PARTE QUARTA
La tradizione e i racconti
Quando si parla della Val Nervia, quel lembo di terra che si estende da Ventimiglia alle falde del monte Toraggio, si è soliti citare i borghi di Dolceacqua, di Apricale, di Pigna, dimenticando quasi sempre Isolabona, Isolabona è un borgo medievale nato probabilmente intorno all'anno 1000. Il primo riferimento 'databile' si ricava da un documento del vicino comune di Apricale risalente al 1220, nel quale veniva definito col toponimo di Castellum. Più sicuro è, invece, il documento del 3 gennaio del 1287 in cui Isolabona legò, temporaneamente, le sue sorti al comune di Apricale. Il borgo, sorto alla confluenza di due torrenti, il Nervia e il Merdanzo, nome che tanto piacque a Italo Calvino da eleggerlo a torrente personale di un suo famoso personaggio, quel Cosimo di Rondò, protagonista di Il Barone rampante, ha maturato nel corso dei secoli tradizioni che si sono tramandate sino ai primi decenni del Novecento per poi perdere vitalità e rimanere solo come ricordo nella memoria di qualche vecchio. Radici che, dal punto di vista folkloristico si sono spezzate e, forse, non si annoderanno mai più, ma delle quali è pur sempre possibile salvarne almeno il ricordo attraverso l’uso della penna. Di molte ormai si sono perse le tracce, ma cinque di esse possono ancora essere ricostruite sul filo della memoria. Mi riferisco alla singolare manifestazione legata alle seconde nozze (ciaravügliu); alla particolare processione del Giovedì Santo; a quella ancor più singolare di San Sebastiano; alla strana tradizione del primo giorno di Quaresima, conosciuta col nome di scürotu e ad una tradizione, peraltro comune a tutti i paesi della valle, nata dopo l’annessione della Liguria al Regno Sardo e oggi totalmente scomparsa, conosciuta sotto il nome di “andä a tirää”. Di queste cinque tradizioni forse la prima, quella legata alle seconde nozze, può considerarsi ancora vitale, sebbene per la sua sporadicità e con l’introduzione del divorzio tende sempre più a sbiadire nella mente degli isolesi. Le altre quattro sono state completamente dimenticate: un oblio che, quale figlio di quella valle, non mi sento di avallare Quindi, è mio intendimento richiamarle alla memoria in un modo del tutto particolare: innanzitutto dando per ognuna di esse, e per quanto sia possibile, una spiegazione logico-storica circa la sua genesi e, poi, dedicandole un racconto (di sapore umoristico) che ruoti attorno a quel pezzo di folklore dimenticato.
U CIARAVÜGLIU
Se è vero quanto scrive Tacito a proposito dei Germani e cioè che presso quel popolo solamente le vergini si sposavano e una sola volta si compiva la speranza e il desiderio di maritarsi (De Germania, cap. XIX), dobbiamo ammettere che anche presso i Liguri, seppur a distanza di tempo, tale legge ha avuto una parte preponderante nell'ambito dell'istituto familiare se, ancor oggi, in alcuni paesi si riscontra l'avversione per le seconde nozze. Lo sfavore per le seconde nozze trova analogie in altre parti d'Italia e anche in altre parti del mondo. Presso le caste indiane dei Kurmis e dei Bant, ad esempio, le vedove che si risposavano perdevano diversi diritti tra cui quello di assistere alle cerimonie religiose. Una ragione di tale comportamento è forse da ricercarsi nel sentimento religioso che vede nei binubi degli “adulteri speciosi". Fortunatamente la legge mosaica della lapidazione per adulterio è caduta in disuso ed è stata sostituita da una azione giudiziale-pubblica che si conclude invariabilmente con una elargizione da parte dei due sposi di un quid in natura (vino, cibarie, leccornie...) quasi a risarcimento di un ipotetico danno morale alla società. Come tale uso si sia diffuso nella Liguria occidentale è assai problematico precisarlo; con ogni probabilità fu importato nel Medioevo da qualche Albigese buontempone al quale non andavano affatto a genio le teorie manichee dei catari-patari molto affini a quelle dei Germani descritti da Tacito. Nella Val Nervia questa azione giudiziale-pubblica prende il nome di "ciaravüglio", un nome, direbbe Manzoni, eteroclito e bisbetico, la cui etimologia si può far risalire al francese “charivari", che, a sua volta, come sostiene Van Gennep nel suo Manuel de folklore français, potrebbe etimologicamente risalire al greco 'carà (testa) e 'barùs' (frastornato) cioè 'stordimento mentale provocato da frastuono'. E, per la verità, durante il 'ciaravügliu' di frastuono ce n'è parecchio. Tutta l'operazione avveniva la sera stessa delle nozze oppure al ritorno dal tradizionale viaggio, poco dopo l'imbrunire. Mentre le finestre di fronte o adiacenti a quelle della casa degli sposi si riempivano di gente schiamazzante, sulla piazza principale del paese si formava un corteo, capeggiato da un banditore, u gran ciaravüglièè, cui era demandato il compito di leggere agli sposi l'accusa (il bimatrimonio per uno di essi o raramente, per entrambi), la sentenza (la fase interlocutoria del processo era inutile perché la prova era palese) e di specificare la pena che consisteva in una pubblica distribuzione di vino, cibarie, biscotti e focaccia. Per dare più solennità alla cerimonia il gran ciaravüglièè, parato a festa, si presentava a dorso di un mulo o di un asino essi pure bardati con gualdrappe. Al suo seguito uomini, donne, giovani e ragazzi armati di campanacci, padelle teglie, cembali, tamburi, trombe, barattoli vuoti e altri arnesi rumorosi con i quali davano vita ad un baccano infernale dirigendosi sotto le finestre degli sposi. Lì giunti, veniva letta la sentenza e veniva pattuita con lo sposo l'entità della condanna. Nella maggior parte dei casi le condanne venivano subito scontate, poiché i due sposi facevano buon viso a cattivo gioco; altre volte, invece, le finestre rimanevano ostinatamente chiuse, nonostante il frastuono crescesse. Se nulla veniva concesso, a mezzanotte tutto cessava per riprendere la sera appresso con clamori ancor più ampi e con un aumento delle pene da pagare. Non c’era via di scampo: la manifestazione cessava solo quando gli sposi concedevano al paese quanto veniva loro chiesto. Solo allora tutto si acquietava quasi d'incanto; il frastuono cessava e con esso cessavano anche i canti 'di fescennini ricordi’. Gli ultimi ciaravügli di cui si ha notizia sono quelli di una coppia di due vedovi e di un cittadino di Dolceacqua la cui vicenda finì persino sui giornali locali. Il vedovo si rifiutò per alcune serate di 'pagare' l'ammenda, ma alla fine dovette cedere e offrì i frutti del suo lavoro a tutti gli intervenuti. Poiché si trattava del farmacista, l’offerta consistette in emetici e lassativi, olio di fegato di merluzzo e supposte varie. L’offerta fu, ovviamente, respinta. Il farmacista ricorse allora ad un cavillo legale. Essendo divorziato e non vedovo, come prescriveva la tradizione, non riteneva che gli si dovesse fare il ciaravügliu, essendo questo limitato ai soli vedovi o vedove. La vicenda tra il divertimento generale andò avanti per alcuni giorni. Alla fine dovette piegarsi alle esigenze della tradizione.
