a fin di bene. Ne ho approfittato anch'io. - Ma guarda tu! La Miriam svolgeva i compiti in classe sotto l'influsso benefico di una maga! - disse il professor Natali. - Non so se ci fosse l'influsso benefico di mia nonna, quando svolgevo un compito in classe - confessò l'Alfieri. - Ma ha sempre funzionato. E anche voi ne avete approfittato, quando vi passavo i compiti di latino, di greco o di matematica. Non ve l'aspettavate, eh, di scoprire oggi di aver preso molte sufficienze per opera di magia! - contrattaccò Miriam, sorridendo a sua volta. - E tua nonna, - chiese Marta in tono scherzoso, - non ti ha mai svelato qualche segreto o lasciato qualche filtro magico? - Tu scherzi, Marta, ma la stessa domanda me la pose la Zinni quando le confessai di mia nonna e di credere nella magia. Ma lasciatemi continuare la storia. Dopo aver risposto alla sua domanda, Laura mi porse una cartolina. C'era lei ritratta vicino alla bicicletta col caschetto protettivo e il volto sorridente. Una di quelle cartoline solitamente distribuite dagli atleti ai loro fans. - L'ho trovata in camera mia, dentro una borsetta dove tengo le solite cose come pinzette, forbicine, rossetto eccetera. Non ho mai messo in quella borsetta le mie foto da firmare per darle agli ammiratori, Guardala attentamente! La presi, la osservai alla luce di un abat-jour e notai subito la presenza di un minuscolo forellino su ogni gamba della Zinni come se qualcuno si fosse divertito a bucare la foto con uno spillo. - Hai visto? Qualcuno mi "ha spillata" come nelle fatture più classiche. E dove si trovano i buchi? Nelle mie gambe. Non ti sembra una strana coincidenza? Per tutto il giro io ho continuamente avvertito dolori alle gambe solo durante la corsa, quando ero in fuga, e mai quando mi trovavo in mezzo al plotone o dopo la corsa. Prima di venire da te ho ragionato a lungo, cercando di essere più razionale possibile e ho raggiunto una unica conclusione in cui medicina non c'entra, ma la magia forse. Qualcuno ha tutto l'interesse a verdermi perdere il Giro. Se me ne sto tranquilla in mezzo al gruppo, non mi succede nulla, ma se mi azzardo a uscire fuori e a tentare la fuga per cercare di vincere, le mie gambe si appesantiscono, quasi si svuotassero di ogni energia. - Cosa vorresti ch'io facessi? - Tua nonna, me l'hai appena detto, utilizzava la 'magia buona' per aiutare la gente. Non hai mai imparato nulla da tua nonna? - Ho appreso una sola cosa e cioè: la magia non si impara. La ‘forza magica’ benefica o malefica la devi sentire dentro di te e scoprirla da sola. - E tu l'hai mai scoperta dentro di te? - Non te lo so dire perché non l'ho mai cercata. - Io non so come porre rimedio a questa situazione, Miriam. Ti lascio la cartolina "spillata". Pensaci tu: non me la sento di interpellare qualche sedicente maga in grado di fare una controfattura. Come ti ho detto, non ci credo e il mio scetticismo potrebbe avere un effetto di disturbo. Se ne andò senza altro aggiungere, lasciandomi la cartolina sul tavolino da notte. Neanch'io sapevo cosa fare: magari mia nonna fosse stata ancora in vita! Forse lei... - “Miriam, cerca sempre e solamente in te stessa. Troverai una soluzione”. Di certo mi avrebbe ripetuto quelle parole. Ricordo di essermi distesa sul letto, di aver chiuso gli occhi in attesa di qualche ispirazione. Pensavo: Laura non ha nemici. Col suo carattere estroverso non può averne. Laura può solo essere invidiata per le sue continue vittorie, ma non odiata. Passai in rassegna tutte le altre atlete; non riuscii a trovarne una capace di aver gettato o fatto gettare una fattura su di lei. Però la cartolina e i due forellini di spillo nelle gambe erano lì a dimostrarmi il contrario. Sino a quel giorno non avevo mai pensato alla magia; non nel senso di poterla mettere in atto. Stando distesa sul letto, meditai. Se la nonna non mi aveva trasmesso alcun potere, facevo pur parte della sua discendenza e mi venne l'assurdo pensiero di essere in grado di mettere in atto qualche forma di 'magia buona' per aiutare la mia amica Laura. Cominciai a rivedere il problema, rivoltandolo da ogni lato, in attesa di una soluzione. Mi venne solamente sonno e mi addormentai. Mi svegliai quando la notte era calata da un pezzo. L'abat jour era rimasta accesa e la cartolina era lì. Tutto era rimasto immutato. Ma ora sapevo come procedere. Agii come in trance. Dalla mia borsetta in cui conservavo profumo, rossetto, smalto per unghie, trassi un paio di forbicine. Cercai un foglio di carta bianco e ritagliai un pupazzetto, una specie di sagoma umana con testa, corpo, gambe. Poi presi la cartolina con l'immagine della Zinni e, sul retro, in corrispondenza dei fori, applicai dei pezzettini di schotch adesivo, come se volessi impedire a qualcosa (fluido vitale? acido lattico, come aveva detto il dottore? forza e potenza muscolare?) di uscire e di disperdersi. Continuavo ad agire immersa in una specie di ipnosi. Presi l'immagine ritagliata e la sovrapposi alla figura della mia amica ciclista in modo da far coincidere le gambe del pupazzetto con le gambe della foto. Poi con uno spillo bucai le gambe del pupazzo. Non so come avessi pensato a quella procedura. Eseguii meccanicamente l'operazione e poi mi ridistesi sul letto e caddi in un sonno profondo. Mi svegliai il mattino seguente. La cartolina e il pupazzetto non c'erano più. Li cercai sul pavimento. Forse una improvvisa corrente d'aria li aveva fatti volar via. Non li trovai: erano completamente scomparsi. Raggiunsi Laura nella sua stanza per il massaggio pre-corsa. Né io né lei accennammo più al discorso del giorno prima. Forse ci vergognavamo entrambe di aver parlato di magia e di averci anche creduto, almeno io. Quel giorno Laura arrivò sola al traguardo, infliggendo al gruppo degli inseguitori un