PARTE PRIMA

                                 

LA STORIA

                                                                                                          

Compresa in un triangolo che ha per vertici Dolceacqua, Pigna e  Apricale,  il paese  di Isolabona ha  vissuto la sua  storia in sordina,  all'ombra  delle  vicende  altrui,  emergendone  solo a tratti. Girolamo Rossi, ad esempio, nel suo volume Storia del Marchesato  di  Dolceacqua, ricordando una incursione saracena contro Pigna, terminata con la cacciata degli incursori (evento un tempo annualmente ricordato dai Pignaschi il 4 ottobre, S. Tiberio con processioni e feste), non accenna minimamente a Isolabona, sebbene il paese si trovasse lungo il percorso del torrente Nervia, unica via per Pigna. Tale dimenticanza è, con ogni probabilità, da  attribuirsi  al  fatto  che il  paese  ancora  non esisteva  o era formato  da  qualche capanna  sparsa  nel verde,   abitata  da agricoltori e pastori, la cui povertà  non faceva gola  a  nessuno o ancora al fatto che le scarse abitazioni, trovandosi sulla sponda opposta alla strada per Pigna, erano difese naturalmente dal torrente Nervia. Anche in seguito le notizie sul paese seguitarono ad essere scarse e a confondersi con quelle dei paesi viciniori, in particolare Dolceacqua e Apricale, ai quali  fu politicamente legata.

A parte  il paese con le sue case in pietra, le sue strade strette, sormontate da archi antisismici che sembrano legare e al tempo stesso puntellare le case une alle altre, una fontana risalente alla fine del Quattrocento e alcuni manufatti fatiscenti o in rovina, costruiti a poca distanza dal paese, non rimane altro. Tra questi i resti di una cartiera che fu di proprietà dei Doria.

Ricorda il Briquet nei suoi scritti che la carta prodotta usava la stessa filigrana di quella fabbricata a Genova, raffigurante un guanto sormontato da una stella. Oggi della fabbrica esistono solo pietre sconnesse, resti di mura ricoperte di edera e nulla più, tranne il ricordo rimasto nel toponimo della zona: Papéira , dal francese ‘papier’ (carta).

Altre vestigia del passato, oggi restaurate e riportate all’antico splendore, sono la chiesa parrocchiale di Santa Maria Maddalena, eretta a parrocchia nel 1641 dal vescovo Gavotti. Girolamo Rossi ricorda che l’avvenimento fu celebrato in distici latini dal poeta di Triora Gio Battista Faraldi.

Altra chiesa, oggi considerata monumento artistico, è il Santuario di Nostra Donna delle Grazie, affrescata dal pennello di Michelangelo Cambiaso con scene che raffigurano l’albero genealogico dei Re di Giuda.

Da non dimenticare la vetusta chiesetta di Sanzäne (San Giovanni) all’interno del cimitero e quella poco distante di S.Rocco, di fattura assai più recente, oggi abbandonata alle incurie del tempo.

Dal punto di vista storico occorre ricordare la mole del Castello Doria che sovrasta il paese, restaurata di recente a cura della Regione e adibita a sede di manifestazioni culturali, tra cui il Festival Internazionale delle Arpe.

La prima notizia storica dell’esistenza del paese si ricava da un documento risalente al dicembre del 1220, citato nella Historiae Patriae Monumenta, Liber Jurium I, in cui si parla di Isolabona menzionandola sotto il nome di Castellum. Fu quello il periodo in cui i paesi di Apricale, Baiardo, Pigna, Isolabona e Perinaldo (Dolceacqua esclusa) parteciparono alla guerra tra Ventimiglia e Genova. Tali paesi si schierarono dalla parte di Ventimiglia, inviando viveri e uomini.  Vinta la guerra dai Genovesi,  Apricale nel 1222 dovette pagare vecchi tributi  che  da anni non aveva più corrisposto e, probabilmente, Isolabona dovette subire la stessa sorte.

Il  primo documento certo risale al periodo in cui Oberto Doria, ponendo fine al dominio dei Conti di  Ventimiglia,  divenne signore  di Apricale. Tale documento, leggiamo nel volume Apricale di  Nilo Calvini e Marco Cassini, "è quello del 3 gennaio 1287 che ci tramanda l'unione del comune di Apricale con quello di Isola. Il Doria,  insieme alle  autorità   comunali, Giovanni  de Carogia podestà di Apricale, Raimondo Fiore, Ottone Giudice, Rinaldo Grana rettori e  Raimondo  Mazaiboi  rettore  e  sindaco  generale  di Apricale, tutti riuniti, dichiarano che gli uomini  di  Isolabona, tanto  presenti quanto futuri, saranno trattati come  abitanti di  Apricale e dovranno essere considerati come abitanti di Apricale.

Gli uomini di Isola dovranno obbedire al podestà  e ai consoli nominati  dal  signore  di Apricale come  faranno gli uomini di Apricale; rispettare le consuetudini e i capitoli cioè la Statuto, che usano gli uomini di Apricale. I due paesi faranno corpo unico; le  convenzioni che gli  uomini di Apricale hanno col signore di Apricale serviranno anche per gli uomini di Isolabona. 

La   curia  resterà   quella  di  Apricale,  gli  abitanti  di  Isolabona pagheranno le loro tasse al signore di Apricale

Il  patto  di  unione fu  giurato  da  tutto  il  Parlamento, radunato nella chiesa di S. Maria di Apricale e redatto dal notaio Nicolosio  Falaca."  (Da  documenti raccolti  dal  notaio  Lorenzo   Borfiga nel sec. XVIII).

L'unione non risultò, in ogni modo, felice perché discordie per i confini,  per  le  zone di  pastorizia,  per  i terreni  irrigui e destinati  ad orto del fondovalle  dove scorre il Rio  Merdanzo (o Mandacio)  non tardarono a scoppiare. In una struttura dedita alla pastorizia e alla forzata agricoltura di poche zone strappate alle colline circostanti, le limitate zone destinate al pascolo e, per il paese di Apricale, arroccato in cima ad un colle, la scarsità dell'acqua, provocavano di frequente sconfinamenti, rappresaglie, abigeati e vere lotte tra contadini e pastori di entrambi i paesi.

Per  avere un quadro delle discordie continue si rimanda alla  lettura del capitolo IV, (pp. 134-140) del volume Apricale di  N.Calvini  e M.Cassini da cui si ricava un panorama indicativo delle controversie che finirono di fronte a giudici e notai.