Se nei paesi e nelle borgate liguri il processo popolare si risolveva in un simposio all’aperto, nella città di Nizza, nel 1600, il Comune pensò di tassare addirittura i vedovi e le vedove che si risposavano. Nell’Archivio comunale della città esiste un regolamento della locale polizia risalente all’8 giugno 1614 il quale disciplina la materia in occasione di feste popolari come il carnevale e altre feste o manifestazioni casuali che si verificavano durante l’anno. Il regolamento è riportato per esteso in un protocollo del Notaio Maria-Aureliano Milonis di Nizza. Nel documento si precisa che per ordine dei Consoli venivano nominate quattro classi di Priori e Abbati incaricati di vegliare sul buon ordine cittadino, sia in città che nei paesi, in occasione di feste, danze, nozze e festini. Esisteva, quindi, una classe di tutori per la nobiltà, una per la borghesia, una per gli artigiani e una per la plebe. A proposito del ciaravügliu (chiamato nel documento notarile charivari) si legge: “Il diritto del charivari è così fissato: Il nobile che passi a seconde nozze pagherà agli Abbati quattro scudi d’oro; per la dispensa dal charivari un borghese ne pagherà tre; un artigiano due; un operaio o un paesano uno. Le vedove che sposino un giovanotto sono sottoposte allo stesso pagamento. Se i due sposi sono entrambi vedovi, il pagamento sarà raddoppiato; in caso di rifiuto gli Abbati di ogni classe sono autorizzati, col permesso del Governatore e dei Consoli, ad effettuare il charivari per tre giorni consecutivi, controllando affinché non si verifichi alcun disordine. Ogni straniero che sposi una signorina, o una vedova, della città o del paese, non potrà condurre con sé la moglie senza avvertire, tre giorni prima della partenza, gli Abbati della classe alla quale appartiene, affinché questi provvedano a far accompagnare gli sposi con gli onori dovuti, In tal caso gli Abbati radunano la gioventù e nel giorno indicato, in abiti festivi, muniti di strumenti, si recano presso la casa dove alloggiano gli sposi , per accoglierli e accompagnarli in corteo fuori città, attraversando la porta designata a ciascuna classe: la Porta della Marina per la nobiltà; la Porta del Ponte per la borghesia; la Porta Pairoliera per gli artigiani; la Porta di Saint Eloi per la plebe. Il corteo ha un percorso prestabilito: sulla strada verso Villafranca, sino al mulino di Riquier; per la strada verso Cimiez e S.t Barthélemi, fino al Mulino del Bosco; sulla strada verso il Piemonte fino al Monastero di S.t Pons e su quella verso il Var sino all’Abcurator. La riva del mare servirà come limite in caso di partenza via mare. I diritti di accompagnamento sono stabiliti nella stessa misura di quelli per il charivari, in proporzione cioè ad ogni classe. In caso di rifiuto di pagamento gli Abbati, dopo aver esaurito ogni procedimento di convinzione, preso ordine dal Governatore e dai Consoli, hanno il diritto di inchiodare le porte dei renitenti e di impedire la loro uscita etc.,etc. “ Che cosa si nasconda dietro i due eccetera non è specificato
IL RACCONTO: ONORE’ E LE DONNE
In quella tiepida sera di maggio l’Osteria da Ercole, di solito affollata di contadini che intendevano concludere il magro pasto con un bicchiere di rossese o che si rinfrescavano la gola dopo un'aspra e urlata partita a morra bevendo direttamente dal fiasco, era insolitamente semideserta. La gente preferiva starsene seduta sulla soglia delle case a chiacchierare un po' di tutto, in attesa che la stanchezza del giorno la inducesse a rientrare. Solo qualche donnetta, tra le più vecchie, continuava a sferruzzare con la poca lana ricavata da quello che un tempo era stato 'il bel maglione comprato a Nizza', ora ridotto ad un piccolo gomitolo tutto nodi e completamente stinto. Gli uomini, seduti sui gradini delle vecchie, brutte case parlavano di viti, di ulivi, di semine, di sarchiature e di nient'altro. Eterni discorsi, immutabili, sempre uguali, monotoni come monotono, sempre uguale, immutabile nel tempo è quel paese con le case ammonticchiate a grappolo, abbarbicate ad uno sperone roccioso, sovrastate dal castello sbrecciato dei Doria di cui rimangono in piedi solo le enormi mura ricoperte d'edera, inutili anche se servono tutt'ora ad ospitare qualche coppietta che sommette volentieri la ragione al desiderio. In ogni caso sono inutili anche per questi amanti clandestini dato che i vari orti che circondano il paese offrono, dopo il tramonto, posti altrettanto tranquilli ed appartati. Onorato, da tutti ormai chiamato Onoré, non aveva mai frequentato il castello, se non per curiosità e gli orti gli eran sempre serviti per la raccolta di pomodori e di zucche e null’altro. Di statura non molto alta, alquanto rotondetto, con una andatura un poco traballante dovuta ai suoi enormi piedi piatti indizio di un lavoro particolare (faceva il valet de chambre all'Hotel Miramar di Beaulieu), Onoré sino all'età di trentasei anni si era mantenuto puro e illibato, tanto che gli amici lo avevano soprannominato Onoré il Casto. E sì che materia di prima scelta ne aveva avuta molta in quell'hotel della Costa Azzurra dove ogni estate migravano frotte di fanciulle nordiche a cui non importava tanto la bellezza fisica quanto il fascino latino. Ma Onorato non aveva nulla del latin lover per cui essendogli preclusa ogni avventura galante, si era rifugiato nell'idea di una avventura unica, quella che lo avrebbe portato direttamente all'altare. Ma qui sorgeva un problema. Onorato aveva del matrimonio un concetto particolare e strano. Non avendo mai conosciuto le donne in senso biblico e non potendo quindi valutare le loro reazioni, si era formato alcune idee originali dalle quali non intendeva derogare per nessuna ragione e che - forse per ottenere una conferma - stava quella sera esponendo agli amici nell'osteria semivuota . - Fratelli, - aveva esordito all'improvviso in una pausa di silenzio, - fratelli, ho deciso di prendere moglie. Per un attimo erano rimasti tutti basiti, poi, quasi all'unisono, tutti i presenti avevano sbottato - Ma va! - Ma no! - E con chi? - Quando? - Ma sei matto! Alla tua età? Chi te lo fa fare? - Che ti è saltato in mente? - Se mi lasciate parlare risponderò ad uno per volta. Dunque, ho deciso di sposarmi e presto, forse a fine mese. La prescelta è Finetta... - Chi? Finetta la vedova? - lo interruppe uno. - Sì, Finetta la vedova e non mi sembra di essere affatto ammattito - aggiunse rivolto a chi lo aveva tacciato per tale. - Scusa, Onoré, ma fra tutte le belle ragazze che ci sono a Isola proprio la Finetta sei andato a pescare. - Alludi forse al fatto che è vedova? - E già, proprio a quello. - Allora ti dirò che io ho scelto Finetta proprio perché è vedova. Se non lo fosse, rinuncerei al matrimonio. Per un attimo tutti erano rimasti in silenzio per digerire la precisazione. ‑ Se lo fai per i soldi - riprese poi uno - non ti biasimo. Carlin, buon'anima, gliene ha lasciati molti, ma in quanto alla Finetta, beh, non è il mio tipo. - Non puoi negare che abbia un bel corpo e un bel paio di gambe, - disse un altro. - Non divagate - fece Onorato - non la sposo per i soldi perché col mio lavoro a Beaulieu guadagno quanto voglio; e non la sposo neppure per la sua bellezza, ché, poverina, non ne ha molta. La sposo proprio perché è vedova e nient'altro. - Non ti capisco, Onorè. Spiegati meglio. - Vi spiegherò il mio punto di vista - cominciò Onorato, affrontando e confutando, senza per altro rendersene conto, il problema che aveva interessato Tacito, i Germani, gli Albigesi e i Catari-Patari. E, sebbene la sua preparazione culturale fosse di gran lunga inferiore a quella dei suoi predecessori, si accinse a esporre il problema con altrettanta serietà e coscienza. - A mio giudizio - iniziò - una signorina illibata, quando si sposa, raramente sa che cosa in effetti sia la vita matrimoniale, quali siano i suoi doveri di padrona di casa e di moglie e per moglie intendo dire... l'atto... il dormire nello stesso letto pur stando svegli. Mi capite, no? La soluzione della prima notte di nozze è, a mio parere, fondamentale: o non le piacerà stare sveglia o le piacerà: ecco il punto. Nel primo caso accadrà inevitabilmente che il marito se ne andrà per una strada - e per meglio spiegare il suo concetto mise da un lato il fiasco di vino che stava sul tavolo, - e la moglie per un'altra, - e mise il bicchiere sul lato opposto. - Lui potrà, o meno, frequentare altre donne per tutta la vita; lei, invece, rimarrà per tutta la vita 'una moglie-zitella’. Siete d'accordo? - No, - fece uno - potrebbe non piacerle il marito e trovare invece gradevole dormire, come hai detto tu, 'stando sveglia', con un altro. Lo escludo categoricamente - gli rispose Onorato - e mi spiego meglio facendoti un esempio. Un salame comperato alla Cooperativa può essere meno gustoso di quello che comperi nel negozio che sta in piazza, ma sempre salame è. O ti piace o non ti piace. - Ma che razza di ragionamento è il tuo! Se quello della Cooperativa è meno buono, ci rinuncio e vado a servirmi nel negozio che sta in piazza. -In linea di massima ti do ragione; ma putacaso il negozio rimanesse per un po' di tempo senza salame, ti asterresti forse dal mangiarne se te ne venisse la voglia? Credo di no. E allora vuol dire che il salame ti piace sempre, buono o no. Se, invece, mi rispondi sì, vuol dire che a te il salame non piace affatto e quindi, concludo, puoi farne a meno sempre. Così è per la donna a cui non piaccia l'uomo: distinguo, l'uomo in genere, non il suo uomo. Lì per lì colui che l'aveva contraddetto non trovò nulla da ribattere e Onorato riprese: - Nel caso, invece, il matrimonio piaccia alla donna, allora esso può essere felice solo se lei - e così dicendo avvicinò il bicchiere, - e lui - prese il fiasco e versò il vino nel bicchiere - vanno d’accordo. Bevve e poi riprese: - Non mi sto ora a dilungare sul problema del tradimento perché questo non è certo il momento più adatto: sto, infatti, per ammogliarmi. Voglio, invece, dimostrarvi perché io, scapolo fino ad oggi, abbia deciso di unirmi proprio ad una vedova. Vedete - fece scandendo le parole - io ritengo che la vedova sia la moglie ideale sotto tutti gli aspetti. - Oh questa sì che mi piace! - fece stupito Mumin che fino ad allora se n'era stato in silenzio. - Ti spiego subito: prendiamo l'argomento famiglia, una vedova sa già quale ne sia l'andamento, come farla funzionare, come far quadrare i conti di casa e questo perché il suo tirocinio ormai l'ha fatto. Prendiamo l'altro aspetto, il letto cioè. Se quella donna non si è divisa dal marito, vuol dire, e qui ritorno a quanto ho detto prima, che il dormire con un uomo le piace; di conseguenza, e questo è per me il fatto che taglia la testa al toro, una vedova è già collaudata . - Bella roba! - fece uno. - Perché? - lo rimbeccò Onorato - Quando acquisti una lampadina il commesso prima te la prova e mica ti secca. Anzi, vedendo che funziona, sei tranquillo e contento. - Ma che razza di paragoni fai? Mica ci dormi con una lampadina! - Comunque, io la penso così. A me piacciono le cose collaudate; ostacoli sulla mia strada non ne ho mai tollerati e non ne voglio. Non mi piace fare l'eroe o il pioniere. Preferisco entrare in una galleria quando le mine sono scoppiate, non mi importa di essere colui che va ad accendere la miccia. - Allora ragionando così, - gli fece notare Mumin, - invece di una vedova potresti sposare una ragazza già collaudata o addirittura una prostituta. - Ah no! Questo mai! E' contro i miei principi. - A me sembra la stessa cosa: che sia stata a letto con uno o con molti, che fa? Ormai... - Niente affatto. Guarda un po' la legge. Le prostitute sono sotto controllo della polizia; hai mai visto tu la polizia controllare le vedove? - E allora sposati una vedova! - Questo è assodato e mi dispiace che non la pensiate come me. Non potrete mai capirmi finché sarete legati a questa mentalità - concluse Onorato facendo col braccio un ampio gesto circolare. - Senti, Onoré, lasciamo perdere questi argomenti - disse Mumin dopo un breve silenzio.- Voglio solo mettere bene in chiaro che nonostante la nostra amicizia, io, in qualità di Grän ciaravüglièè, non tralascerò di farti il ciaravügliu, anzi il più grande ciaravügliu' che mai sia stato visto. Il fracasso arriverà dalla cima del Toraggio alla spiaggia di Ventimiglia. Questo te lo prometto. - Credi forse di impaurirmi? - lo rimbeccò Onorato sorridendo. - Ho già pensato a tutto e quella sera non mancheranno damigiane di vino da cinquanta e chili di focaccia e biscotti, francesi per la precisione. E se poi chiederete altro, vi sarà dato. Ti piace la proposta? - Ritengo di sì - rispose Mumin dopo aver visto cenni di assenso da tutti i presenti. Poi, rivolgendosi al futuro sposo gli disse: - Però sei un tipo strano, Onoré. Sono anni che organizzo ciaravügli e non mi è mai capitato di trovare un futuro marito che accetti così sportivamente che tutto un paese vada a schiamazzare sotto le sue finestre la sera delle nozze. Per lo più gli sposi si vergognano, cercano di tirarsi indietro, si arrabbiano addirittura, pur sapendo che alla fine devono cedere. - Ecco dove ti volevo, Mumin. E' proprio perché tutti pensano di aver acquistato una cosa già usata che si vergognano di fronte agli altri. Io no. Io, se indosso un vestito nuovo, mi sento a disagio. Nei panni usati ci sto come un re. Il vostro ciaravügli' sarà per me il riconoscimento ufficiale della mia teoria. Onorato avrebbe forse continuato a parlare se un vecchietto, che aveva ascoltato in silenzio tutti i discorsi, non vi avesse messo termine con queste perentorie parole: - Unuré, ti äi cuntau ciü musse tü staseira che Mussulini en vint'äni.