ritardo di otto minuti e passando al secondo posto in classifica. Nelle tappe seguenti continuò ad attaccare, rosicchiando altri minuti finché, nella penultima tappa, quella a cronometro, si riprese la maglia rosa e la portò fino al traguardo finale. Laura non avvertì più alcun dolore. Era ritornata l'atleta di sempre. Questo é tutto. - Quindi, saresti una maga? - disse Lattanzi. - Ora so dove rivolgermi in caso di bisogno. - Caro Aldo, se vieni da me potrò solo offrirti una palestra e attrezzi con cui toglierti di dosso un po' di ciccia, ma non aspettarti da me fatture. Da allora non mi sono più dilettata nell'arte della magia. Quella la lascio alla nostra amica Aracne Athena. Forse lei avrebbe potuto fornirci una spiegazione alla mia strana esperienza. - Una spiegazione potrei dartela anch'io - le rispose il dottor Silvestri. - Una spiegazione perfettamente logica e molto lontana dalla magia. Del resto l'aveva già trovata il dottore della squadra della Zinni quando parlò di acido piruvico e di acido lattico. Ora vi spiego. - Oh, Dio! Adesso non salire in cattedra, Giulio. - Dovrò pure spiegarmi in qualche modo, Marta, - rispose alla giornalista - e in medicina i termini sono codificati e precisi e io non li posso mutare. Dunque, l'acido piruvico si trova anche nei muscoli e agisce sul metabolismo dei carboidrati. Se l'acido piruvico si riduce, porta alla formazione di acido lattico. Abitualmente la presenza di quest'ultimo nel sangue è di dieci, venti milligrammi per centimetro cubico, ma sotto eccessivi sforzi e per carenza di ossigeno può salire fino a duecento milligrammi. In tale condizione la tua amica ciclista, a seguito di qualche altra causa fisica, durante i suoi tentativi di fuga e, quindi, sotto notevole sforzo, si è trovata, come suol dirsi, in 'debito di ossigeno' ed è stata ogni volta riacciuffata. La magia non c'entra e te lo dimostra un fatto lampante: non appena è rientrata in gruppo e cessato lo sforzo, il suo organismo reagiva normalmente. - E perché, in seguito, ha ripreso ad attaccare e a vincere? - Ma perché i due acidi hanno ripreso a funzionare normalmente, probabilmente in seguito alla scomparsa della causa fisica che li aveva condizionati. - Voi medici ve la cavate sempre, - fece Simone Dursi. - Ma come spieghi i due buchi presenti nella fotografia? - No ho una risposta a tutto. Ci sarà una spiegazione logica anche per quelli, sebbene lì per lì non saprei trovarla. - Potrei azzardarne una io - si offrì il padrone di casa. - L'amica di Miriam trovò la foto 'spillata' in una borsetta contenente ammennicoli vari tra cui, disse, un paio di forbicine da unghie. Non potrebbero queste essersi aperte per caso e aver incidentalmente bucato la foto? - Ma lei affermò di non aver mai messo foto in quella borsetta. Come è finita lì? E come spieghi la sparizione della foto e del pupazzetto dalla mia stanza? - Anche per questo si potrebbe azzardare una spiegazione. - A sentirti parlare, Giulio, per te i misteri non esistono, - disse Miriam atteggiando il viso ad una smorfia. - Non dar loro ascolto, Miriam, - intervenne Calonghi il quale, come nei precedenti racconti, aveva religiosamente ascoltato quello della Alfieri e seguito la discussione. - Giulio è un medico ed è scettico per natura. Non vuole ammettere l'esistenza di misteri intorno a noi. Eppure ci sono. Ne volete una prova? - Vediamo! - lo sfidò il dottor Silvestri. - Dimmi, Miriam, hai continuato a fare la massaggiatrice per la Zinni? - Per due anni: poi ho aperto la palestra e ho dovuto lasciarla in altre mani. - Quelle della precedente massaggiatrice? - No. Ma perché vuoi saperlo? - E' interessante sapere se la massaggiatrice precedente, quella licenziata dalla Zinni per qualche screzio, continuò a lavorare per altre atlete. - Per un certo tempo sì. - Era presente a quel Giro d'Italia? - Sì, era la massaggiatrice di un'altra squadra. - Ed è rimasta fino alla fine del giro? - No. Nell'ultima settimana ha abbandonato la carovana a causa di una improvvisa malattia. - Quale malattia? - Una malattia al bacino e alle gambe. Una specie di paralisi improvvisa. Oggi é costretta a muoversi in carrozzella. L'ultima frase Miriam la pronunciò a voce bassa quasi stesse meditando. - Lo immaginavo, - disse Calonghi con uno strano sorriso sulle labbra. Miriam lo guardò fissamente, a lungo, e Giovanni non distolse gli occhi dai suoi. Se entrambi pensavano stessa cosa non lo svelarono ai presenti. Ma l’Antonelli lo intuì. - Giovanni, tu vorresti insinuare, - intervenne la giornalista - che il malanno accusato dalla Zinni si sia trasferito alla sua ex massaggiatrice? Quindi, secondo te, fu la massaggiatrice a spillare la fotografia e l'operazione di Miriam fu una specie di controfattura, come una lettera restituita al mittente? - Questa è la tua conclusione, Marta. - E sorridendo, aggiunse: - Ma non una lettera restituita al mittente: una 'fattura' rinviata al mittente. Una ‘fattura’ da pagare. Al racconto della Alfieri non seguirono commenti o tentativi di spiegazione. O non ce n'erano e il mistero rimaneva o le continue libagioni non propiziavano la mente dei presenti.