“A queste discordie interne si aggiungevano questioni di  ordine  politico. Anche nella valle i comuni si divisero, come nel resto  del  paese,  nei  due  partiti  di  Guelfi e  Ghibellini  e dovettero seguire le vicende  interne  della famiglia  Doria (di parte di  Dolceacqua, Perinaldo  e Apricale/Isolabona, il feudo passò al figlio Andreolo e da costui al figlio Domenico. Quest’ultimo non prese parte attiva contro i comuni Guelfi di Pigna, Rocchetta e Buggio, contrariamente al figlio Morruele che operò con ferocia contro il nemico. Si dice che un guelfo ebbe da lui il naso mozzo solo per aver pascolato le greggi   nella sua proprietà.

Durante  il suo dominio Morruele nel 1345 divise il feudo col fratello Oliviero cui affidò  la preminenza su Apricale e il titolo di  "condominus  Apricalis" e  ovviamente  anche di  "condomino di Isolabona" dato che i due paesi erano strettamente legati.”

Quelli furono anni contrassegnati da guerre intestine e  da carestie.   Terribili   dovettero   essere per la popolazione l'alluvione  del 1330 in cui  cadde tanta acqua da  far marcire le sementi affidate alla terra, e quelle successive del 1345  e 1346 che ebbero analogo esito. Ad aggravare la situazione si manifestò in  quegli  anni tra  i gallinacei un  morbo che contagiò  anche i  lattanti, molti dei quali morirono.

Nel 1323 si ebbe, invece, una siccità che perdurò per oltre otto mesi, facendo seccare erbe, raccolti e vanificando il lavoro nei campi. A questa si aggiunse nel 1339 un’invasione di locuste, portate forse dall’Africa da forti correnti aeree, le quali divorarono foglie e fiori rendendo gli alberi scheletriti.

 A tali calamità naturali si aggiunse la terribile peste del 1348 che colpì tutta la Liguria, e non solo essa, e che per decenni lasciò nella popolazione conseguenze terribili. I valligiani indeboliti nei loro animi e impoveriti nelle loro ricchezze non ebbero la forza di contrastare la via ad un tiranno nella persona di Imperiale Doria. Costui riuscì ad ottenere il giuramento di vassallaggio dagli abitanti di Dolceacqua e si arrogò il  diritto di  eleggere uno dei due  consoli e di trasmettere  le signorie ai figli. Da allora ruberie, vessazioni, uccisioni si estesero  in tutta  la valle.

Rocchetta, per  aver cercato di resistere,  venne  distrutta.

Qualche anno appresso,  nel 1356,  anche Apricale fu assalita da milizie angioine cui si erano aggiunte forze di Pigna e di Rocchetta. Furono razziati greggi e armenti, rovinate  molte coltivazioni.  A Isolabona non  toccò  tale sorte  perchè riuscì  a preparare  per tempo le sue difese. Non poté, comunque, evitare di veder bruciate e devastate le terre circostanti.

Una tregua tra i comuni si ebbe nel 1362  per  intercessione di Raniero Grimaldi di Monaco, ma durò poco. Imperiale riprese con la sua politica tirannica finché non fu cacciato a furor di popolo. In seguito ritornò solo accettando ogni compromesso con gli abitanti dei vari comuni. In quel periodo fu firmata anche la pace fra Guelfi e Ghibellini (24 marzo 1365) “in territorium Pignae inter dictum territorium et territorium Castrifranchi ad pontem  et  prope fontem  Languipugii."  come scrive  P. Gioffredo  nella sua Storia delle Alpi Marittime.

A  Imperiale successe Enrichetto Doria che con un’abile politica seppe tenersi amici i vari comuni della valle. A  lui  si deve  un  testo  di Statuto  per  Apricale  e Isolabona  in cui si attesta  la sua volontà di  favorire la vendita del  vino prodotto nel  feudo e di  esenzione da gabelle  e pedaggi vari.  Per questo suo interessamento gli abitanti di Apricale (e ovviamente anche Isolabona)  gli concessero la  bandita di "oltre  Nervia" con  una formula capestro di cui i firmatari forse non si resero conto al momento e cioè la concessione veniva fatta con  "irrevocabili donatione  et remissione inter  vivos que de cetero revocari non possit” vale a dire per sempre. In detta bandita che si estendeva oltre il Nervia fino a “Veonexi et Marcore olim vocati montis Communis Apricali et hominum Pignae” i Doria avevano diritto di vendere l’erba e di pascolare greggi. I confini della bandita erano il territorio di Dolceacqua, Rocchetta, Pigna, Saorgio,

In quel periodo la politica dei Doria sembrò portare un certo benessere nella valle tanto da spingere i comuni ad esaminare la possibilità di una pacificazione generale in merito a discordie, vendette private, rappresaglie. È del 5 gennaio 1409 una deliberazione dei comuni di Apricale/Isolabona, Ventimiglia, Dolceacqua e Perinaldo per raggiungere un accordo circa le rappresaglie. Il 22 marzo 1473, riferisce N.Calvini nel volume Apricale, si radunarono rappresentanti di Dolceacqua, di Apricale, di Perinaldo, di Isolabona (nelle persone di Giorgio Garino e Filippo Viciano) e il sindaco di Briga, per decidere che  nessun abitante dei detti comuni potesse essere arrestato per debiti nel territorio di Briga e viceversa; del 20 aprile 1479  è la  decisione tra i comuni di Dolceacqua, Apricale-Isolabona,  Perinaldo, Sospel di sospendere ogni rappresaglia, di vivere da buoni  vicini  e di  procedere   per  vie  legali  in   caso  di controversie; analogo documento venne verbalizzato il 3 luglio 1492  tra  gli stessi  comuni della Val  Nervia e il  Vicariato di Ventimiglia e della Valle Lantosca.

 Sembrava  che  la  vita lungo  il  Nervia  avesse un  poco di respiro   e   cominciasse   a   prosperare,   sennonché   le   mire  espansionistiche di Bartolomeo Doria, nipote di Enrichetto, lo portarono ad aspirare al Principato di suo zio, Luciano Grimaldi, signore di Monaco. La parte iniziale dell’operazione (1523) sembrò favorire il Doria che riuscì ad uccidere lo zio con 32 pugnalate, ma alla pronta reazione dei Grimaldi, dovette desistere e fuggire. Rifugiatosi nel suo castello di Dolceacqua,  subì  l'assedio  posto da  un spedizione armata  organizzata dal vescovo   di  Grasse,  Agostino  Grimaldi,  fratello  dell'ucciso.  Bartolomeo, dopo aver resistito a lungo, abbandonò  Dolceacqua e si rifugiò prima ad Apricale e dopo in Francia. Il comune di Apricale fu semidistrutto mentre vaste devastazioni subirono i territori limitrofi, Isolabona compresa.