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Il due di giugno Onorato e Serafina convolarono a nozze. Lo sposo aveva fatto le cose in grande nonostante la moglie lo avesse pregato, supplicato quasi di non dare pubblicità alla cerimonia. Niente da fare: Onorato aveva fatto di testa sua e quel mattino, accompagnato da un largo stuolo di parenti, amici e alla presenza di quasi tutto il paese, aveva impalmato Finetta nella chiesa piena di sole e fiori. Prima di partire per il viaggio di nozze, Onorato aveva preso da parte Mumin e gli aveva detto: ‑ Oggi è il due, tra dieci giorni esatti saremo di ritorno. Prepara quindi il ciaravügliu per la sera del dodici, mi raccomando! - Ma, Onoré, così mi togli tutto il gusto di farlo! ‑ Te ne prego, se mi sei amico, devi fare tutto per me, anche l'impossibile. Voglio il miglior ciaravügliu che sia mai stato fatto nella vallata. - Va bene. Sta tranquillo e goditi la luna di miele. Poi Mumin, dato uno sguardo a Serafina tutta impettita nel suo tailleur grigio-perla, col viso sorridente e accaldato, aveva alzato le spalle e si era allontanato. I giorni erano passati veloci e la sera del dodici giunse per Mumin quasi inaspettata. Non ci teneva più ad organizzare quella cerimonia, sia perché la cosa non veniva improvvisata, sia perché c'era troppa arrendevolezza dalla parte opposta. Il bello di un ciaravügliu è quando gli sposi sono contrari, quando fanno resistenza e si tappano in casa cercando di sottrarsi all'ammenda pubblica. Allora sì che c'è gusto! La gente si scalda, cominciano a correre le parole a doppio senso, quelle a senso unico, il paese ride, sghignazza, si scompiscia dalle risa sotto le finestre dei due malcapitati e il frastuono sale alle stelle per continuare, se gli sposi tengono duro, per più sere di seguito fino alla capitolazione. Ma così! Consenziente Onorato, indifferente Serafina, la cosa non aveva più sugo. Ma tant'è, verso le otto di sera, la piazza della chiesa brulicava di folla. La voce che gli sposi erano ritornati si era sparsa, anche se nessuno li aveva veduti, e tutto il paese, consapevole che la tradizione andava rispettata, si era armato degli strumenti necessari e attendeva solo l'arrivo di Mumin, il Gran Ciaravüglièè per incominciare. Ognuno aveva portato con sé strumenti musicali così inusitati che avrebbero destato l'invidia di un cultore di musica epistaltica. Latte vuote, lamiere, barattoli di marmellata legati come perle di una collana, padelle, casseruole, tamburi e tromboni prelevati dalla banda musicale, una cornamusa, pifferi, cassette di legno, formavano un complesso musicale eterogeneo, fuori dal comune. Nell'attesa di Mumin, ognuno accordava il suo strumento facendo un tal baccano che i passeri, disturbati nei loro nidi volavano perdutamente intorno al campanile, simili a tanti pipistrelli sorpresi dalla luce. Finalmente, preceduto da una frotta di ragazzotti schiamazzanti, il Gran Ciaravüglièè arrivò. Mumin per l'occasione aveva indossato un frac vecchiotto, un po' stinto e logoro e così lungo che le code sfioravano le scarpe. All'occhiello una grossa rosa rossa, appassita, perdeva di tanto in tanto qualche petalo. In testa un cappello a tubo con una piuma di fagiano, gli dava l'aspetto di un imbonitore da fiera. Non aveva alcuno strumento musicale, teneva solo in mano una corta bacchetta tutta intagliata con cui avrebbe diretto la banda improvvisata. Una salva di fischi, urla, rumori assordanti accolse Mumin non appena fece il suo ingresso nella piazza gremita. Camminando molto lentamente e compenetrandosi nel suo ruolo, si diresse verso il centro della piazza incurante del frastuono poi, salito su una cassa, diede uno sguardo tutto attorno e con un gesto calmo, serafico, sacerdotale, zittì gli scalmanati. - O popolo dell'unghia, - incominciò, usando l'epiteto che i paesi vicini davano, e danno tutt'ora agli Isolesi, forse in memoria di antiche razzie - questa calma serata di fine primavera ci trova qui riuniti, unanimi, per far rispettare una delle più antiche, delle più giuste, delle più convincenti tradizioni che annoveri questa valle e in modo particolare questo borgo che ha una civiltà di oltre duecento lustri. Piccolo applauso, prego. E si scatenò un baccano infernale, sedato per· immediatamente dall'ampio gesto sacerdotale di Mumin. - Che il ciaravügliu - riprese - sia una cosa giusta, è pacifico e non ci sarebbe bisogno di spiegazioni se non vedessi laggiù alcuni foresti, nostri ospiti per le vacanze, i quali ci guardano stupiti e pensano forse di essere capitati tra cavernicoli e trogloditi. Per costoro e per i più giovani del paese che ancora non si sono compenetrati nell'essenza della manifestazione, ma vedono in essa solo il lato esteriore e una occasione per far baccano, dirò che recenti statistiche hanno dimostrato senz'ombra di dubbio che in Italia vi sono sette donne per ogni uomo, quindi solo una su sette ha la possibilità di sposarsi... ‑ Ma io non ne ho trovato nemmeno una! - interruppe un tale che aveva una faccia tonda come un melone e l'aspetto un po' cretino.‑ - Ma che pretendi tu - continuò Mumin - se non riesci nemmeno a trovare l'umidità nei pozzi! Comunque, ritornando al nostro tema, essendoci per la donna carenza di materia prima, non è giusto che una di esse abbia avuto a sua completa, totale disposizione non uno, bensì due uomini. No, signori, questo non è giusto. Altra ovazione. - Di conseguenza si impone, per questo plus valore ottenuto da Serafina, un pubblico processo sotto la sua finestra e, dato che le parole ben poco possono in questi casi essendo il matrimonio ormai...riconsumato, lasciamo che i nostri strumenti esprimano la nostra chiara, aperta, completa disapprovazione. "Bravo! Bene! Viva Mumin! " scoppiò da tutte le parti tanto che Mumin si sentì ringalluzzito; le preoccupazioni precedenti circa la non riuscita dela cerimonia svanirono. Capì in quel momento di avere tutta la gente in pugno. Si pavoneggiò un poco spostandosi ora su una gamba, ora sull'altra, con i pollici infilati nel gilé, mentre la rosa all'occhiello continuava a perdere dei petali. Non appena per· si accorse che la folla stava per avviarsi verso la casa degli sposi, con un gesto ieratico li trattenne. - Fratelli, è ora di avviarci tutti assieme. Dispongo che tutti coloro che sono provvisti di strumenti a percussione, si schierino in testa al corteo in righe di quattro persone. Di seguito si schiereranno coloro che sono forniti di strumenti a fiato. La folla seguirà alla rinfusa. Io starò in testa e aprirò la marcia. Per raggiungere la casa degli sposi procederemo a passo di funerale. La marcia che suoneremo avrà i seguenti tempi: maestoso, solenne e andante calmo. Gli strumenti di testa batteranno tre colpi veloci, ma in sordina, poi una pausa, poi un colpo forte; gli strumenti a fiato suoneranno, invece, ad intervalli regolari sempre la stessa nota e faranno da sottofondo di accompagnamento Siamo intesi? Ora mettetevi all'opera. Dopo un breve trambusto di assestamento il corteo si avviò. Mumin in testa camminava lentamente, segnando il tempo col bastone intagliato e sembrava che trinciasse benedizioni a tutto spiano. Un lungo codazzo di gente seguiva l'improvvisata banda musicale accompagnando con urla e fischi quel singolare concerto. Anche i forestieri, divertiti, si accodarono. L'abitazione di Onorato e Serafina si trovava in una graziosa piazzetta circondata da case con verande e poggioletti stracarichi di gente che voleva godersi lo spettacolo dall'alto. La piazzetta fu in breve piena di folla che arrivava da tutti i carruggi circostanti. In quella specie di anfiteatro il frastuono era enorme; le pareti si rimandavano l'eco che, rimbalzando di muro in muro, faceva rintronare ogni cosa e vibrare persino i vetri delle poche finestre rimaste chiuse. Il concerto era decisamente cacofonico. Ognuno suonava per conto suo battendo, picchiando, spaccando ciò che poteva. Alcuni avevano aperto la porta di una stalla e con nodosi rami d'ulivo vi battevano contro facendola risuonare sordamente. Due pecore frastornate dal baccano, erano riuscite a scappar fuori e si erano intrufolate in mezzo alla folla, belando disperatamente, mentre il padrone, bestemmiando come un turco, cercava invano di trascinarle dentro la stalla. Mumin di tanto in tanto dava una occhiata alla porta di Serafina e Onorato, che rimaneva inspiegabilmente chiusa. 