- Ora tocca a te, Giovanni, - disse il dottor Silvestri. - Te ne sei stato ad ascoltare tranquillamente gli altri per tutta la sera, rannicchiato nella tua poltrona come un gattone insonnolito, anche se non hai perso una battuta dei vari racconti. Allora, finiamo in bellezza con te? - Se finirà in bellezza non lo so, Giulio. I vostri racconti, di cui siete stati protagonisti o semplici spettatori, mi hanno richiamato alla memoria un periodo immediatamente a ridosso della fine della guerra, il periodo dal quarantacinque al cinquanta, in cui faticosamente ognuno di noi cercava di ricostruirsi una vita e di dimenticare le brutture viste o subite. Ero ritornato da un campo di prigionia polacco dove mi avevano rinchiuso i tedeschi a seguito della mia fuga dalla caserma dopo l'otto settembre. Una pattuglia della Wermacht mi aveva sorpreso nella stazione di Torino. Non mi piace ricordare e ancor più parlare di quei diciotto mesi passati in una baracca in compagnia di corpi, sì di corpi, non di uomini. Lasciamo perdere. Per questo al mio rientro in Italia avevo cercato un posto appartato, se non proprio solitario, dove leccarmi le ferite in attesa della guarigione. Avevo trovato alloggio in una casa di Murano, presso un vetraio. Dopo aver conosciuto le mie peripezie in un campo di concentramento, mi aveva affittato a basso prezzo il primo piano della sua casa. Lo aveva sempre tenuto sfitto per i suoi due figli. Purtroppo non erano ritornati dalla guerra: uno era stato dato per disperso in Russia; l'altro era morto nella battaglia di El Alamein. " E io sono rimasto solo " aveva concluso, lasciandomi cadere le chiavi in mano e allontanandosi, forse per non mostrarmi gli occhi lucidi per le lacrime. Nei giorni seguenti, nonostante l'età o forse proprio a causa dell'età - io gli ricordavo i figli perduti - diventammo amici. Nane, si chiamava Giovanni come me, ma tutti lo chiamavano Nane, di mestiere faceva il vetraio o meglio, si era specializzato nella fabbricazione di specchi. Aveva il laboratorio a piano terra, adiacente ad alcune stanze dove abitava. Gli bastava aprire una porta per trovarsi sul posto di lavoro, per cui il suo orario era continuo. Nei primi tempi mi divertii a vederlo lavorare il vetro, ad inserire silice mescolata ad acidi di boro, fosforo, magnesio, piombo e altro in un forno a bacino dove il materiale, raggiunto il punto di fusione, formava una massa viscosa. Nane poi la lavorava, la plasmava, l'adattava a qualche oggetto o formava con essa piccole sculture trasparenti. Non ho mai visto nessuno trattare con tanta maestria la massa vetrosa, incandescente o soffiare il vetro attraverso una canna da soffio. Ma la sua specialità erano gli specchi. I suoi amici vetrai dicevano che conoscesse un segreto per comporre la lamina di nitrato d'argento, quella che si stende dietro un vetro per permettergli di riflettere oggetti e persone. - Non è vero niente e non c'è alcun segreto, - mi rispose ridendo il giorno in cui glielo chiesi per pura curiosità, mentre lui stava creando un vaso con pasta vetrosa di colori diversi. - Conosco il mio mestiere e lo amo, ecco tutto... Mi passi quelle pinze?... A fine guerra, non appena i miei figli fossero ritornati, avevo in progetto di allargare il laboratorio e di dedicarci tutti e tre alla fabbricazione di specchi d'ogni genere... Passami, per cortesia quella canna, no quella, l'altra. Nane non poteva starsene con le mani in mano. Discuteva con me e lavorava al tempo stesso. - Vedi, Giuseppe, ho sempre avuto fiducia nell'importanza e nella potenza dello specchio e mi sono detto: cinque anni di guerra hanno imbruttito tutti. Nessuno ride più, non si è più contenti. Non sarebbe bello se ognuno, specchiandosi al mattino, vedesse la sua immagine rifiorire, il sorriso ritornare, non più le occhiaie nere e accorgersi di riprendere l'aspetto di un tempo? Ma per notarlo occorrono gli specchi. Questo pensavo quando i miei figli erano vivi e aspettavo il loro ritorno. Un sogno svanito. A meno che... E mi guardò fisso negli occhi. Così cominciai ad imparare l'arte del vetro e non pensai più ad allontanarmi da Murano. - Poco mistero nel tuo racconto, Giovanni, - gli fece notare Lattanzi. - Aldo, Aldo, il mistero sta sempre dietro l'angolo. - E allora giriamo l'angolo - gli rispose Aldo, sistemandosi sulla poltrona. Un mattino, mentre mi insegnava come preparare la lamina argentea da spalmare sul vetro per farne una superficie riflettente e mescolava mercurio ad altri ingredienti necessari, gli chiesi, scherzando: - Perchè stavolta usi mercurio e non argento: fa parte della tua formula segreta, quella di cui tutti parlano? - Non scherzare mai, Giovanni, sui misteri di una persona. Potrebbe anche averli e tenerli segreti. - E tu ne hai uno? Nane posò la lunga canna da soffio, si asciugò il sudore dalla fronte e mi invitò all'aperto. Ci sedemmo su una panca di legno - Ti voglio raccontare un episodio, Giovanni, un episodio avvenuto poco prima che scoppiasse la guerra. I miei figli erano già sotto le armi ed io vivevo qui solo. Un giorno arrivò un motoscafo con a bordo alcuni uomini in divisa. Facevano da scorta ad un gerarca fascista. Si trattava di un pezzo grosso, un conte. Abitava in un palazzo in riva al Canal Grande. Aveva saputo della mia abilità nel fabbricare specchi e mi commissionò un grande specchio da adattare ad una cornice che già ne aveva contenuto uno, sbadatamente mandato in frantumi da un servo. Non volle sapere il costo, ma pretese una sola condizione: nella fabbricazione del nuovo specchio dovevo seguire lo stesso procedimento e usare un amalgama uguale a quello utilizzato dall'artigiano che aveva costruito lo specchio rotto. Lui, però, mi confessò di non conoscere gli ingredienti impiegati. - E allora come faccio? - gli domandai. - Ogni mobile presente nel mio palazzo - mi spiegò - è autentico ed ha una sua storia documentata, custodita tra i documenti in biblioteca. Ecco perché voglio uno specchio in tutto e per tutto simile al precedente. Le ho portato una copia fotografica del documento dell'artigiano che lo fabbricò. Si tratta di un manoscritto. Un esperto calligrafo cui sottoposi il documento non riuscì a decifrare interamente il testo. Contiene formule chimiche incomprensibili per il calligrafo. Lei, però, è del mestiere e forse riuscirà a capire qualcosa di più. Le ho anche portato dei frammenti dello specchio andato in frantumi. Dall'esame chimico della lamina argentea