Nell’ottobre del 1523 il feudo venne posto sotto il comando di Bartolomeo Grimaldi che, nello stesso anno, ottenne il giuramento di fedeltà dei comuni di Dolceacqua, Perinaldo e Apricale/Isolabona. Detto giuramento ebbe luogo il 3 novembre del  1523 a Monaco, nel giardino degli  aranci, dove il  prelato aveva  fatto collocare  il suo seggio, evitando, così scrive il Rossi, di usare il salone del consiglio dove era avvenuta l'uccisione  di  Luciano   Grimaldi.

Per  Isolabona  erano presenti  i  sindaci Bernardo  Noaro  e Antonio  Borfiga. Tutti  giurarono omaggio e  fedeltà  e, in ginocchio, dichiararono pure al prelato di riconoscere la signoria su Monaco, Mentone, Roccabruna, Dolceacqua, Perinaldo Apricale e Isolabona.

Quale Capitano Luogotenente del vescovo venne inviato a Dolceacqua Bartolomeo Grimaldi che subentrò nei diritti che erano stati dei Doria. Val la pena a questo punto, per meglio puntualizzare in che cosa consistevano i diritti feudali che gravavano sulle popolazioni, riassumere (data la sua lunghezza) ed estrapolare per il solo comune di Isolabona, alcune indicazioni che Nilo Calvini riporta con cura nel, volume Apricale (p.71).

Al Marchese di Dolceacqua erano riconosciuti i seguenti diritti:

- la decima sul grano consistente in “cinque salmate e mezza e meturali sette”; più la decima vino “sino alla somma di dieci salmate e non più a ragione di cinque pinte per  salmata”:

- la quarta parte di quanto percepivano i consoli per la loro attività sulle cause civili;

- aveva l’autorità sulle cause criminali fino alla condanna a morte;

- aveva la giurisdizione sulle acque e nessuno poteva costruire mulini o frantoi. I contadini avevano l’obbligo di macinare olive e grano solo nei mulini appartenenti al feudatario;

- donazione annuale di £.5 genovine in occasione della festa di Santa Lucia;

- obbligo triennale della Comunità di presentare a Natale due castrati, mentre i Consoli, i Sindaci, il Capitano delle Milizie dovevano portare volatili a discrezione.   In quell’occasione venivano invitati a colazione dal Marchese;

- obbligo per la Comunità di offrire a Pasqua  due capretti, mentre gli Ufficiali dovevano portare     uova a discrezione. Alla Maddalena l’obbligo era di 6 polli, 50 uova, due “cavagnole” di ricotta... e l’invito a colazione per le autorità locali:

- i macellai dovevano offrire ogni anno “due rubbi di grascia e due ossi... mediante pagamento di un soldo di Genova per ogni libra di detta grascia e soldi otto di dettamoneta per osso”;

- ai possessori di bestie “assenine o mulatine” [asini e muli] era fatto obbligo di portare “una salmata legne per cad’uno” nelle feste di Natale “mediante la mercede di sei panid’orzo per le bestie assenine e otto per le mulatine”;

- obbligo di lavoro nei possedimenti del feudatario con la paga di 11 soldi di Genova o con l’ammenda di uno scudo di multa in caso di disubbidienza;

- diritto a far legna in  tutti i boschi.

 

A questo lungo elenco di obblighi segue, nel documento, la lista dei possedimenti (fabbricati e terreni) del Marchese:

- Un castello (allora già in cattivo stato);

- due frantoi con un “gombo” per frantoio:

- un mulino con tre macine cui debbono far capo i produttori di granaglie di Isolabona e Apricale, “pagando di sedici uno”;

- una casa consistente in una stalla, due stanze al primo piano, situate sopra “all’intrata della crotta del ponte di detto luogo, confinanti nella parte superiore con Gio Batta Noaro, di fianco verso nord e verso sud con Antonio Veziano Debada e a est con gli eredi di Bernardino Boero”;

- una terra con orto e alberi in località Pian della Noce “confinante in testa una fascia di longo in  longo et una rippa della Comunità di Isola con la strada pubblica al di sopra di esse, di sotto il bedale de mulini, e nella fine di essi altra pezza di fascia della casa et altri particolari di detto luogo confinanti al di sovra di detto bedale”;

- Un prato nella zona Morinella;

- un prato alla Paperera con la Paperera [fabbrica della carta] compresa;

- una stanza vicino al Merdanzo, “sotto le lobbie della Comunità confinante con altra stalla di Maestro Antonio Cassini”;

- un castagneto in Altomoro e un terreno a Gunté.

 

Con la cacciata di Bartolomeo Doria e con l’insediamento dei Grimaldi, sembrò che i Doria non potessero più porre piede nella Val Nervia, ma l’ammiraglio Andrea Doria, passato dalla Francia alla Spagna, chiese ed ottenne dal sovrano spagnolo di annullare ogni atto contro il suo congiunto e di restituirgli il feudo di Dolceacqua. Il che avvenne nel luglio del 1524.

Il dominio dei Doria continuò così ancora per decenni e al governo del feudo si avvicendarono Imperiale Doria, suo fratello Stefano, Giulio Doria e un altro Imperiale.

Fu durante la reggenza  feudale di Stefano Doria  che  avvenne la scissione dei comuni di Apricale e di Isolabona, rimasti amministrativamente uniti per 287 anni. Il 3 settembre del  1573 il notaio Bartolomeo Giraldi di Genova stese l'atto di divisione nel  castello di  Dolceacqua.  Le   trattative  erano  state prima  condotte dal Parlamento di Apricale nelle persone di Ludovico Fiore, Bernardo Martini, G.B. Viale e G.B. Cassini e dal Parlamento di  Isolabona nelle  persone  di  Pietro  Boero, Battista Cane, Domenico Cane, Francesco Borfiga, Battista Anfosso, Gio Maria Liberale, Giacomo Cane, Bartolomeo Martini.

Al comune di Isolabona competeva pagare a Stefano Doria, dazi, mutui, collette, stipendi e altri oneri pubblici e privati, per un terzo,  mentre  i  rimanenti due  terzi  spettavano  al comune  di Apricale. Il territorio sino ad allora in comune veniva attribuito per due terzi ad Apricale e per un terzo a Isolabona. Ogni privato manteneva il possesso della sua proprietà  anche se questa veniva a trovarsi  nell'altro  comune e  non era tenuto  a pagare a  questo alcuna  tassa gravante sul terreno. I campari di Apricale e quelli di  Isolabona dovevano sorvegliare  le terre appartenenti  al loro comuni, anche se queste appartenevano  a  residenti  nell'altro comune.  Ognuno poteva portare  armenti e attrezzi  nelle  proprie terre. Eventuali danni dovevano essere valutati dai campari  o  da periti secondo gli Statuti del luogo su cui il danno era avvenuto.