'Eppure eravamo rimasti d'accordo! - pensava. - 'Perché Onoré tarda ad uscire con le damigiane? Che ci abbia ripensato? Non è possibile. Forse vuole godersi pure lui lo spettacolo. E allora lo accontento io. Salito su una scaletta, si mise ad urlare: - Dai, popolo dell'unghia, fatti sentire! Il frastuono salì al cielo, ma la porta rimase chiusa. Fu allora che si sentì tirare per una manica; si voltò e vide accanto a sé la madre di Onorato, scura in volto e accigliata. - Vieni, Mumin, - sussurrò - vieni subito con me. Mumin la seguì incuriosito. Si appartarono in un carruggio e la vecchia disse: - Mumin, manda via quella gente con una scusa. Di' quello che vuoi, ma portali via tutti. Finetta ti spiegherà; è una cosa grave e vorrei che nessuno ne sapesse nulla. Onorato non è in casa; non è nemmeno in paese. La vecchietta aveva parlato tutto d'un fiato e poi si era messa a piangere silenziosamente. - Lo sapevo che finiva male, me lo sentivo - disse Mumin sottovoce. - E va bene: cercherò in qualche modo di allontanarli tutti. Ora rientrate in casa; dopo verrò a trovarvi. Ritornato nella piazzetta, riprese il suo posto in cima alla scala e, dopo aver agitato più e più volte il bastone, gridò: - Amici, un momento di calma. Sono spiacente di dovervi informare che per stasera il ciaravügliu' deve essere interrotto. Onoré non è in casa; è stato chiamato d'urgenza a Beaulieu dal padrone dell'hotel dove lavora. Ha lasciato detto che, non appena potrà ritornare, ci avviserà, così riprenderemo la nostra cerimonia com'è nel nostro diritto. Vi furono mormorii da ogni parte, qualche strumento fu percosso, ma a poco a poco, a gruppi, la gente sfollò un po' dispiaciuta che quello spettacolo, così ben iniziato, fosse finito così malinconicamente. Mumin era rimasto nella piazzetta con alcuni amici restii ad allontanarsi e desiderosi di avere qualche informazione più precisa, più dettagliata che non le poche parole dette poco prima dal loro capo. Ma lui non ne sapeva molto di più. Dopo aver promesso notizie più ampie, li lasciò e andò a bussare alla porta di Serafina che, dopo aver sbirciato attraverso un usciolino, gli aprì e chiuse poi di scatto la porta dietro di lui con fare furtivo. - Ma che succede? - chiese Mumin non appena introdotto in un buio salottino dove la vecchia madre di Onorato e la madre di Serafina sedute su una panca, entrambe con la testa tra le mani, piangevano sconsolatamente. Serafina non rispose; prese dalla credenza una bottiglia di grappa e ne riempì un bicchierino che porse al giovane preoccupato e incuriosito. - Si può sapere, Finetta, che cosa è accaduto? - ripeté dopo aver bevuto un sorso di grappa. - Onoré è scappato - disse Serafina abbassando il capo. - Scappato! E dove? E quando? - La sera stessa del giorno di nozze - rispose la donna arrossendo. - E' ritornato a Beaulieu e, a parte una cartolina a sua madre, non ha più dato notizie. - Ma perché? Vi siete bisticciati? E' accaduto qualcosa? - No, nessun bisticcio, anzi, abbiamo fatto un ottimo viaggio fino a Genova dove avevamo prenotato in un albergo. E' accaduto mentre si stava per andare a letto che Onoré è scappato. Si parlava un po' di tutto e ad un certo punto gli dissi che io ero ancora vergine e allora lui è andato su tutte le furie ed è scappato. - O sacramento! - bestemmiò Mumin, cadendo a sedere su una seggiola e guardando Serafina con faccia da cretino. - Ma che balla gli hai raccontato, Finetta! - E’ la verità, Mumin! Che interesse avrei avuto a raccontargli una cosa simile se non fosse stata vera. Io credevo che ne sarebbe stato contento. - Non capisco, - fece Mumin soprappensiero. - Ma come puoi essere illibata se per sei mesi sei stata sposata col Carlin di Apricale. Dico, sei mesi prima che morisse. Non avrete detto rosari o giaculatorie tutte le notti, no? - Carlin era impotente, - disse la madre di Serafina tra le lacrime. ‑ E’ la verità - ribadì Serafina. - Quando lo sposai, io non lo sapevo. E siete stata voi a volere che lo sposassi - aggiunse rivolta alla madre. - E che ne sapevo io! - gridò quella tirando su col naso. - Sono stati tutti quei soldi e quelle terre a farmi girare la testa. E' per questo che ti ho consigliato di sposarlo. - Bel servizio mi avete reso. - Sentite, ora lasciamo perdere i morti. E' di mio figlio che bisogna discutere - saltò su la madre di Onorato. - Io non voglio che in paese si sappia che Onoré, per le sue strane idee, non vuole vivere con sua moglie solo perché è vergine. Altro che ciaravügliu! Il manicomio farebbero! Non ci voglio nemmeno pensare. Bisogna che in paese lo vedano a braccetto con Finetta. Bisogna trovare una soluzione e farlo ritornare da Beaulieu. - E così dicendo, andava battendo col pugno sul tavolo, facendo sobbalzare la bottiglia di grappa, mentre con l'altra mano si asciugava gli occhi. - Ma come si fa? - chiese la madre di Serafina. - Se ritorna siamo al punto di prima. Ma guarda che il tuo Onoré é è un bel cretino, sai? - Lascia stare Onoré e pensa piuttosto a tua figlia. - Che hai da dire contro Finetta? Non pensi alla sua disgrazia? Prima sposata ad un uomo buono a niente e ora ad un cretino che... - Non insultare il mio Onoré, hai capito? - rispose l'altra balzando in piedi e mettendosi le mani sulle anche in atteggiamento aggressivo. Mumin si mise in mezzo. - Calma, donne, calma. Se bisticciate me ne vado. Cerchiamo piuttosto di trovare una soluzione. - Di soluzioni ce n'è una sola - fece Serafina che aveva assistito indifferente al battibecco delle due suocere. - Onoré l'ha detto ai quattro venti che lui vuole la roba usata, perché, dice lui, già collaudata. - Fece una lunga pausa e poi concluse: - Si tratta, quindi, di collaudarmi.- E così dicendo guardò Mumin. - Io!! - fece il giovane guardandola esterrefatto. - Ma Serafina, che dici? - Finetta, sei pazza! - No che non son pazza. Se Onoré ragiona storto, io ragiono ancora più storto di lui, così la faccenda si raddrizza. E in fondo, a pensarci bene, non c'è nulla di male perché, senza saperlo Onoré stesso ci dà carta bianca. - Ma che carta bianca! Quello non approverebbe mai! - disse la madre di Onorato. - E chi glielo andrebbe a riferire? Noi no di certo. Mumin nemmeno. D'altra parte io mi sono sposata? Sì. Avevo il diritto di andare a letto con un uomo? Sì. - No, aspetta un momento - troncò la suocera. - Tu avevi il diritto di andare a letto col tuo uomo, non con un uomo. La differenza è evidente. - D'accordo, ma se il mio primo uomo non ha funzionato perché le sue cartucce erano scariche, le mie no e le sparo con chi voglio. E' un diritto che ho acquisito col precedente matrimonio e se non l'ho fatto valere non è stata colpa mia; comunque il diritto sussiste sempre. Io a Onoré non ci rinuncio. Nonostante le sue stupide idee gli voglio bene. Quindi l'unica soluzione è che tu, Mumin, che gli sei amico, faccia quello che il mio primo marito non fece. - Ma qui stiamo diventando tutti matti! - sbottò il Gran Ciaravüglièè, che si era tolta la tuba di testa e sudava abbondantemente. - Ma ci pensi a quello che dici, Finetta? - Ma certo che ci penso. E' in ballo la mia vita futura, la mia reputazione e vuoi che le butti via entrambe per non passare una notte con te? Ma nemmeno per sogno! - Ma che cosa dirà Onoré quando verrà a sapere che non sei più illibata? Ti chiederà, ti interrogherà. - Non ti preoccupare di quello che penserà Onoré! A lui penserò io. Ah, dimenticavo. - Che c'è ancora. - Mumin, in settimana andrai a Beaulieu e farai in modo di ricondurre Onoré al paese. - Pure! Anche l'ambasciatore debbo fare! Ma ti rendi conto di quello che dici? - Senti, Mumin, è inutile discutere. Mettiamo tutto in mano alle suocere e lasciamo decidere a loro. Sei d'accordo? Mumin per tutta risposta alzò le spalle. - Ma, per me...! - disse la madre - sono affari tuoi. - Ma sono anche di mio figlio! - la rimbeccò la suocera. - Tuo figlio in quest'affare non c'entra. Se buon'anima di Carlin avesse fatto il suo dovere, tuo figlio non avrebbe avuto nulla da ridire e non ci sarebbe stato bisogno di questo rimedio. Ora che a rimediare sia Mumin, che differenza fa? - Ma Carlin era il marito legittimo - ribatté la madre di Onorato. - Bel tipo di marito legittimo! - le rispose la madre di Finetta. - Sentite - si arrese la madre di Onorato - io me ne vado. Non voglio sapere le vostre conclusioni. Arrivederci. - E se ne uscì impettita dopo essersi avvolta la testa in uno scialle nero. - Io ho da fare in solaio - disse poco dopo la madre di Serafina. - Devo ancora ritirare il bucato.- E se ne uscì lasciandoli soli. Mumin stava in silenzio con gli occhi fissi sul tavolo e col bicchiere di grappa vuoto che rigirava tra le mani. Serafina lo guardava, indecisa sul da farsi. D'un tratto, presa la decisione afferrò Mumin per un braccio e disse perentoria: - Andiamo! Nel salottino rimase solo la tuba del Gran Ciaravüglièè e alcuni petali di rosa sparsi qua e là.