potrà ricavare qualche notizia utile. Per le misure si presenti a palazzo: le verrà mostrata la cornice. E mi raccomando e glielo ripeto: desidero uno specchio nuovo in tutto e per tutto simile a quello autentico. Usi tutti i materiali necessari, anche i più costosi. Non faccio questione di prezzo. Se le può essere utile, può trovare notizie sul mio specchio originale anche nel volume L'arte vetraria distinta in sette libri scritta da Antonio Neri nel 1612 a Firenze. Non stetti a tergiversare se accettare o no, perché, come sai, era quello un periodo in cui ai gerarchi fascisti non si poteva dire di no. Per cui mi affrettai ad andare a prendere le misure della cornice e mi misi a studiare la formula scritta sulla fotografia. In effetti c'era qualcosa di incomprensibile e la formula prevedeva pure ingredienti che io non avevo mai visto o sentito nominare. Inviai ad un laboratorio chimico un frammento dello specchio rotto affinché cercassero di risalire agli elementi chimici usati. Una volta ricevuta la risposta, mi misi al lavoro. Feci numerose prove e, infine, costruii lo specchio. - Risultato? - gli chiesi. - Oltre le aspettative. Prima di adattarlo alla cornice originaria, invitai il gerarca a vederlo. Venne, gli piacque moltissimo. Mi disse di lasciarlo solo e rimase a lungo assorto a contemplare la sua immagine riflessa. Non ho capito se si compiacesse di più del suo aspetto o del risultato da me ottenuto. Ritornò a contemplarlo nei due giorni seguenti e col suo motoscafo mi portò la cornice affinché portassi l'opera a compimento. Quando andai da lui per definire le modalità di consegna e di pagamento, ebbi una inaspettata sorpresa. Il conte era scomparso e nessuno sapeva dove fosse. Attesi più giorni, ma fu inutile. Della scomparsa parlarono i giornali, la radio. Furono effettuate ricerche per tutto il territorio nazionale. Svanito nel nulla. E a me rimase lo specchio. L'avevo messo in camera mia, ricoperto con un drappo perché la polvere non lo deteriorasse. Quando mi presentai ai suoi parenti per essere pagato, mi sentii rispondere che non avrebbero sostenuto la spesa perché eccessiva. Spiegai quanto il conte mi aveva ordinato; l'uso di sostanze costose, mai utilizzate prima e l'impiego da parte mia di una spesa non indifferente per acquistare i materiali necessari. Non ottenni nulla. Una sera, sconsolato, mi sedetti di fronte allo specchio e alzai il drappo per tirarmi su il morale, guardando la meraviglia fabbricata con le mie mani e col mio ingegno. Non ti posso spiegare la nitidezza del quadro davanti a me. Anche se nella stanza la luce della lampadina era fioca, lo specchio rifletteva me stesso e tutto l'ambiente alle mie spalle con un realismo stupefacente: non era una immagine, era una realtà. La stanza pareva addirittura prolungarsi nello specchio. E all'improvviso lo vidi. Se ne stava seduto su una seggiola e guardava pure lui attraverso lo specchio. Era il conte. Con un sussulto mi voltai, ma sulla seggiola alle mie spalle non c'era nessuno. Guardai nuovamente nello specchio e il conte era là: mi sorrideva e muoveva le labbra anche se io non udivo alcun suono. Non ho alcun pudore a confessartelo: mi si drizzarono i capelli e mi spaventai. Mi venne l'impulso di tirare la brocca dell'acqua contro lo specchio per distruggere la mia creazione e cancellare la visione. Ma me ne astenni all'ultimo momento e mi limitai a ricoprire la lastra col drappo. Dopo una notte passata insonne, mi alzai deciso ad andare in fondo a quel mistero. Mi recai alla Biblioteca Marciana dove altre volte avevo consultato testi sull'arte vetraria. Il conte nella sua prima visita, aveva accennato all'opera del Neri in cui il suo specchio era citato. Quell'indicazione mi aveva lasciato perplesso. Quando avevo incominciato a dedicarmi alla fabbricazione degli specchi, mi ero documentato in biblioteca e avevo appreso che la fabbricazione era iniziata in Francia nel 1665, cioè cinquant'anni dopo la pubblicazione del Neri. Come poteva sbagliarsi il conte? Come poteva il suo manoscritto con l'indicazione dell'amalgama essere anteriore? A meno che in Italia qualche artigiano non avesse scoperto un misterioso procedimento molti decenni prima. Mi interessava, quindi, sapere se il Neri era venuto a conoscenza di qualche notizia al proposito. Il Neri nella sua opera parlava di credenze antiche, secondo le quali esistevano specchi magici, capaci di catturare l'immagine di chi si specchiava e di "rubargli" l'anima e la vitalità. Entrambe, anima e vitalità, sempre secondo la credenza, venivano trasferite nel “doppio” riflesso nello specchio, con tutte le caratteristiche somatiche identiche, ma rovesciate, come, tanto per intenderci, si può notare in un negativo fotografico dove tutto ciò che “nella realtà è a destra” nell'immagine “risulta a sinistra”.. Calonghi si fermò per bere un sorso di champagne, guardò la giornalista fissarlo stranamente mentre beveva e poi riprese il racconto del suo amico vetraio. - Trovai la citazione di cui il conte mi aveva parlato. Secondo il Neri allo specchio in questione era legata una leggenda “del doppio”. La formula chimica usata per comporre l'amalgama consentiva la fabbricazione di lastre capaci di imprigionare l'energia vitale di chi si specchiava e, anche se costui moriva, lo specchio avrebbe conservato la sua energia vitale finché non fosse stato distrutto. 