Come già  era accaduto all'atto dell'unione dei due comuni, la divisione  non portò  certo la pace perchè sorsero subito questioni e  controversie  sulle quali  l'accordo precedente non  era  stato chiaro. Ancora quattro anni  dopo la divisione, Stefano Doria doveva intervenire per dirimere reciproche accuse.

Alla  fine del  secolo, secondo quanto si  legge  in atti dell’Archivio di Apricale, sorse ad esempio la questione sollevata dagli abitanti di Apricale i quali accusavano quelli di Isolabona di tenere chiuse le porte di accesso al paese, impedendo agli apricalesi di accedere ai loro mulini, alle loro case e nuocendo al loro commercio. Il giurista Bertinio Gugliotti, rifacendosi ad un periodo antecedente in cui le porte rimanevano sempre aperte, diede ragione agli abitanti di Apricale. “A questo consulto - scrive N.Calvini - è da collegare la sentenza emessa il 27 agosto 1663 dal Governatore di Nizza che condannava gli Isolesi ordinando loro di tener aperte le porte del paese anche di notte.

A questa lamentela si aggiunsero pure quelle relative a diritti di pascolo, alla raccolta delle castagne e delle nocciole, nonché alla divisione del greto del torrente Nervia in merito al prelevamento di pietre che gli abitanti di Isola impedivano a quelli di Apricale. Fu pure questione di contesa il passaggio delle mandrie di Apricale attraverso la piazza della chiesa di Isolabona.

I primi decenni del XVII secolo sono contrassegnati da un evento di particolare importanza: i tentativi dei Savoia di infiltrarsi nella Val Nervia. In questo disegno furono inizialmente aiutati da Carlo Doria, che aveva promesso al Duca di Savoia di vendergli il feudo. Di Carlo Doria, uomo crudele e duro, si racconta che un notaio, non volendo sottostare all’abbietta e umiliante imposizione dello “jus primae noctis”, gli abbia sollevato contro l’intera popolazione. costringendolo alla fuga.

Dopo un breve interregno, per intercessione del  duca sabaudo Carlo Emanuele, che non aveva insistito nel programma di acquisto del feudo, Francesco Doria, col titolo di marchese, il 25 gennaio 1652 riottenne l’investitura sul feudo.  Dolceacqua passava in titolo marchionale così come Perinaldo e Isolabona.  Rocchetta passava in titolo comitale.

In  tempi successivi i Savoia tentarono di occupare per conto loro il Marchesato di Dolceacqua, ma ne furono impediti prima  da Carlo  Imperiale  Doria  e  poi  dal  figlio  Antonio   Francesco Costantino.

Nel  1672 scoppiò   la guerra  tra il  ducato di  Savoia e la Repubblica di Genova le cui fasi belliche investirono anche l’alta Val Nervia. Pigna era tenuta sotto il controllo dei sabaudi e la foce del torrente Nervia era controllata dai genovesi. Sembra che il contingente sabaudo fosse composto da 700 uomini di Perinaldo, 500 di Dolceacqua, 500 di Apricale e 300 di Isolabona,

Tale notizia concernente il contingente di Isolabona ci permette di fare una digressione di carattere demografico per verificare il numero degli abitanti del paese.

Per meglio valutare i dati che i documenti mettono a nostra disposizione, occorre risalire al documento del 3 settembre del 1573, relativo alla divisione tra le comunità di Apricale e di Isola. In esso si legge: Congregato pubblico parlamento in Ecclesia Beate Marie Magdalene Insulebone sòno campane ut moris est de mandato dominum consulum, in quo parlamento interfuerunt...” e seguono i nomi di tutti i presenti radunati in chiesa per decidere, per un totale di 84 uomini - ovviamente si trattava dei capifamiglia. Ma tale numero non comprendeva la totalità della popolazione in quanto, dopo l’ultimo nome, il notaio che scrisse il documento aggiunge: “et qui omnes faciunt ultra duas tertias partes hominum loci”.

Il che sta ad indicare che i nuclei familiari erano all’incirca 110/120, perché le decisioni erano sempre demandate al capofamiglia. Calcolando, quindi, che una famiglia tipo fosse in media composta da un minimo di cinque membri, se ne deduce che nel 1573 la popolazione di Isolabona ammontava a circa 550/600 anime.

Un successivo documento risalente al 1692 ci conferma il numero delle famiglie in precedenza ipotizzato. Si tratta di un documento in cui si parla di una riunione per discutere una questione relativa alla raccolta delle foglie morte Alla riunione avvenuta in Isolabona parteciparono 114 capi famiglia. Nell’arco di 120 anni la popolazione era rimasta costante.

Di  notevole interesse per i casati già  allora esistenti è il documento  del 1573 nel quale vengono riportati  i cognomi dei presenti:  troviamo Anfosso,  Bachialoni,  Bernardi,  Boero, Borfiga,  Cane,  Cassini, Causamilia,  Colla, Garino, Garti, Giraldi, Gno, Grillo, Liberale, Lora,   Marchetti,   Martini,   Melano,  Molinari,   Moro,  Noaro, Peitavino,  Pisani,  Planensi,  Rastelli, Testa, Tibaudo, Ugheto, Veziano.  Tra i casati più numerosi vi erano i Veziano, i Cane, i Noaro, i Borfiga, i Boero.

Da tali calcoli ne deriva che, durante le continue guerre, l’economia agricola, unico sostentamento della popolazione, doveva soffrire non poco se si considera, ad esempio che l’invio di 300 unità nelle file sabaude doveva aver lasciato in paese solo i più vecchi, le donne e i bambini. Una situazione che dovette ripercuotersi duramente sull’agricoltura e arrecare notevoli danni anche alla pastorizia, soggetta a razzie e saccheggi.

A questo si aggiungeva la continua necessità di legname da parte degli eserciti e il conseguente taglio di alberi, di pali divisori, di palizzate, operazioni che  vanificarono in breve tempo anni di paziente lavoro. Ecco perché l’inizio del XVIII secolo si presentò sotto infausti presagi i quali, negli anni successivi, si avverarono puntualmente.

Molte notizie su quanto in realtà avvenne sono ricordate nel già citato documento del notaio Lorenzo Borfiga di Isolabona, conservato presso l’Istituto di Storia Ligure di Bordighera e altre ancora nelle memorie di Gio Antonio Cane, entrambi prodighi di notizie di cronaca relative al comune.