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Tre giorni dopo, sul far della sera, Onorato bussava alla porta di casa e Serafina lo accolse buttandogli le braccia al collo. La spiegazione che seguì tra i due soddisfece pienamente lo sposo. - Vedi, - gli disse Serafina, - tu sei troppo impulsivo e salti subito alle conclusioni prima ancora di ascoltare tutti i punti. Quando, a Genova, ti dissi che ero illibata, volevo dire che dal momento in cui ero rimasta vedova non ero più stata con un uomo Dovevi pur capire che, essendo stata sposata col Carlin, non potevo certo essere illibata. Io parlavo in modo generico. - E non potevi dirmelo prima? - E come facevo? Sei scappato come un ladro senza permettermi di spiegarti. - Hai ragione, Finetta. Bel cretino sono stato. Ma che succede adesso? - disse balzando in piedi al rumore che saliva dalla piazzetta sottostante - Il ciaravügliu, te lo sei dimenticato? Visto che la prima volta non c' eri, l'hanno rimandato al tuo ritorno. - Molto bene. Spero che Mumin abbia fatto le cose a regola d’arte. - Di questo non preoccuparti: sono tre giorni che ci si dedica anima e corpo. Il frastuono era, intanto, cresciuto a dismisura. Si sentiva ad intervalli la voce di Mumin sovrastare il baccano: - Popolo dell'unghia... il diritto... la tradizione... non è giusto... Onorato e Serafina aprirono la finestra; una folla enorme aveva invaso la piccola piazza dove avevano trascinato anche una vecchia pianola stonata, presa chissà dove. Che motivi suonasse nessuno lo seppe mai . Mumin in tuba e frac, con una nuova rosa all'occhiello, la solita bacchetta, stavolta a cavallo di un asinello a cui per l'occasione avevano tappato le orecchie e bendati gli occhi, dirigeva la banda musicale degli strumenti cacofonici. - Pronti tutti e non stonate! Suoneremo la Marcia dell'Unghia Incarnata, inno del paese. I movimenti sono: Andante, Andante con moto, Andantino, Largo maestoso e Gran finale. Pronti? Via! E il chiasso salì alle stelle. Il pensiero venne a Mumin proprio in quel momento: ‑ A pensarci bene, - si chiese - il ciaravügliu lo stanno facendo a Onorato oppure senza saperlo lo stanno a me? E fu quella la prima volta nella tradizione di Isolabona che il Gran Ciaravüglièè fece il ciaravügliu a se stesso.
(Del racconto è stata fatta una versione teatrale in dialetto)
U ciaravügliu
Cumedia en dui äti de Marò Cascin de Patala
Persunägi: Fineta, üna vidua che a se remaria. Unuré, u prumessu spusu. Mumin, u Grän Ciaravüglièe. Bastiané, u se bräsu destru. Ün vegliu.
(Prima de cumensää a cumedia u seria necesäriu che una vuije föra cämpu, acumpagnä da üna müsica , a legèsse una päginä de spiegasiun de luche u l'a u ciaravügliu pe cheli che i nu u sän)
Ätu primu
U s'aisa u sipäriu. A semu sciü a Bunda, dedenäi l'ustaria de Ercule. U g'à dui deschi cun de caireghe. A ün descu i stän asetäi Mumin e Bastiané. I stän giugandu ae cärte e i än dedenäi üna buteglia de rusese e dui goti de vin. A l’'autru descu u stä asetau ün vegliu cun ün giurnäle en te mäe. De tänto en tänto pe a Bunda u passa de cursa di figliöi, de femere che porta üna seglia sciü a tasta, di omi cun di curbin sciü e späle o di beriui de fen.
Mumin (getandu üna cärtä sciü descu) - Scupa! E cun salì e fän tre. Bastiané (Cun ün gestu de rägiä u getta e cärte sciü u descu) U nu l'a puscibile! Ti äi un cüü cume ün cavägnu: a ghe scumetu che se ti te ceghi e a te gärdu derèè, a te vegu a märcä du capelu. Mumin - A nu l'a furtüna: a l'a abilitä e memoria. Mi e cärte a me e säciu giügää ban.
(Dau carugiu cu stä dedenäi l'usteria de Ercule u sciorte prima ün omu cäregu de ün beriun de fen e poi, vestiu cume ün bardäsciü , cun üna män ciantä en tu gilé aa moda de Napuleun, i speglieti sciü u näsu, u l'ariva Unuré. Unuré l'a un giuvenu sciü i trant'äni. Scicume u travägliä en Fränsä, en t'ün utel de Bugliö, de täntu en täntu u ghe piäije parlää fransese.)
Unuré - Salut les ami! Comment ça va? Sampre a giügää ae cärte; ma u nu äve autru da fää. Però adassu cianteira lì perché u besögna fää fasta. Tranchili: a pägu mi! Mumin - Unuré ti me fäi pauu. Ti ei sampre stau lärgu au brenu e strentu ää farina! Ti äi forse vintu ün tarnu au lotu ?
(Unuré, u s'asata sciü üna cairega; u se leva i speglieti; u ghe sciüscia suvre ; u i nestegia cun ün mandrigliu e u se i mette sciü u nasu.)
Unuré - De ciü, de ciü. Bastiané - Ti äi finiu de cifugnää cun sti speglieti? Unuré - Mes amis, a äi decisu: a me mariu. Mumin - Ti te marì? Aa tua etä? Bastianéü - E cändu? E cun chi? U vegliu - (Aisandu a tasta da u giurnäle) Unuré, ti ei deventau abelinau? Unuré - Se u me lascei parlää a respondu a tüti. Dunca, tra un mesu a me mariu cun Fineta. Bastiané - Chi? Fineta a vidua de Carlin? Ma t'ei matu? Unuré- Sci, propiu Fineta a vidua e a nu sun né mätu né abelinau (u responde girau varsu u vegliu). Mumin - Mä cume? Cun tüte e bale giuvene c'u g'a a l'Isura, ti t'ei mesu a caregnää propiu c cun üna vidua? Unuré - Spiégate megliu, Mumin: ti te riferisci au fätu ch'e a l'à vidua o che a nu l'à täntu bala. Mumin - Be', a tüti e dui. Pe mi, ti säi, üna vidua... Unuré - Ti ghe l'äi cun e vidue? Se ti vöi propriu c'a ta dighe sana e s-ceta‚ a me mariu cun Fineta propiu perché a l'à vidua. Se a nu fusse vidua a nu l'averia mäncu sercä.
(U vegliu u pousa u giurnale sciü u descu u aveijina a sua cairega a chela de Unuré pe sentìì megliu. Bastiané e Mumin e se gärdä en ti ögli e Bastiané u se toca a tasta cun ün diu)
Mumin - Äi capìu , (u dije gardandu Unuré) äi capìu: Fineta a l'a rica e tü ti te marì pe i soudi. U nu g'a ran da dii. U poveru Carlin, bon'ärimä, u ghe ne deve avee lasciau ün bancää cen. Ma se ti vöi ch'a te u digu, a mi Fineta a nu me piaije. Bastiané - (u rie) A nu sarä bala mä ti nu pöi negää ch'a l'ä de bale s-ciäpe e di tetin cume due pasteche maüre. Unuré - Nä, nä, nä. Vui dui u nu capì ran. A nu me mariu perché Fineta a l'à rica. Di soudi a n'äi ascì mi e a Buliö a ne gägnu canti a ne vögliu. A sun änche d'acordiu che Fineta a nu l'à bala, mä mi a l'äi sercà propiu perché a l'à vidua. U vegliu - (u se cega pe gardää megliu Unuré) O sacranun, salì scì c’à la bala!. Mumin - Unuré, a nu te capisciu ciü. Se ti m'a vöi spiegää. Unuré - A te spiegu sübitu u me puntu de vista. (U 's'agariba megliu sciü a cairega cume se u se vurese dää de l'impurtansa pe chelu che u stä pe dii, e pöi u repiglia a parlää). Dunca, mi a pensu che üna giuvena de bona famiglia, cändu a se maria a nu sä ascaiji ran da vita matrimuniale e pe vita matrimuniale a pensu... (u cumensa a agitärse sciü a cairega perché u nu sä cume dii) ... a pensu a l'ätu... cume a ve pösciü dii, l'ätu, eccu, durmii en t'ün leitu en dui mä standu arevegliäi, tantu pe capirse. (U fä üna pecina pausa. I autri i stän chiati aspeitando che u cuntinue.) Serchei de capirme: pe mi a prima nöite de nose a l'a decisiva perché u mariu u capirä sübitu se a femera u ghe piaijerä o u nu ghe piaijerä stää arevegliä. Se u nu ghe piaijerä alauu u mariu u l'anderä pe u sè camin. (E pe megliu färse capii Unuré u piglia a buteglia de vin e u a mete da üna pärte ) e a miglièè a se n'anderä pe ün autru. (U piglia ün gotu e uu mete lögni daa buteglia) Eccu, propiu cuscì. L'omu u se piglierä de autre femere e a miglièè, vistu che u nu ghe piaije stää arevegliä, a resterä sampre 'une vieille fille', cume i dije i fransesi. U äve capiu? U v'a ciäru u raijunamentu? Mumin - Ciäru ün balu belin! Ma che 'vieille fille e vieille fille! A pureria truvää benuscimu ün autru omu pe stää, cume ti diji tu, arevegliä. Unuré - (U fa de nä cua mä) Empuscibile, categoricamente empuscibile! E a te u demustru en t'ün autru modu. Stäme ban a sante: ün saläme acatau daa Cuperativa u pöö ase menu bon du saläme vendüu en ta bütega de Metì. U se trätä però sampre de saläme: o u te piäije o u nu te piäije Bastiané - Mä che räsä de belinäte ti me conti! Se chelu da Cuperativa u nu l'à bon, mi a nu l'acätu e a me ne vägu a acatärlu da Metì. Unuré - Scì, a te pösciu anche dää raijun. Mä se Metì a l'arasta pe cheiche dì sansa saläme, e a tü te vegnisse a cuvea de mangiarne ün tocu, ti nu anderì forse a acatärne ün tuchetin anche dää Cuperativa? Mi a pensu de scì; alauu u vö dii che u saläme u te piäije sampre, cu scie o cu nu scie bon. Se au cunträriu ti me respondi che ti ne purerì fää a menu alauu u vö dii che a tu u saläme u te piaije poucu, ansi, u nu te piäije pe ran e che ti ne purerì fää a menu. Cuscì u l'a pee femere cändu u nu ghe piäije l'omu; pe a precisiun l'omu en generale e nu u sè mariu.