'Bubbole' pensai. Poi mi rammentai del conte: era venuto più e più volte a rimirarsi nello specchio prima che lo montassi nella cornice. Vi si era specchiato a lungo. Ritenni opportuno ritornare in Canal Grande, nel palazzo del conte e raccontare quello che sapevo e che avevo visto. Come mi attendevo nessuno mi credette, tranne un nipote. Si diceva fosse l'erede dello zio. Costui venne nel mio laboratorio di Murano e, come lo zio, volle essere lasciato solo nella stanza dove custodivo lo specchio. Quando, un'ora dopo, uscì, era sconvolto, pallido quasi avesse visto un fantasma. Mi assicurò l'invio di alcuni suoi servitori per ritirare lo specchio e mi saldò il conto seduta stante. Da allora non ho saputo più nulla. Ecco qual è il mio segreto. - Hai più utilizzato quella formula? - gli chiesi. Nane mi guardò, titubante. Tardò a rispondermi e poi disse: - Perché, tu avresti avuto il coraggio di riprovare? - Non lo so. Dopo quel giorno Nane non ritornò più sull'argomento e io neppure. - E il conte, venne ritrovato? - chiese Simone Dursi, ritenendo conclusa la storia. - Nane non me lo disse. E forse si pentì persino di avermi svelato il suo segreto. Ecco perché non insistetti per entrare nei dettagli. Il mese successivo partii per Roma. Dovevo prendere accordi con un gruppo di clienti circa una partita di specchi e rimanere assente da Venezia per circa una settimana, ma dopo quattro giorni ricevetti un telegramma. "Nane deceduto improvvisamente. Urge sua presenza." Presi il primo treno per Venezia e mi precipitai a Murano. Il povero Nane era stato trovato morto da un giovane apprendista vetraio assunto da poco. Questi non vedendolo venire in laboratorio per tre giorni consecutivi, aveva avvertito la polizia. Avevano dovuto sfondare l'uscio della camera e avevano trovato il vetraio, sul pavimento, esanime, di fronte ad uno specchio. Doveva essersi sentito male ed era caduto a terra. Vivendo da solo, non aveva potuto chiedere aiuto a nessuno ed era deceduto: questa la soluzione cui giunse il medico legale e la polizia. Rimasi unico padrone del laboratorio e di tutta la casa. Nane me l'aveva lasciata in eredità. Alla lettura del testamento cui partecipai solo io, in quanto il defunto non aveva eredi, il notaio mi diede pure una busta sigillata. Il mio amico gli aveva detto di consegnarmela in caso di morte improvvisa. Nane mi raccomandava di aver cura dello specchio conservato in camera sua (lo stesso davanti al quale era stato trovato cadavere) e di tenerlo sempre protetto da un drappo. La lettera si chiudeva con una frase sibillina: "Se quello vive, vivo anch'io". - E' un caso il ritrovamento del suo cadavere davanti ad uno specchio? - disse il dottor Silvestri, - Oppure la tua storia non è ancora finita. - Non è finita. Io feci quanto il povero Nane mi aveva chiesto, ma, come potete supporre, la frase sibillina continuava a ronzarmi in testa. Che cosa significava: "Se quello vive, vivo anch'io". E' cosa risaputa: se al momento del nostro trapasso non abbiamo lasciato qualcosa di tangibile, come affetti od oggetti, nessuno, dopo la nostra scomparsa, si ricorderà più di noi. Nane aveva voluto dir questo? Ma Nane aveva lasciato molte altre opere pregevoli nell'arte vetraria per le quali sarebbe stato ricordato a lungo. Che bisogno c'era dello specchio? Mi ricordai di avergli chiesto, se dopo la costruzione dello specchio per il conte, aveva riprovato a costruire un altro specchio utilizzando la formula dell'amalgama segreto. Mi aveva risposto di no, ma prima di darmi la risposta aveva titubato alquanto. Lì per lì non avevo fatto caso alla breve reticenza, ma ora, ripensandoci... Un pomeriggio di domenica, trovandomi solo in laboratorio e non avendo voglia di lavorare, decisi di andare nella stanza di Nane e di esaminare lo specchio. Io non avevo visto quello costruito per il conte e poi consegnato al nipote, ma se era simile a quello che mi trovavo di fronte, doveva essere un capolavoro. Penserete: che c'è di strano nel guardarsi in uno specchio? Ti vedi e basta. Potrei rispondervi: che differenza c'è fra un televisore e un altro? Nessuna perché trasmettono le stesse cose, ma esistono schermi e schermi. Alcuni sono meno nitidi, altri falsano il colore o conferiscono strani contorni e aloni alle figure e agli oggetti. Lo specchio di Nane davanti al quale mi ero seduto dava una visione perfetta delle cose riflesse. Sembrava far tutt'uno con la stanza ed esserne la continuazione. Vedevo alle mie spalle ogni cosa nitidamente: una poltrona, la porta della camera, la finestra, un armadio con sopra un fagiano impagliato, un tavolino... Poi rimasi paralizzato. Nello specchio vidi la porta alle mie spalle aprirsi lentamente e vidi Nane, sorridente, entrare in camera e sedersi sulla poltrona. Mi voltai di scatto. La porta era chiusa e sulla poltrona non c'era nessuno. Guardai di nuovo nello specchio e Nane era là , seduto in poltrona, sorridente. S'era acceso una sigaretta e fumava, mandando in alto buffi di fumo. Poi parlò con la sua solita voce, venata dall'accento veneziano. - Allora hai capito, Giuseppe? Come vedi, finchè vive lo specchio, anch'io vivrò . - Ma... ma... - Non dirmi di aver paura: proprio tu! Hai vissuto in un lager dove fantasmi viventi dovevano essercene molti. Vedi, ti ho mentito. Quando il nipote del conte venne per vedere lo specchio in cui io gli avevo confessato di aver visto suo zio ancora in vita, lo vidi uscire sconvolto dalla mia stanza e mi stupì la sua richiesta di voler ritirare subito lo specchio. Volevo vederci chiaro e ne costruii un altro per me. E ho così scoperto la verità. L'amalgama usato dall’antico vetraio conteneva veramente qualche cosa di magico, qualcosa in grado di creare “il doppio” di chi si specchiava. Capisci, era la possibilità di sopravvivere alla morte, non solo nel ricordo, ma anche nella realtà. Forse avevo scoperto l'immortalità, almeno finché qualcuno non avesse mandato lo specchio in frantumi. Giuseppe, quando io esco da quella porta mi ritrovo di nuovo nel mondo... - Allora, dopo la tua scomparsa , io avrei potuto vederti? - Certo, avresti potuto vedermi! Io ti ho visto più volte, ma sono sempre rimasto nascosto. Non volevo spaventarti. E