 

1705 - Dopo  due giorni ininterrotti di pioggia il Nervia straripa all'altezza  della Cappella di  Santa Lucia (oggi  Santuario della Madonna delle Grazie), travolgendo il mulino e il forno  di  calce sottostanti.  Le acque sommersero pure  il ponte romano a  schiena d'asino che allacciava le due sponde del fiume e dava l'accesso al paese.

1708  - L'alluvione si ripete  con più violenza. Era  il mercoledì 26  settembre.  La fornace  di calce attigua  alla cappella di  S. Lucia ardeva ancora quando per le piogge insistenti che  da  due giorni  flagellavano  la  zona, le  acque  dei  torrenti Nervia  e Merdanzo si ingrossarono a dismisura. L'onda d'acqua spazzò  via la fornace, tutto il legname accumulato, distrusse  l'edificio  e spazzò via tutti gli attrezzi e arrivò a "lambeggiare  e  a serpeggiare"  sul  ponte  raggiungendo  la  fontana.  L'improvvisa ondata di piena sorprese M.Raimondo di Dolceacqua e il  figlio di Giuseppe M. Rufini di nome Francesco i quali trovarono rifugio sull’altare della cappella di S. Lucia su cui stavano in ginocchioni in attesa di soccorsi. Secondo il memorialista non solo costoro furono in pericolo di vita poiché certo Giobatta Gavino “ch’era venuto dall’America” e un suo servo “di nazione africana e moro”, sorpresi sul ponte, furono salvati con l’ausilio di funi. Tutti furono tratti in salvo. Ma strade e orti furono spazzati via e non ne rimase vestigia alcuna.

1709 -  Il 7 di gennaio, nel pomeriggio, un’ondata di gelo intenso colpisce tutta la Liguria. Molti alberi d’ulivo gelano “più li grandi che li piccoli”, tanto che occorse più di un decennio perché si ritornasse alla precedente produzione olearia.  Una notizia  del 1713 riferisce,  infatti, che avendo  germogliato gli ulivi  giovani "ed essendosi  tagliati dappertutto li  gelati", la produzione dell'olio si ridusse della metà,

1718  - Un'ondata di caldo  intenso si abbatté sulla  regione e il suo  perdurare, unito  a mancanza  di pioggia,  provocò   una  tale siccità   che  molti  frutti, tra cui uva e fichi, maturarono anzitempo. La raccolta dell’uva, che notoriamente si svolge nella seconda metà di ottobre, fu anticipata nelle prime settimane di settembre e i risultati furono scarsi. “Il prezzo del vino, ciononostante, per tutto l’anno fu di due soldi la pinta”.

Nei decenni che seguirono le calamità naturali non si contano e ad esse, nel  1720,  si  aggiunse un  breve  periodo  di  peste, limitatamente  alla  Val  Nervia , e faticosamente arginato  dalle  autorità  sanitarie.

1738 - Nell'autunno si ha un ennesimo straripamento  del  torrente Nervia.  Nuovamente  l'acqua  invade  la  chiesa  di  Santa Lucia, arrivando  fino  alla  base  dell'altare;  distrugge  ancora   una volta  il  mulino   sottostante,  trascinandosi  via  il   mugnaio Giambattista  Gorio;  oltrepassa  il ponte  a  valle, raggiungendo anche  la piazzetta della fontana costruita nel 1492; invade tutti gli orti fino al  'Ciän du Pè'  [Pian del Pero].

1767 - Il  2 gennaio  l'agricoltura,  in   particolar  modo l'olivicultura,  subisce una interruzione  a causa di  una intensa gelata che colpisce la valle e io - scrive il memorialista - “macinai in tal anno ottantacinque gombate d’olivi tutti gelati”.

1777 - Dopo piogge torrenziali durate a lungo, il Nervia straripa con un apporto d’acqua superiore alle piene precedenti. L’acqua invade la parte bassa del paese e risale per lungo tratto la Bunda, la strada principale in salita che porta alla Chiesa  di Santa  Maria Maddalena.  Tutti  gli orti vengono  allagati e  sono distrutti frantoi e mulini, nonché i 'bedali', i canali all'aperto che,  attingendo acqua da una piccola diga costruita nella  parte superiore del torrente, correndo  lungo i fianchi  dello  stesso, servivano  ad irrigare gli  orti e a  portar acqua ai  vari mulini costruiti   sul  fondo valle. A seguito dell'inondazione viene eretta sul ponte a schiena d'asino una cappelletta con  l'effigie dell'Angelo  Custode. La cappelletta  col ponte vennero  distrutti  durante l'occupazione tedesca del 1944.

Altre notizie relative alla cronaca locale si possono ricavare dal Libro di memorie, scritto da Gio Antonio Cane di Isolabona, tra le quali si legge che nel 1777, di ritorno dalla Provenza, tale Francesco Pivano, nativo di Isolabona, portò con sé alcuni bulbi di patata che seminò dopo averli tagliati a pezzi. La produzione si diffuse e contribuì al sostentamento di molte famiglie, sebbene inizialmente molti fossero restii a cibarsi di quel tubero considerato nocivo e - dobbiamo ammettere - non senza ragione se si pensa che nelle foglie e nei tuberi è presente la solanina, un alcaloide velenoso se assunto in dosi elevate.

È pure di questo periodo l’adozione di un nuovo sistema per la produzione dell’olio, ricavat6 dalle sanse, sottoposte a lavaggio. La scoperta viene attribuita a Pier Antonio Mela di Dolceacqua.

Nel frattempo altre guerre erano scoppiate, coinvolgendo tutta la zona e tra queste quella  per la successione al trono  austriaco (1740)  che vide di fronte gli eserciti gallo-ispani da una  parte e  e austro-sardi  dall'altra. Ancora una volta sia la Val  Nervia come la Val Roja ebbero molto a soffrire e ricevettero gravi  danni per la  distruzione di innumerevoli  alberi  d'ulivo, principale risorsa per quelle popolazioni.‑

Nel  1746  le forze  gallo-ispane  dovettero ritirarsi  e  le truppe  di Carlo Emanuele III,  re di Sardegna, arrivarono  fino a Dolceacqua.  Più tardi venivano  ricacciati  e tornavano  i gallo- ispani e poi nuovamente i sardi.

Un periodo caotico in cui  tutto andava  in rovina. I castelli  Doria della valle vennero  in parte abbattuti  in  quegli  anni  e  in  parte  durante  la  successiva Rivoluzione Francese.