(Unuré u se gira varsu u vegliu e u ghe dumanda:). Luche ti ne dì, nonu? U vegliu - Pe auu a nu digu ran; a te stägu numa a sentii. Unuré - (U recumensa a spiegää a sua idea) Mä se, envece, a üna dona u matrimoniu u ghe piaije alauu l'accordu u serä felice se ela (u piglia u gotu) e elu (u piglia a butiglia) i durmiran entu stessu leitu standu arevegliäi (E u se varsa ün gotu de vin. Uu beve e pöi u recumensa). U se pureria anche parlää de tradimentu, mä pe ün c'u stä pe mariärse u nu l'àu casu. A ve vögliu demusträä perché mi, fin a anchöi fantin, a äi decisu de mariärme. Pe mi, üna vidua a l'a a miglièè ciü giüsta che ün omu u pösce avee. Mumin - Salì ti maa devi spiegää. (U se gira varsu u vegliu) Vui, Antò, luche u ne dive? U vegliu - Pe auu a nu digu ran. A vogliu vee unde Unuré‚ u vöö andää a sbäte. Unuré - A ve u spiegu sübitu. Cumensemu dää famiglia. Üna vidua a sä giä cume färlä funsiunää, cume manegiää i soudi,cume spenderli e cume saverli mete da pärte. E tütu lo perché a s'a abituä cun u primu mariu. Pasemu a parlää du leitu: se üna femera a nu ä mäi ciantau u se mariu, u vöö dii che u ghe piäije stää cun elu sute e cuvarte. Cunclusiun, et ça coupe la tête au toreau, üna vidua a la giä prunta sute tüti i punti de vista. Bastiané - Bala rouba! Unuré - Bala rouba, bala rouba! Cändu ti acati una lampadina ti dì au letricista de pruarterä, nu?! E ti nu t'arägi mia, se ti vei che a s'asande, nu? Änsi, se a funsiuna, ti ei cuntantu. Mumin - Ma ti ne vöi cugliunää, Unuré? Nui cun e lampadine entu leitu a nu g'andemu mia a durmii!! Unuré - Mi aa pensu cuscì. U me piäije che e couse e scie giä stäe usäe, cuscì a sun següru che funsiuna. A nu me vögliu engalutää cändu a caminu. U nu m'a mäi piaijuu fää u primu da scöra e a preferisciu enträä en t'üna galeria cändu e mine e sun giä sautäe. U nu me ne fä ran de nu asse chelu cu dä fögu aa micia! U vegliu - Raijunandu cuscì, Unuré, envece de üna vidua, ti te purerì mariää änche cun üna bala giuvena giä..., ensuma, che a g'ä giä pruau o, se propiu ti vöi... cun üna bagäsciä. Unuré - Ah, nä, Antò! Cun üna bagäsciä mäi! U l'a contru i mei principi. Bastiané - A mi u semeglia u stessu: c'a scie giä andä cun ün suru o cun tanti, che deferansa u g'a? Urmäi... e sun messe dite. Unuré - U l'a lì che ti te sbägli: una bagäsciä, pe tütu u periudu ca stä en t'ün burdelu, a l'a sampre cuntrulä dai carabinei. Ti äi mäi vistu tu un carabinéé cuntrulää e migliéé cändu e se ne stan en tu leitu cun u mariu? Quindi, cume ti vei, anche pe a lège, a nu l'à a stesa cousa. Mumin - A vä ban! Au savia che ti eiri testärdu, mä a su puntu mäi! Però, Unuré, nunustante a nostra amicisia, a t'avartu che mi en te l'Isura a sun u Gran Ciaravügliéé. Nu crede che a te fäse un bon preiju. I Lisurenchi i nu seria d'acordiu. Mi a te prumetu ün ciaravügliu cun täntu de chelu fracäsu che u ne parlerä änche i giurnali. Sciü lolì ti pöi stää següru! Unuré - (U se mete a rii) Ti credi forse de färme pauu? Ma mi a sun cuntantu cume üna Päscä. Luche ti ne dì de cätru damijäne de vin de Marcora da sincanta litri; pan, üna deijena de metri de sausisa, di salämi e pe finii deije chilò de bescöti? E se i Lisurenchi i vureran de ciù, aban, a se meteremu d'acordiu. Regordaté che Unuré u l'ä sampre pagau i sei empegni. Mumin - (Alargandu i bräsi e gardandu prima Bastiané e pöi u vegliu) Cume ti ei stranu, Unuré ! U l'a di äni che a urganisu i ciaravügli en te l'Isura, a Vrigää, a Dusaiga, a Pigna, au Buje e unu m'a mäi capitau de truvää ün mariu cuscì pruntu a acetää che tütu ün paise u väghe a ragliää e a fää fracäsu sute i sei barcui. Tüti cheli che a äi vistu i se sun sampre aragiäi. i än giastremau cume i türchi, i än sercau de resiste, anche se aa fin i än duvüu cede. Cun tü u se parde u güstu du ciaravügliu. Unuré - U l'a lì unde a te vuria, Mumin! U l'a propiu perché tüti i pensa de avee acatau üna cousa giä früsta che i se vergögna. Mi nä! Mi se a me metu ün vestiu e de scärpe növe u me semeglia de ase fasciau cume ün figliurun apena nau. Ent'i vestì de tüti i dì a ghe stägu cume un re. (U s'aisa de sciü a cairega e u se cega varsu Mumin) Mumin, u té ciaravügliu u serà pe mi u ricunuscimentu ciü giüstu da mia teuria. (Pöi u se gira varsu u vegliu) E vui, nonu, luche u ne dive? U vegliu - Unuré, ti äi cuntau ciü musse tü en vinte minuti che Musulini en vint'äni!
U cärä u sipäriu.
ÄTU SEGUNDU
(Üna stänsia cun ün sufà e due purtrune; ün taurin bäsu; ün cumò cun de buteglie e di goti. Sciü u fundu ün barcun cun e girusie baräe mä e fenastre e sun envarte. Üna porta a destra e üna a sinistra. De deföra u se sänte un fracäsu de la Madona. U l'a u ciaravügliu. Chi pica contru de läte de benzina, chi fä ruelää di stuci atacäi a un spägu, chi sbäte de paale contru de casarole o i ghe pica suvre cun ün bastun. U se sante sunää di corni, de trumbe, di trumbui; cheicun fä s-ciupää di petardi. Chi rägliä, chi cäntä. U nu se capisce ciü ran. U fracäsu u deve ase forte, caoticu, cu vä e cu van, cume de unde en ta marina. Sciü a scena u g'à Fineta che a camina da üna porta a l'autra. De täntu en täntu a se ferma veijin au barcun e a gärdä a travarsu e girusie. Pöi a cuntinua a caminää. U se vè c'a l'a agitä. De föra u se sante a vuije de Mumin. A l'ä u tonu de chi pärlä au populu. U fracäsu u se cärmä un ün poucu e u se fä sentii suru en te pause du discursu.
Vuije de Mumin föra cämpu - O populu de l'ungia, amighi, en te sta cärmä seira de fin estä, mentre e rundure e vöra, e cräve e bara e i änsi i rägliä, a se truvemu reunì, tüti d'acordiu , pe fää respetää a Unuré üna de ciü giüste. de ciü sacrusänte tradisiun che l'Isura, "terra ubertosa" cume u dijia a maistra Devutina, a l'äglie mäi avüu. Regurdeive che ün paise che u l'ä vistu arivää i Türchi da l'Äfricä, i Doria da Zena e i tudeschi da l'Alemagnä e che u stä lì tra u Nervia e u Merdänsu da treijantu lüstri, u nu pöö renunciää ai sei diriti - (U se ferma un poucu pe dää tampu ae giante de fää un poucu de fracäsu e pöi u recumensa) - Che u ciaravügliu u scie üna cousa giüsta e che nesciün u a pöö mete en descüsiun,u nu ghe ciöve. Tüti u save lucu l'à, mä scicume a vegu lagiü di furasti ch'i ne gärdä cun i ögli föra da tasta e i se diran cume i än fau a truvärse ensame a di caverniculi e a di trugluditi, u l'à megliu che a me spieghe. Pe i furasti, dunca, e pe tüti i giuveni che ancuu i nu än capiu l'ärimä du ciaravügliu e i crede che nui a semu vegnüi suru pe fää du burdelu, a diräi che e statistiche du Guvärnu e än dimustrau sansa umbra de dübiu, che en Italia pe ögni omu u g'à sate femere e cuscì suru üna sciü sate a l'ä a puscibilitä e a furtüna de mariärse. U capiré dunca che u nu l'a giüstu che üna de se femere, a nostra Fineta, a l'äglie gudüu da puscibilitä de avee avüu aa sua tutäle, cumpleta dispusisiun dui omi. Amighi lisurenchi e furasti, u nu l'a giüstu! (U fracäsu u se turna a fää sentii, pöi ciaä cianun u s'amorce). U ne cunsaghe che, cume i dije cheli che i sän parlää ban, "per questo plus valore" che Fineta a l'ä avüu a deve supurtää un pruciasu sute i sei barcui. Mä scicume e parole e nu cunta ciü ran dau mumentu che Fineta e Unuré‚ i se sun giä mariäi e u matrimoniu u l'a stau nun suru cunsümau, mä ecunsümau, lascemu che a parlää i scie i nostri strumenti musicali pe manifestää a nostra ciärä, envarta, cumpleta disappruvasiun. (U fracasu u munta enfin ae stere).