come ho fatto con te così mi sono sempre nascosto quando mi sono imbattuto in qualche mio conoscente. Vedi, se il mio cuore non avesse ceduto quando, seduto davanti allo specchio, godevo della sua magia, ora potrei continuare ad utilizzare il mio “doppio” come ho fatto in questi anni. Sì, Giovanni, tu non te ne sei mai accorto, ma spesso io rimanevo confinato nello specchio mentre il mio “doppio” o se preferisci il mio fantasma prendeva il mio posto nella vita. Era un gioco bellissimo e non ne ho mai fatto partecipe nessuno. Tu non sai quanto sia piacevole! Io entro nello specchio e lui, il mio fantasma, “esce” nel mondo e viceversa. Purtroppo con la mia morte è rimasto un solo Nane e non chiedermi se sia il vero o quello ricreato dallo specchio. Fatto sta, io ora vivo nello specchio pur avendo la possibilità di uscire nella realtà e viverci per un certo tempo. Poi devo rientrare attraverso quella porta. - Quindi io... ora... - Sì, tu ora sei stato catturato come me. Ti sei specchiato e sei diventato immortale tu pure, almeno finché lo specchio rimarrà intatto. E sei anche più fortunato di me perché possiedi il tuo corpo fisico e in più hai il “doppio” dello specchio. Pensa Giuseppe: puoi "entrare", raggiungermi e stare a conversare con me, mentre il tuo "doppio" prende il tuo posto fuori dello specchio e nessuno si accorgerà di nulla. E quando anche per te sarà giunta l'ultima ora, rimarrà il tuo "doppio", costruito dalla magia di una lastra di vetro, un "doppio" incapace di morire. Ecco, questo è il mio contributo ai vostri strani racconti. - Giovanni l'immortale! - disse Lattanzi, guardando i presenti un poco scettici e stupiti. - Non riesco, caro amico, a capire se il tuo racconto è tutta una invenzione o se c'è qualche pizzico di verità. Parlando dello specchio magico, mi hai ricordato Grimilde, la perfida matrigna di Biancaneve: "Specchio, specchio delle mie brame, chi è la più bella del reame?" E lo specchio rispose. Comunque, verità o finzione, sei rimasto in tema e ci hai tenuto col fiato sospeso. - Non vedo perché, Aldo, se hai accettato i nostri racconti come veri, tu non accetti anche quello di Giovanni, - gli chiese Miriam. - Ma perché sa troppo di fiaba, una fiaba adattata alla realtà. - Tu, Aldo, non hai mai letto libri di esoterismo, - intervenne Marta. La giornalista aveva spesso raccontato su alcune riviste fatti strani legati alla magia - Te lo posso assicurare, episodi simili fanno parte di una lunga casistica che risale a secoli antecedenti la venuta di Cristo e si riferisce a popoli di tutto il mondo. - Tu, quindi, credi negli 'specchi rapitori di immagini’? - Non so nemmeno io cosa credere. Ma l'avrai osservato tu stesso: in certe regioni italiane e non solo italiane, quando qualcuno muore si pone un drappo su tutti gli specchi presenti nella stanza del defunto. Ti sei mai chiesto perchè? - Superstizioni, semplici superstizioni. - Ma le superstizioni sono come le leggende: nascono sempre dalla realtà. E l'uomo in seguito le ammanta di mistero. - Specchi ladri di immagini! - mormorò tra sé e sé Lattanzi, scuotendo il capo. - Visioni che giungono a noi dallo spazio, dal tempo e dall'ignoto! - Sei decisamente uno scettico, Aldo. E anche poco scientifico. - Che c'entra la scienza? - Non hai mai pensato che anche noi, oggi, vediamo attraverso lo spazio e il tempo? Vediamo addirittura cose accadute milioni, miliardi di anni fa. - Ma che dici, Marta! - Dico la verità. Solo che i nostri specchi non sono composti di una lastra su cui un artigiano ha steso un amalgama di mercurio o argento o piombo o chissà che altro. Gli specchi capaci di catturare oggi le immagini del passato si chiamano telescopi, radar, radiotelescopi. - Non capisco, amici, - intervenne il dottor Silvestri, - perchè vogliate sempre riportare ogni cosa nella sfera del razionale. Quando proposi ad ognuno di noi di raccontare un fatto strano, intendevo che fosse proprio strano e conservasse un pizzico della fantasia dei bambini e ci facesse accettare racconti fiabeschi senza alcun commento. D’accordo, il nostro Alberto, per movimentare la discussione, ha voluto aggiungere alla proposta una variante e cioè la possibilità di smantellare il mistero. Io stesso mi sono lasciato prendere dall’ingranaggio e spesso ho tentato di ricondurre qualche fatto di sapore fantastico al reale. Ma non era questa la mia idea iniziale. In parole semplici, volevo cercare in una notte di fine d’anno, ritenuta da molti magica, di ritornare alla fantasia di quando eravamo bambini , di ritrovarla. di riviverla. Fantasia volevo, solo fantasia! - Ben detto, Giulio! - disse il padrone di casa. - E direi di fare un brindisi alla fantasia? Mentre stappava l'ennesima bottiglia di spumante, il cicalino dell'ingresso fece sentire la sua voce. - Oddio! Un altro ritardatario! A quest'ora sarebbe il colmo. - fece Miriam, guardando il professore Natali avviarsi verso la porta. - E perché? Qualche ex compagno, non potendo, per impegni presi, venire a festeggiare la fine dell’anno vecchio si presenta per brindare a quello nuovo. Ascoltarono la voce del professor Natali e quelle di due sconosciuti provenire dall'ingresso, poi il padrone di casa venne nel salotto in compagnia di due agenti di polizia.