La vita sembrò  mutare quando verso il 1790 le idee giacobine cominciarono a diffondersi nei vari comuni. A Isolabona vennero diffuse da un certo avvocato  Noaro,  ricordato   persino dall'economista  Melchiorre Gioia. Molti le accettarono, altri rimasero abbarbicati alle secolari tradizioni, timorosi di quanto i cambiamenti avrebbero potuto provocare. Episodi come la requisizione di quattro campane da parte dei francesi (1795) non si prestavano ad una supina accettazione di nuovi ideali; o come l’impiccagione di cinque uomini, tra cui i fratelli Giuseppe e Giobatta Veziano di Isolabona, avvenuta a Saorge a seguito di alcuni omicidi commessi a danno dei francesi.

Il  turbolento  periodo  che  abbraccia  la  Rivoluzione,  il periodo  napoleonico  sino  all'annessione della Liguria al Regno Sardo può per Isolabona essere seguito attraverso  un  particolare diario redatto da Gio Antonio Cane..

Nel già citato volume Apricale Nilo Calvini  accetta la  tesi  di Nino Lamboglia il quale attribuisce detto diario al "campanaro di  Apricale".   Una copia  del  diario (o forse l’originale?) fu  ritrovata nel 1992 da Alberto  Cane nella casa di Giacomino Rodini in Isolabona. Il diario porta l'intestazione  di Manoscritto di Gio Antonio Cane.  Chiunque ne sia l'autore - argomento che verrà ripreso in seguito -, da esso si ricavano notizie importanti.

 

1792 - Si parla  dell'occupazione di Nizza  da parte  dell'armata francese e di scontri con le truppe sarde nelle zone montagnose di Suan,  Mille Forche, Breglio e altre.

1794  -  Il  sei aprile l'armata francese ha invaso la valle; si è accampata a Pigna e poi si è diretta verso il colle di  Tanarda dove  ha  posto gli accampamenti. Nella valle furono requisite le bestie  da  soma per approvvigionare i soldati.

1795 - Un commissario francese requisisce tutte le  campane  delle chiese,  lasciando in Isolabona solo la più grande.  Dette campane sono trasportate a Oneglia e di lì, su navi, partono  verso  la Francia  per essere fuse. Perinaldo è stato eletto a capoluogo con dipendenza   dal  governo  installato in  Mentone.  Le  leggi  si susseguono  quasi  settimanalmente.  Una di  esse  impedisce  ogni processione; un'altra prescrive che il suono della campana avvenga solo all'Ave Maria.

Circa le campane della chiesa di S. Maria Maddalena  il  manoscritto Cane così riferisce: "Memorie delle Campane, la più vechia  che  o  veduto di mio tempo che era la grosa era stata fata nel 1642. Le altre due la mesana e la picola erano state fate dal Campanaro Cascione di Taggia nel 1732. Nel 1790 si è roto la picola il giorno della Purificazione di Maria Vergine e si è determinato di farne far quatro. Li 10 magio ha dato principio il Mastro Giuseppe Cascione di Taggia alle forme e se ne fato quatro nove e riuscite. 1794, li francesi se le anno prese anno lasciato solo la magiore in poco tempo si è rota ma se ne serviva alla bela meglio. Nel 1807 si sono fate fare torna quatro dal deto Cascione. Nel 1809 li 21 novembre nel sonar terza si è roto la grossa. Nel 1810 si è fata fare da Mastro gioani Bertordo (?) campanaro di Bagnasco fata di rubi 64: addì 2 novembre cioè il giorno de li morti”.

 

1796-97 - Il viatico ai malati viene portato di nascosto. Se qualcuno muore viene portato al Camposanto senza alcun suono di campane e senza accompagnamento.  

1798  - 10  settembre. E' giunto l'ordine  di togliere  tutte  le immagini poste sulle porte delle case private, tutte le immagini sacre dalle varie chiese e cappelle,  nonché  i  quadri.   Un commissario  avrebbe provveduto a vendere  le chiese. I priori si sono tassati per comperarle. È proibito celebrare la Messa sino al 1799.

1800 - 2 febbraio. Si riprende ad officiare la Messa  nelle varie cappelle, ma il suono delle campane e le processioni sono sempre proibite.

6 maggio. Una avanguardia di soldati tedeschi raggiunge il paese per cui si riprende a suonare la campana e si approfitta per fare una  processione  sino  alla  chiesa  di  San   Gioanni   Battista situata nel cimitero    

5 giugno. I tedeschi si ritirano; ritornano i francesi e  le  cose ritornano come prima.

               

Il  resto del diario  parla delle azioni  dell'armata tedesca che,  raggiunta  Genova,  costringe la  città  alla  resa dopo un  lungo  assedio. Ai fini  economici è  interessante  la nota in  cui  l'Autore parla del prezzo del grano, venduto a 600 lire la mina;  un pane di  4 once a 30  lire. Durante l'assedio gli abitanti dovettero mangiare ogni sorta di animali. Morirono 25.000­ persone.

1810 - Risale a tale anno una notizia che, di là dall’interesse  religioso che  riveste,  illustra   quali  fossero  le  vie  di comunicazione più veloci per  raggiungere  alcune  città  della  costiera ligure e i costi di viaggio. Si tratta del resoconto  dettagliato,  con spesa allegata, di un "Viagio fato alla città di Savona. Jo Gio Antonio e mio figlio Giuseppe" in  occasione della visita  del  papa Pio  VII.  "Siamo partiti  li 20 aprile  cioè  il  giorno di  Venerdì Santo dopo sdirnar. Siamo andati a dormire a Baiardo. La matina del Sabato Santo siamo partiti e siamo passati per Montealto e siamo andati a dormire a Vaixe in compagnia di altri particolari di Isola e di Baiardo. La matina della Domenica di Pasca abbiamo sentito la Messa e assistito alla Porcessione del S.Cristo e poi me e mio figlio siamo partiti per il Porto Morizio e siamo arivati alla messa grande. Siamo aloggiati al hoste di Barbouna. Spesa fata in questo viagio.

 

  Il sabato sdirnati a Montealto L. 1.   8
  A Vaixe cena L. 2.   4
  Domenica al Porto Morizio a sdirnar L. 2.   8
  A cena incluso il leto L. 3.   0
  Lunedì al deto Porto a sdirnar L. 2.   8
 

A cena pagato per il prete Carlo Cassin

e un altro amico   in tutto

 

L.11.   0

  Martedì fato fare il passaporto per Savona L. 2.   12
  A sdirnar a Oneglia L. 2.   0
    --------------
    L.  17.  0

                             

                                                                                          

Paesi che sono per andare a Savona da Oneglia sino in deta Savona.