Pe tütu u tampu du discursu de Mumin, Finetta a l'ä cuntinuau a pasegiää nervusamente)
Fineta - (A bärä u barcun pe lasciää föra u fracasu cu se sänte lu stessu e che u l'acumpagnerä, ciü o menu forte tüta a scena) Oh mi povera bagäsciä, e adassu luche a fässu? Mi meschina, u me ghe manchia propiu salì! Bastiané - (U l'entra da üna porta. U l'ä üna rösa atacä aa giacheta, un capelin cun di pendagli, un tambüru sute u bräsu e ün bastun). Fineta, de sute i fän u diävu a cätru. Mumin u nu i pöö ciü tégne, u vöö savee cändu tu e Unuré u envri u fundu pe tirää föra e damijäne de vin, a sausisa e i bescöti. Mumin u dije che u ghe vurerä cätru o sinche damijäne perché u g'à änche tänti furasti. Mä undu l'à Unuré? Fineta (A l'à sämpre ciü agitäà) - Bastiané, vää a ciamää Mumin e dighe de vegnii sübitu! Bastiané (U se gärdä en giru) - Lu cu l'à suciasu. Fineta - Vä' a ciamärlu e vegnì tüti dui! (Bastiané u sciorte de cursa e dopu ün minütu u l'ariva cun Mumin. De föra u fracäsu u l'’à aumentau. Mumin u l'’à vestiu cun üna veglia palandränä che a g'ariva fin sciü i pei. U l'ä de röse atacäe au vestiu. Sciü a tasta u l'ä ün cilindru cun üna ciüma de faijän. U semeglia ün de cheli che au mercau i vende de tütu.) Mumin - Fineta, luche u sucede? Bastiané u m'ä ditu che ti ei föra dau semenau. Undu l'à Unuré? (Finetta a piglia üna buteglia dau cumò, dui goti, ai ence e ai dä a Bastiané e a Mumin. De föra u fracäsu u cärä, mä u se sentirà sampre cume se u fuse ün acumpagnamentu müsicale.) Bastiané - Alauu ti vöi parlää? Fineta - (Cun a vuije bäsä) Unuré u nu g'à: u là scapau! Mumin - U l'à scapau!! Mä u nu ve seve arecampäi anchöi dau viägiu de nose? Fineta - Nä, a sun arivä da sura. Unuré u l'à scapau a prima nöite de nose. U m'ä ciantau lì, en t'ün utel e u se n'à andau a Buliö a travagliää. U l'à üna setemana che a nu ne saciu ciü ran. U l'ä scritu numa che üna cartulina a sa mäire. Mumin - Fäme capii, Fineta: perché u l'à scapau? U ve seve rusäi? Fineta - Nä, a nu se semu rusäi. A ämu fäitu ün balu viägiu fin a Zena dunde a ämu sercau ün utel pe pasää a prima nöite. Prima de enträä ent'u leitu a ämu parlau du ciü e du menu. U l'à capitau tütu cändu a g'äi ditu che mi a eiru ancuu vergine. A nu ve digu Unuré. U m'ä gardau cume se a fuse üna mätä e, sansa dii ran, u s'à vestiu e u l'à scapau. Bastiané (lasciandu carää pe tara u gotu) O sacramentu ! Ma che mussa ti g'äi cuntau! Fineta - Bastiané, mi a g'äi ditu a veritä. Perché a ghe devia dii üna bouja? Mi a credia de färghe ün regälu, u me regälu de nose. E u mumentu adätu pe dirgherù u l'eira propiu chelu. Mumin (Ün poucu embesuiu) - Be', scì, u mumentu u l'eira chelu. (Mä pöi u ghe repensa e u gärdä Fineta). Mä dime ün poucu cume u l'à puscibile che ti ei ancuu vergine se ti ei stä mariä cun Carlin bon'ärimä pe ciü de ün änu? Cändu u eiriai en tu leitu u nu äve mia ditu de giaculatorie pe ün änu, nu? Fineta (A l'asbäsciä a tasta. A l'ä vergögna) - Ecu... ti vei... u l'à che Carlin, bon'ärimä, a nu ghe l'äi cun elu... mä cun e femere... ti säi... u nu l'a che u ghe savese fää... u me capì? Bastiané - Certu che a te capimu! Ma perché ti t'ei mariä cun elu? Ti nu te ne purì acorge prima? Fineta - E cume a faijia? Bastiané - U modu u gh'eira. Mumin - Lascei stää i morti, adasu. U l'a ai vivi che a duvemu pensää .(De fora i cuntinua a ragliää e a sunää come mäti) Fineta - Giüstu! Mi a nu vögliu che ün paise u säce che Unuré u nu vöö vive cun mi perché a sun vergine. U ghe mancheria! Autru che ciaravügliu i ne faria! Besögna truvää u modu de färlu turnää da Buliö e vui dui u me devei aiää. Bastiané - E cume a fämu? Se u returna a semu au puntu de prima. Se u nu te vöö u nu te vöö. Mä ti säi che u l'à ün balu stüpidu! Fineta - Läsciä stää Unuré! Mä propiu a mi u me devia capitää: prima mariä a ün bon a ran e adasu a ün che u nu vöö mangiää en ti piäti puliti... u i vöö bruti elu! Mumin - Cärmä, Fineta, a pigliärserä u nu sarve a ran. Serchemu ciutosto de truvää üna solusiun. Prima de tütu a devemu lasciää cuntinuää u ciaravügliu. Se staseira tü e Unuré u nu ve fäve vee u nu fä ran. Varsu megia nöite i se n'anderän tüti e demän seira i serän ancuu tüti lì, mä pe nui u ghe serä tüta üna giurnä pe truvää ün modu de sciurtirne. Ma cume? Fineta - Ün modu u ghe seria! (I dui giuvani i a gärdä.) Bastiané - Pärlä! Fineta - Änche se Unuré u nu me l'ä mäi ditu, mi a cunusciü e sue idee sciü a rouba növa e sciü chela giä usä, o cume u dije elu, giä culaudä. (A se ferma ün mumentu per stää a sentii u ciaravügliu che i lisurenchi i fän sute u barcun e pöi a recumensa) Aban u g'à ün modu suru pe arangiää tütu. (A gärdä Mumin) Besögna che cheicün me culaude. Mi a sun prunta e tü, Mumin, ti ei sampre stau u ciü caru amigu de Unuré... Mumin - (U se läsciä carää de pesu sciü üna purtruna. De föra u fracäsu u munta) Fineta, mä ti ei mätä!! Fineta - Nä che a nu sun mätä! Mä se Unuré u raijuna stortu, mi a raijunu ciü stortu de elu, cuscì a facianda a se drisa. (Poi, cun cärmä) En fundu, a pensärghe ban, u nu g'a ran de mää perché, sansa saverlu, Unuré u ne läsciä fää cume a vuremu. U ne dä cärtä giäncä. Mumin - Mä che cärtäa giäncä! Unuré u l'à ün brav'omu e u g'à ün limite a tütu. Fineta - E chi ghe l'anderia a dii. Mi nä e vui mancu, credu. (A se gira varsu Bastiané). Bastiané, ti pöi forse negää che mi a sun mariä Bastiané - Nä. Fineta - Mariandume a avia o nu u diritu de enträä en t'ün leitu cun ün omu? Bastiané - Sci... nä, aspeita! Ti avi u diritu de enträä en t'ün leitu mä cun u te omu, nun cun ün omu calunche. U g'à üna bala diferansa! Fineta - D'acordiu. Mä raijuna ün mumentu: Carlin, u me primu mariu, u nu l'ä funsiunau perché u l'avia tüte e cartucce scäreghe. E mie, però, e eira tüte cäreghe e a e späru cun chi a vögliu. U l'a ün diritu che u primu matrimoniu u m'ä acordau e se a nu l'äi usau fin a anchöi u l'à perché u nu ghe n'eira besögnu. U diritu, cumunque, u g'à sampre. Mi a Unuré a nu ghe vögliu renunsiää. Änche se u l'ä de idee sceme a ghe vögliu ban lu stesu e a nu vegu che üna solusiun: andärmene en tu leitu cun Mumin. Mumin - Cusì a stämu deventandu tüti mäti! Ti ghe pensi, Fineta, a luche ti di? Fineta - Certu che a ghe pensu, mä a pensu änche che a me stägu giügandu a mia vita fütüra e a mia repütasiun e a nu e getu via tüte e due suru pe nu pasää una nöite cun tü. A nu ghe pensu mäncu! Bastiané - (U s'aveijina au barcun, u gärdä, u se toca a tasta cun üna män) Daväle i stän deventandu tüti mäti. (Pöi u se gira de scätu varsu Fineta) Nä ti nu me cunvinci! U g'a ün puntu che ti nu äi cunsiderau. Ti nu äi pensau a luche u dirä Unuré cändu ti ghe cunfeseräi che ti nu ei ciü vergine. U vurerä savee cume mäi ti eiri vergine a Zena e ti nu l'ei ciü a l'Isura. Fineta - (Cun ün surisu) T'en fait pas! Cume u dije Unuré. Nu te preocupää. A elu a ghe pensu mi. Tü pensa suru a fää u te travägliu. Bastiané - Che travägliu? Fineta - (Decisa) Ti devi pigliää u postu de Mumin e fää en modu che u ciaravügliu u cuntinue e che nesciün u s'acorge de ran. Metite e ragliää che Unuré pe staseira u nu vöö cede; dighe che u ghe piaije u fracäsu e che ciü i ne fän megliu u l'à. Pe staseira u nu darä a nesciün mäncu un gotu de vin. Demän u se virä. Bastiané - (U garda Mumin) Alauu, luche a devu fää? Mumin - Purcacia Eva! E che autru ti vöi fää! Té (u se leva u cilindru e a palandrana). metiterì. Fineta - (Mentre Bastiané u se veste) Bastiané, ti me devi fää ancuu ün piaijee. Demän de bon'ura ti deverì andää a Buliö, a sercää Unuré. Dighe che u deve vegnii. Se u te farä de dumande dighe che a ghe spiegheräi tütu... dighe che a Zena a me sun spiegä mää e che elu u l'ä capiu pegiu. Se u l'insiste, dighe che ti nu säi autru. Bastiané - (Parlandu sutu vuije) Ma gärdä tü: u me tuca fää anche u rufiän di mariäi! (U sciorte pe ragiunge i ciaravugliei.) Fineta - (A gärdä Mumin sansa parlää. Pöi tüti dui i s'aveijina au barcun e i gärdä daväle. U burdelu de tole e di cüvarci sbatüi, de trumbe, de trumbette, di rägli, u cuntinua). Alauu, Mumin, ti te decidi? A g'andemu en te sta stänsiä? Mumin - Dime ancuu üna cousa, Fineta: luche ti diräi a Unuré cändu u l'ariverä? Fineta - (Cun äriä malisiusa) A ghe diräi: "Ti vei, Unuré, tü ti äi ün defatu: ti sauti sübitu aa cunclüsiun prima ancuu de avee sentiu tüte e campäne sunää. Cändu a Zena a t'äi ditu che a eiru vergine a te vuria dii che da cändu a eiru restä vidua nesciün omu u m'avia ciü tucau. Però u l'à logicu, cäru Unuré, che esandu stäita mariä cun bun'ärimä de Carlin, propiu vergine, en tu veru sansu da parola, a nu eiru ciü. Mä tü ti nu m'äi dau u tampu de spiegärlu. Ti ei scapau sübitu sübitu cume üna levre." Ecu luche a ghe diräi! (De föra u se sante a vuije de Bastiané) Vuije de Bastiané - Forsa, lisurenchi! sciüscei en te trumbe! Sunei a fanfärä! Ragliei, cantei, sügiei! Fämu burdelu! Regurdeive du diritu du populu e da tradisiun! Unuré u nu vöö cede. U dije che u fracäsu u ghe piäje. Fämu en modu che e nostre gure e araste seche, mä demän'a seira a ga faremu pagää ciü sarä. Sei dumijäne u ne deverà dää, forse änche sate! (U fracäsu u munta fin ae stere) Fineta - (A piglia pe män Mumin e a u stiräsä varsu a porta da stänsiä) Sciü, andemu, Mumin. Ti äi un duvee da cumpii. U l'a Unuré che uu vöö. Però, a pensärghe ban, chi te l'averia mäi ditu, Mumin, che staseira u ciaravügliu, envece de färlu a Unuré, i l'averia fau propiu a tü, a Mumin u grän ciaravügliee! (Mentre i entra en ta stänsiä u se cuntinua a sentii u fracassu du ciaravügliu.)