- Prego, accomodatevi. Gradite un bicchiere di champagne? - Per la verità siamo in servizio e non ci è permesso. - Il primo giorno dell'anno tutto è permesso, - tagliò corto il professore porgendo agli agenti due coppe. - E bevete, prima di dirmi quale crimine ho commesso e se debbo chiamare il mio avvocato prima che mi mettiate le manette - aggiunse ridendo per la battuta. Dopo aver bevuto, il più anziano dei due agenti trasse da una busta di plastica un taccuino e una matita. - Se ho ben capito, il padrone di casa, - consultò il taccuino e lesse - il professor Alberto Natali è lei, vero? - Sì, sono io - fece il professore ridiventato serio. Nessuno dei due agenti aveva reagito alla sua battuta. - Ma che è successo? - Conosce una certa...- consultò di nuovo il taccuino - una certa Aracne Athena Federici? - Perdinci se la conosco! La conosciamo tutti. E' una nostra compagna di liceo. Ma perché me lo chiede? L'agente si guardò attorno: posò gli occhi sulle bottiglie vuote, sui vassoi di panettone, di cioccolatini e gianduiotti, sui bicchieri di spumante. - Sono spiacente, professore, di essere messaggero di una spiacevole notizia. La signorina Federici ha avuto un incidente di macchina... - Oh mio Dio! - esclamò Marta. - E dove? E' ferita? - L'incidente è avvenuto ad una trentina di chilometri da qui, in località Pontescuro. E' una zona in cui la strada, tutta curve, costeggia il fiume. Con il freddo e il nevischio di questa notte si sono formate larghe chiazze ghiacciate. La macchina della vostra amica ha slittato ed è finita nella sottostante scarpata fino ad affondare col cofano sulla riva del fiume. - E Aracne, la signorina Federici, come sta? - chiese Marta. - Purtroppo è deceduta. E se questo può consolarvi, secondo il medico è morta subito dopo l'impatto. - Chi l'ha trovata? - Oh, per questo siamo stati avvertiti subito. Dietro la Simca della vostra amica c'era un'altra macchina con a bordo un veterinario e sua moglie. Sono stati loro ad avvertirci col telefonino cellulare, a chiamare una ambulanza e a prestare i primi soccorsi. Ma non c'era ormai più nulla da fare. - E come avete fatto a risalire sino a me? - chiese il professore. - Per prima cosa abbiamo cercato tra i documenti della vittima, ma la sua borsetta era caduta fuori della macchina perché nell'impatto la portiera si era spalancata. La borsetta si deve essere aperta e purtroppo il portafoglio, così si presume, deve essere scivolato fuori e portato via dall'acqua. Questo ha ritardato il riconoscimento della vittima. Abbiamo comunicato il numero della targa ai nostri uffici, ma è risultata una macchina intestata ad una società di noleggio e trovare qualche impiegato della società la notte di Capodanno è praticamente impossibile. - Non capisco ancora come siete risaliti sino a me - insistette il professor Natali. - Nella borsetta della vittima abbiamo trovato una lettera firmata da lei. Eccola, - disse, traendola dalla busta di plastica. Il professore la prese. - Sì, è la lettera con cui invitai la signorina Federici per festeggiare il Capodanno. - Era la sola traccia per sapere qualcosa di più sulla vittima e sulla sua famiglia. - Purtroppo della famiglia non posso dirle nulla. Con Aracne, la signorina Federici, non ci eravamo più visti da tempo; dai tempi del liceo e quella di questa sera era una specie di riunione di ex studenti. Io non conosco la sua famiglia, ho solo un indirizzo. Si avviò verso un secretaire, frugò in un cassetto, prese un foglio e lo consegnò all'agente. - Ecco, questo è l'indirizzo a cui scrissi per invitarla. - Professore, mi spiace doverglielo chiedere: domattina, ma che dico? Stamattina verso mezzogiorno dovrebbe passare in ospedale per identificare il cadavere. - Non preoccuparti, Aldo, - intervenne il dottor Silvestri, vedendo una smorfia sul volto dell'amico. - Non preoccuparti, verrò anch'io. La identificheremo assieme. - Poi, rivolgendosi agli agenti che si apprestavano ad andarsene, disse - Vi ringrazio per la tempestività con cui avete rintracciato il professor Natali e ci avete informati. - Tempestivi non direi. A dire il vero, - sembrò scusarsi l'agente anziano - ci stiamo interessando al caso già dalle undici di ieri sera. - Dalle undici! - esclamò il dottor Silvestri. - Ma a che ora è avvenuto l'incidente? L'agente ricorse di nuovo al suo taccuino. - Ecco, il veterinario testimone dell'incidente telefonò al 113 alle 22 e diciotto, questa è l'ora segnata sul registro del centralino. La nostra pattuglia è stata avvertita subito e siamo giunti sul luogo alle 22 e quaranta. Perché lo vuole sapere? - chiese perplesso. Poi girò lo sguardo sui presenti. Tutti quanti parevano aver ricevuto una scossa elettrica. - Perché c'è un errore di persona. La persona da voi rinvenuta cadavere in quella macchina non può essere la nostra amica Aracne. Dio sia lodato! - concluse il dottore con un sospiro di sollievo. - Come fa a dirlo? - Ma perché, - rispose il professor Natali, - la signorina Federici era qui con noi a mezzanotte. E' arrivata pochi minuti prima. Voleva brindare al vecchio anno. E' stata qui con noi fino a venti minuti dopo la mezzanotte e poi è andata via per raggiungere altri amici. - Ne siete certi? - disse perplesso l'agente. - Ci può descrivere la vittima? - chiese Miriam. - Si tratta di una donna di quarantacinque, cinquanta anni, alta circa un metro e settanta, capelli biondi, tinti; la faccia molto truccata. Aveva addosso una pelliccia lunga fino ai piedi. L'aveva ancora addosso quando siamo arrivati: pendeva fuori della portiera e strisciava nel fango. Mentre faceva la sua descrizione, il sollievo poco prima apparso sul volto dei presenti, ridivenne ansia, perplessità, dubbio, dolore. L'agente, infatti, descriveva esattamente Aracne così come era apparsa a loro quella sera, una Aracne - l'agente lo asseriva e nessuno poteva dubitarne - da lui vista morta alle 22 e 40 della sera precedente. - Di che colore era la pelliccia? - domandò Dursi. Già immaginava la risposta. - Questo posso dirglielo io - intervenne l'altro agente, quello più giovane. Sino ad allora non aveva aperto bocca. - L'ho portata io nell'ambulanza. Il medico gliela aveva tolta per visitarla. Il colore mi ha colpito perché era strano. Non avevo mai visto un colore simile: era rosso cupo. - E poi, professore, - riprese l'agente