A Dia, speso                                                                       L. 0.   0

Al Servo di Dian                                                                 L. 0.   0

Allo Costa deta di Michei                                                  L. 0.   16

A Lenghueglia                                                                    L. 0.   0

A Arascie                                                                            L. 0.   0

A Arbenga a cena                                                               L. 2.   8

 

Mercoledì

Al Serial                                                                              L. 0.   0

Al Borgheto di Finar                                                           L. 0.   0

A Luan                                                                                 L. 0.   0

Alla Pria                                                                              L. 1.   0

A Bosi                                                                                  L. 0.   0

A Finar a sdirnar                                                                L. 2.   8

Alla Case   di Finar                                                             L. 0.   18

A Speo torno                                                                       L. 0.   0

Jn vai                                                                                   L. 0.   0

                                                                                        -----------------

                                                                                            L. 7.   16

A  Savona a cena                                                                L. 2.   8

 

Giovedì

A sdirnar                                                                             L. 2.   8

 

Siamo andati a sentire la Messa del S.Padre Pio Settimo e quella del Cardinale e baciato il piede al S.Padre. E poi sin siamo incaminati per la strada che va alla Madona. Siamo arivati alle ore undeci. Siamo stati sino alle ore due

per ellemosina a poveri orfani                                           L. 2.   0

per una messsa                                                                   L. 1.   10

la sera a cena                                                                     L. 2.   8

 

Venerdì

Siamo andati a sentire la S.Messa del S.Pontefice e il cardinale e baciato il piede e fato benedire corone e medaglie e crocifissi i al ricolo [?] e mi à concesso la jndurgenza prenaria una vorta il mese a me e alla mia famiglia confesandosi e comunicandosi e pregando pe sua intenzione e per la paxce concordia de Principi cristiani.

Per compra di quatro corone e sei medglie e un cristeto e due croci e due ritrati del Santo padre in tutto                                                           L.6.   10

Doppo essere sirnati siamo partiti da Savona e

 siamo venuti a dormir al Serial a cena                            L. 1.   26

 

Sabato

A sdirnar a Porto Morizio                                                 L. 2.   0

A S. Lorenzo                                                                      L. 0.   0

Alla Riva di S.Steva a cena                                               L. 2.   0

               

Domenica

A sdirnar a Sanremo                                                         L. 2.   0

A cena a casa nostra

                                                                                           ---------------

                                                                                          L. 14.   14

 

1812- È questo l’anno più misero. Poveri ovunque. Nulla da mangiare. Chi possiede qualche bene è costretto a venderlo. Tutti si ingegnano a raccogliere erbe d’ogni sorta, a mescolarle  con crusca (quando si trova)  e a cuocerle per non morir  di  fame. In  aprile una libbra di  granoturco costa  5 lire  e dodici o  6   lire  la  quarta (20  litri). Ma pochi  se lo possono  permettere.     ".ho  visto poveri che dimandavano breno    [crusca] di qual si sia sorta...  se lo mangiavano cossì, sciutto come le bestie. Ho visto  degli  homini e done  e metevano pietà  di vederli ...  avevano il   color  del erba e  parevan scheletri." Nel  mese di giugno arriva  grano  dal  Piemonte  al  prezzo di  lire  10,50  la  quarta;  il  granoturco  viene venduto a  Isola a  lire  6,50. Tutti, ricchi  e poveri acquistano solo granoturco. I raccolti sono  scarsi  perchè non si era seminato abbastanza per mancanza si sementi. Settembre  fu  meno duro per  la presenza dei  fichi e delle  castagne  e  la vendemmia  fu  abbondante:  "tanti particolari  in due giornate... hanno avuto settanta o più corbin uga". Il vino si vendette a 12  lire  "la soumata" (100 litri), a 14 lire il prodotto migliore. La raccolta delle ulive e la produzione d'olio ebbe in paese un esito alternato a causa di intemperie nel periodo del Natale.

1813 - Per mancanza di soldi ogni cosa si acquista dando in cambio olio o altri  prodotti della  terra.  Una  situazione anomala  è data  dal  fatto che  quando si riesce  a vendere qualche  derrata     all'ingrosso,  l'acquirente paga con  scudi di Francia  del valore  di cinque lire o con "lironi e mesi lironi", ma, data  la  carenza  di spiccioli, "parpaiole", molti  non possono pagare i lavoratori.

I forestieri non possono  frequentare le osterie perchè gli  osti  non hanno da dare il resto. "Mi sono trovato alla  Bordighera  che  aveva portato una soumata oglio e perchè non avevo moneta  picola  non  mi potevo [rifocillare]. In fin una dona di botega mi ha dato un  pane senza conosciermi; solo che mi ha deto quarche giorno me lo pagherete"

Questa la situazione di Isolabona e dei paesi limitrofi.

Nel 1815 la  Liguria fu annessa al Regno Sardo. I Doria perdettero il feudo e i titoli nobiliari, divenendo semplici cittadini. Ciononostante essi mossero lite a Dolceacqua, Isolabona, Apricale e Perinaldo reclamando il pagamento di antichi privilegi. La Regia Camera dei Conti, con sentenza del 4 gennaio 1887, diede loro ragione e i comuni dovettero pagare, versando il 12% dell’olio prodotto, oltre alle sanse.

Altra lite per il riconoscimento di antichi privilegi avvenne tra il comune di Isolabona e il marchese Corvesi Lascaris di Gorbio per abuso di pascoli nella bandita d’Oltre Nervia. Erano gli ultimi sussulti di una nobiltà restia a rinunciare ad assurdi privilegi.

Tra i comuni, dopo secoli di liti, iniziarono rapporti più distesi e intervennero accordi per la divisione di  terre, di pascoli e di boschi. Risale al 1869  una offerta da parte del comune di Isolabona a quello di Apricale del bosco di  Osaggio  in  cambio  del territorio  di Veonixi  e della  zona della Castagna. Apricale accettò, facendo però notare che il cambio non era per loro vantaggioso e, pertanto, richiesero quale conguaglio una parte del bosco di Bunda.

L’amministrazione sabauda portò cambiamenti come l’uniformità di pesi e misure e, cosa non certo piacevole per le famiglie che si reggevano in particolar modo sul lavoro dei giovani, il servizio militare obbligatorio che veniva a togliere braccia valide al lavoro dei campi.

Per venire incontro a tali esigenze il governo applicò un espediente particolare: i giovani di leva ritenuti abili, prima di partire, estraevano a sorte un numero. Se questo era al di sopra di un numero prestabilito, ritornavano a casa; in caso contrario partivano. Fino a qualche decennio fa,  quando  qualche giovane si recava  alla visita di leva, i vecchi dicevano "U va a  tirää"  (Va a  tirare, nel senso di estrarre da un'urna). Dal  manoscritto  Cane, in seconda di  copertina si legge:

 "mio  figlio  Gio  Antonio  e  nato nel 1792.

 ‑ nel  1812 li 9  Genaro hanno dato  il biglieto del  aviso  per  la  requizisione [visita di leva] e stato amisurato in casa  del Sig. Gavin.

li 3 febraio e andato al tiraggio in Dorciaqua e ha tirato il numero 59.

Il 13 è passato al Consiglio di Reclutement in Nizza e stato rimandato.”

 

Risale al 1850 la costruzione nel fondovalle del Nervia della carrozzabile (in sostituzione dell’antica mulattiera) che collega  tutti i paesi alla costa e a Ventimiglia. Ciò agevolò i traffici verso il mare, verso il levante ligure e ancor più verso la vicina Francia. La  carrozzabile, che poi raggiunse anche il Buggio, agevolava pure i contatti col Piemonte i quali avvenivano, però, come per il passato, solo attraverso sentieri e mulattiere, collegate alle zone della vallata del Roja, Briga, Tenda, Saorgio. Oggi sono state costruite strade carrozzabili.

I contatti già stretti con la vicina Francia furono in tal modo resi più facili, perciò non v’è da stupirsi di un fatto che accadde in seguito.

Il  4 marzo  del 1818  Isolabona e altri comuni circostanti furono separati dalla provincia  di Nizza e annessi a quella di  Imperia-Oneglia e non poterono quindi prendere parte al plebiscito  del 1860 che annetteva Nizza alla Francia.

I rapporti col vicino Stato si manifestarono ancora  dopo  85 anni quando, nel maggio del  1945, a liberazione avvenuta, l'80% della popolazione, durante una consultazione, optò per una riammissione alla Francia.

Il 29 gennaio del 1945 una bandiera francese fu  issata sul campanile  mentre  molti  intonavano sulla piazza  sottostante la "Marseillaise".  L'intervento dei Carabinieri, come si legge  sul  giornale "Espoir" di Nizza del 26 gennaio, troncò sul nascere ogni manifestazione.  Una  spiegazione del fatto è da ricercarsi nei contatti plurisecolari con Nizza e la Provenza e  soprattutto  nei  profondi legami umani e familiari che si erano instaurati  fra  le popolazioni che vivevano al di qua e di là dal fiume  Roja.

Tra  le notizie  di cronaca  relative al  XIX secolo c'è  il ricordo del tremendo terremoto che scosse la regione e che provocò  gravissimi  danni.  Ne  abbiamo  una  eco  nel  Manoscritto  Cane. "Nell'anno del Signore 1887, alli 23 del mese di febbraio la matina verso le ore 5 mentre tutto il popolo in questo paese era radunato in chiesa per assistere alla S.ta messa per la benedizione delle Sacre Ceneri si è sentito un gran terremoto che ha scosso tutta la chiesa ed anche tutte le case, le aque delle fonti erano tutte torbide come polenta, è stato poco danno ringraziando Laltissimo Iddio in questo paese ma negli altri paesi sono stati danni strazianti e irreparabili a Baiardo si è allarghato tutto il paese e la chiesa vi è restato sepolto sotto le macerie 300 persone perché è cascata la vetta della detta chiesa. a Oneglia si è dichiarata inabitabile, Diano Marina si è voltato di sotto sopra restando sepolto tutti gli abbitanti, il cCstel vittorio si è tutto dirocato, e le genti sono tutte andate ad abitare chi in campagna, chi nelle barache di tavole insomma è stato una gran desolazione”.

Il XX secolo è contrassegnato dalle due guerre mondiali, intervallate dal ventennio fascista.  Il paese ha vissuto il lungo periodo seguendone le vicende alterne. Ma i danni  maggiori li subì nel 1945, quando le truppe tedesche, dopo l’8 settembre del 1944, si insediarono nei vari paesi con il compito di combattere le formazioni partigiane che si trovavano sui monti di Langan, Cima Marta, Saorgio, Marcora.

Fu un periodo oscuro, pesante per uomini, animali e cose, pesante in particolar modo per le famiglie i cui figli avevano preso la via delle montagne, dove vivevano di stenti e col pericolo dei rastrellamenti delle truppe ‘anti banditen’.

Un drammatico episodio avvenne poco prima della liberazione. Un gruppo di otto partigiani, catturato sui monti. (tra essi non vi era nessun giovane di Isola), furono condotti al cimitero di San Zane, per esservi fucilati. Non vollero salire gli scalini che portano alle vecchia chiesa, un rifiuto che voleva significare che al cimitero ci si va per visitare i morti e non per morirvi. E furono fucilati sulla strada carrozzabile che porta a Pigna, là dove, incastrata in uno di quei muretti a secco che costeggiano molte strade liguri, venne posta una lapide che dice:

 

La sera del 2.3.45

la barbarie nazifascista

inchiodò in questo luogo

l’ardente giovinezza di otto

partigiani d’Italia

Aimo Domenico di anni 17

Buggio

Pastor Attilio    “      17

Buggio

Verrando Primolino      “      21

Buggio

Pallanca Antonio    “      23

Airole

Sciutto Umberto    “      20

Cairo Montenotte

Vivaldi Benedetto    “      23

Taggia

Massa Vito    “      21 

Ripacandia Potenza

Grassi Giulio    “      21

Milano

 A.N.P.I.   Isolabona    25.4.45

 

Nell’aprile del ‘45, sotto l’incalzare delle truppe alleate che erano sbarcate in Francia al Frejus, i tedeschi si ritirarono verso il Piemonte, tagliandosi alle spalle ogni via di comunicazione. Fu in quell’occasione che i due ponti, quello vecchio di accesso al paese e quello nuovo  costruito lungo la carrozzabile di Apricale, vennero fatti saltare. Il gruppo di genieri tedeschi che fece brillare le mine si lasciò catturare dai partigiani e fu, in seguito, consegnato alle truppe alleate che occuparono la valle.

Di quei giorni è rimasto il ricordo di incruente vendette verso coloro che collaborarono con i tedeschi: volò qualche schiaffo, qualche pugno: alcune donne collaboratrici ebbero la testa rasata, ma sulla rabbia e l’ira  prevalse il buon senso e si pensò a ricostruire quanto la guerra aveva distrutto.

Il resto non ha più storia: è cronaca.

 

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