anziano, - c'era la borsetta... - frugò nella busta di pelle e la trasse fuori. Una borsetta da sera, con strass umidi e sporchi di fango. Non riflettevano più la luce del lampadario, come era accaduto quando, a mezzanotte, tutti l'avevano vista tra le mani di Aracne, mentre piroettava felice nella stanza. - ... e dentro c'era la sua lettera, professore. Come fate a dire che non si tratta della stessa persona e a sostenere la sua presenza qui a mezzanotte? L'agente guardò di nuovo le numerose bottiglie vuote e disse: - Forse vi confondete. Comunque, professore, l'attendo a mezzogiorno per l'identificazione e anche lei, dottore. Avremo modo in seguito di chiarire i particolari dell'accaduto. I due agenti si diressero verso la porta, accompagnati dal padrone di casa. Nel salotto il silenzio durò a lungo, mentre gli sguardi si incrociavano nella vana speranza di trovare una spiegazione. - E così anche Aracne ci ha raccontato la sua strana storia - disse d'un tratto Dursi. - Non ce l'ha raccontata: ce l'ha addirittura fatta vivere, facendoci diventare da semplici ascoltatori dei protagonisti, - aggiunse Miriam. E continuò: - Non so se qualcuno di voi l'ha osservato, ma quando Aracne si è presentata con la sua assurda pelliccia, ho notato l'orlo inferiore macchiato di fango. "Allora non sono stata io la sola ad accorgermene" pensò Marta. - Io sono rimasto colpito da un altro particolare - intervenne Aldo Lattanzi. - Non vi è sembrato strano che, nonostante la sua vitalità e la sua voglia di strafare, Aracne avesse freddo? Non si è mai tolta la pelliccia e qui la temperatura non è affatto bassa. Se n'è stata sempre vicino al camino... - Hai ragione, Aldo, - disse Simone Dursi. - C'è stato un momento in cui, subito dopo lo scambio del bacio di augurio e poco prima della sua uscita, Aracne s'è messa addirittura di fronte al camino, allargando la pelliccia quasi volesse raccogliere tutto il calore possibile e poi se l'è stretta al corpo. - E cosa vorresti dire con questo? - Non lo so. Se ha ragione l'agente, in quel momento lei era già un cadavere... - Diciamolo apertamente, tutti voi state pensando che l'Aracne venuta qui stasera non era lei, ma il suo fantasma, perché la vera Aracne, molto prima della mezzanotte, giaceva morta in riva al fiume. Secondo voi stava venendo qui in auto per partecipare alla riunione e, nonostante l'incidente e la sua morte, è venuta lo stesso sotto forma di fantasma per salutarci un'ultima volta? Pensate sia così? - Perchè, tu no? Il dottor Silvestri scosse le spalle e non rispose. - Io, - disse Miriam, quasi parlando a se stessa, - trovo strane le sue parole di commiato. Ve le ricordate? "Son passati trent'anni dall'ultimo nostro incontro. Mi auguro di vedervi fra altri trenta... ma che dico, meglio sessanta per brindare ancora". Mi è sembrato uno strano augurio: perché vederci fra trenta o meglio ancora sessanta anni? Sarebbe stato più logico se avesse detto fra qualche mese o qualche anno, non trovate? - Quello, cara Miriam, - disse il professor Natali, parlando a voce bassa, quasi avesse un nodo in gola. - Quello è stato il più bell'augurio che Aracne potesse farci. Se era lei, ritornata da chissà quale dimensione per poterci rivedere, pensateci bene, ci ha augurato di vivere ancora non per altri trenta, ma per altri sessanta anni, prima di raggiungerla e di poter nuovamente brindare in quella dimensione in cui adesso si trova. Grazie, Aracne. E il professor Natali si voltò a fissare le braci che stavano morendo nel camino. La riunione era finita. Ognuno si apprestò a salutare il padrone di casa e si allontanò nella notte. L'ultima a partire fu Marta la giornalista - Grazie per la serata, Alberto. Non so dirti se sia stata bella o brutta: singolare direi. Ma non so se un'altra volta accetterò il tuo invito. Dopo la mia avventura jugoslava, è questa la mia seconda notte passata in compagnia di fantasmi. Due notti simili in una vita bastano. - Perdonami, Marta, ma non potevo immaginare che alla riunione di stasera si presentassero anche due fantasmi. - Allora te ne sei accorto anche tu che erano due! Aracne e Giovanni, - disse sorridendo la giornalista. - E come potevo non accorgermene. Giovanni Calonghi è stato mio compagno di banco al liceo. Conoscevo il suo carattere e, nonostante la prigionia cui ha fatto cenno nel suo racconto,- un racconto vero e non una favola come ha ritenuto Silvestri - non poteva aver perso lo smalto di un tempo. Rammenti la sua vitalità? E ricordi come era brillante in ginnastica? E' stato lui a farci vincere la gara atletica contro quelli del liceo scientifico. Furono i suoi lanci col disco e col giavellotto a darci la vittoria. Lo rivedo ancora quando afferrava l'attrezzo con la mano destra e lo scagliava. - L'hai notato? - Sì, l'ho notato. L'ho notato subito, non appena è arrivato e mi ha teso la mano sinistra; e poi, per tutta la sera ha sempre usato la mano sinistra per bere o mangiare. GIOVANNI NON ERA MANCINO. - Come il "doppio" di uno specchio? - Sì, proprio come il "doppio" di uno specchio. Chissà come ha trascorso la notte di Capodanno il vero Giovanni. Si guardarono anche loro nella specchiera sistemata vicino alla porta, in prossimità dell'attaccapanni e videro le loro immagini che, a loro volta, li stavano guardando dallo specchio. Con un'unica differenza: le due figure dello specchio erano, rispetto a loro, rovesciate. Marta, stando nel corridoio alla sinistra del suo amico Alberto, guardava nello specchio la sua immagine. Una Marta che la fissava, stando però alla destra del suo amico Alberto. - Strana proprietà quella degli specchi, - disse il professor Natali, porgendo la mano alla giornalista. Apri l'uscio e la guardò allontanarsi in mezzo al nevischio.
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