U cärä u sipäriu.
LA PROCESSIONE DEL GIOVEDI’ SANTO
La tradizione
Con l'Epifania si finiva il periodo gioioso del Natale e iniziava un periodo di riflessione e di pentimento che terminava a fine Quaresima. A Isolabona questo periodo culminava con una processione del tutto particolare che avveniva la sera del Giovedì Santo. Si ritiene che la sua genesi affondi le radici in quei movimenti religiosi che diedero vita a numerose associazioni religiose tra cui la Confraternita dei Disciplinanti. Nilo Calvini e Marco Cassini nello studio sul paese di Apricale fanno risalire l'origine delle confraternite a due movimenti religiosi: uno proveniente da Perugia nel 1260 e che si estese a tutta la Liguria; l'altro risalente al 1399, partito dalla Provenza e diffusosi nella Liguria occidentale. Una carta del 1263 citata nel volume di Girolamo Rossi, Storia del Marchesato di Dolceacqua e dei Comuni della Val Nervia (Bordighera, 1903) parla di una Conflaria (sta per Confraria o Confraternita) di Disciplinanti i quali, credendo che la lotta fra le diverse fazioni o paesi fosse un castigo del cielo, andava pubblicamente di paese in paese flagellandosi a sangue. Il corteo dei Disciplinanti, indossanti una lunga cappa con la croce bianca e rossa cucita sulle spalle, preceduto da un rozzo Crocefisso coperto da un ampio drappellone, percorreva i vicoli al canto dei versetti dello Stabat Mater e del Miserere. Più dettagliati ragguagli si riscontrano nel volume di Ludovico Giordano, Antichi usi liguri, ( Casale Monferrato, 1933) dove sta scritto che i penitenti "...facevano disciplina della recita del Miserere negli Uffizi dei Morti, negli Uffizi delle Tenebre e della Settimana Santa; facevano processioni espiatorie in occasione di pestilenze; tenevan attaccato al collo un cordone irto di lamine e di chiodi; talora all'estremità del cordone era attaccata una palla di cera indurita, irta di vetri appuntiti; a cotesti strumenti passò per traslato il nome di 'disciplina'. Le cappe portavano una apertura quadrata alle spalle onde permettere la flagellazione della parte nuda.” Occorre ricordare la Confraternita dei Disciplinanti, se si vuole trovare una spiegazione alla Processione del Giovedì Santo. Ed eccone le modalità. Poco dopo il tramonto, col calar delle prime ombre, la processione prendeva il via dall'Oratorio di Santa Croce da dove uscivano i Confratelli della Misericordia che avevano il compito di accompagnare un uomo il cui anonimato - solo i Confratelli dell’Oratorio e il prete erano a conoscenza della sia identità - era assicurato da un cappuccio che gli copriva interamente il capo. Costui vestiva un camice bianco, serrato alla vita da un cordone; una corda gli pendeva dal collo, ai piedi portava solo un paio di calze di lana, spesse e ruvide, nelle quali era stata inserita una suola. Sorreggeva per uno dei bracci una pesante croce di legno. Si trattava evidentemente di un peccatore che voleva così farsi perdonare tutti i suoi peccati. Il penitente, doveva percorrere un lungo Golgota che dall’Oratorio andava fino alla chiesa di San Rocco, fuori del paese, per poi riprendere la via del ritorno dopo una breve sosta davanti al cimitero. Il prete non prendeva parte alla cerimonia per cui l'aspetto religioso della manifestazione veniva ad essere dimezzato. Chi la organizzava erano i fratelli della Confraternita della Misericordia i quali, al completo, seguivano la processione, indossando camici bianchi e sanrocchini rossi sulle spalle; ognuno portava una candela accesa in una mano e il libro delle orazioni nell’altra. Il loro compito era anche quello di attorniare il penitente e di allontanare gli ostacoli disseminati lungo quella Via Crucis. Poi veniva tutto il paese alla rinfusa. Per l’occasione, lungo tutto il percorso, sui davanzali delle finestre venivano sistemati dei gusci di lumaca pieni d’olio e muniti di uno stoppino che, acceso, diffondeva attorno una tenue luce spettrale, e nel buio erano simili a lacrime di fuoco. Solo all’uscita del paese la processione acquistava una singolare particolarità in quanto, per consuetudine, chiunque aveva la facoltà di coprire di insulti l’incappucciato, di sputargli addosso, di colpirlo alle gambe e alle braccia con rami, di disseminare il percorso con pietre appuntite con rami spinosi e di scagliargli addosso zolle di terra friabile che, sebbene si sbriciolassero al primo impatto, lasciavano purtuttavia qualche livido. Una vera penitenza ! Ma non tutti i penitenti accettavano con rassegnazione la difficile prova per cui accadeva spesso che l'incappucciato, stanco delle sevizie, avesse delle incontenibili reazioni. Talvolta si limitava a bestemmiare come un turco, tal’altra, appoggiata la croce ad un muro, rincorreva i suoi seviziatori senza riuscire ad acciuffarli, ostacolato com’era dal lungo camice e dal cappuccio che gli impediva di vedere chiaramente. La processione allora si fermava per un poco e riprendeva non appena il penitente si rimetteva la croce in spalla per proseguire il suo calvario. Al rientro nell'oratorio il Priore delle Anime offriva al penitente e ai confratelli un piatto di frittelle di merluzzo e u fugassùn, una specie di torta pasqualina fatta con sole erbe. La tradizione fu rispettata fino al 1946, subito dopo la seconda guerra mondiale. L'anno successivo, dopo la morte dell'allora parroco Don Tornatore di Dolceacqua, il successore Don Seimandi, la abolì in conseguenza degli eccessi cui i giovani trascendevano (spesso le zolle venivano tirate anche a chi seguiva la processione) e perché, dal punto di vista religioso, capitava quasi sempre che l'incappucciato (l'ultimo della serie fu certo Pastore Federico), invece di procacciarsi indulgenze, aumentasse la somma dei suoi peccati con qualche serqua di colorite bestemmie quando zolle 'più compatte e sode' raggiungevano il bersaglio.
Il racconto: I gerani di gigino
- Gigino, guarda San Saverio come sta bene vestito da prete. Pensa quando anche tu indosserai quell’abito! Così gli aveva detto una volta zia Brigida (lui aveva quattro anni) nel dargli un santino colorato. La stessa scena si era poi ripetuta tutte le volte che zia Brigida era venuta a trovare sua madre ammalata e quando lui si era recato in visita dalla zia. Ora gli regalava un San Saverio,ora un Don Bosco, ora un San Vincenzo. Aveva la mania dei preti zia Brigida e voleva a tutti i costi averne almeno uno anche in famiglia. Povera vecchietta, non chiedeva poi tanto alla vita: solo un abito nero in mezzo a tutti quelli variopinti della sua famiglia! Per molto tempo questo suo desiderio era rimasto nascosto perché suo padre, socialista, e specialmente un suo zio, massone, ateo e miscredente, ogni volta che accennava ad una tonaca, oltre a toccar ferro o altro, se ne uscivano col loro slogan preferito. - Al mondo i preti son troppo pochi: bisognerebbe raddoppiarne il numero... tagliandoli a metà. S’intende, erano luoghi comuni e zia Brigida lo sapeva, ma tant'é ogni volta che li sentiva pronunciare era per lei un colpo al cuore. Però la sua piccola rivincita l'aveva avuta quando suo padre prima e lo zio qualche anno dopo, avevano mandato a chiamare ‘una tonaca’ in punto di morte. E’ proprio vero che certi uomini, per quanto si affannino a sostenere che Lui non esiste e che l’aldilà è solo una invenzione, alla fine una sbirciatina, tanto per sincerarsene, ce la vogliono dare. Ma perché si era detta zia Brigida in quelle occasioni, perché chiamare un prete, un estraneo? Non sarebbe meglio, ora che era rimasta sola e ricca, averne uno in famiglia, sempre a portata di mano? Ora poteva anche permettersi il lusso di fabbricarsene uno su misura facendo balenare, come uno specchietto per le allodole, la sua ricchezza che nessuno era mai riuscito a calcolare. E Gigino era stato la cavia prescelta. In casa sua si tirava il boccone con i denti e spesso e volentieri anche la cinghia; troppe erano le bocche da sfamare e pochi i bocconi. Ma questo stato di cose cessò il giorno in cui zia Brigida gli mise addosso gli occhi, due occhi cisposi che già vedevano il nipotino con la cotta bianca, ritto di fronte all'altare. Suo padre, disoccupato, non aveva affatto disdegnato l'interessamento della 'vecchia, spilorcia, baciapile' tanto che ci si era messo pure lui ad incitare Gigino ad avere la vocazione. Doveva essere stato uno sforzo tremendo il suo dato che era della stessa razza mangiapreti dello zio e del padre di zia Brigida. E così Gigino ogni giorno era costretto a sentir Messa: la domenica due, quella dell'alba e l'altra delle undici. Al pomeriggio doveva andare in chiesa per il Vespro e la sera per il Rosario. Tutto ciò sotto l'attento e vigile occhio di zia Brigida che provvedeva, oltre che alla salute dello spirito, anche a quella del corpo di tutta la famiglia. A dodici anni Gigino era entrato il seminario, accompagnato dalle raccomandazioni e dalla benedizione di zia Brigida. E il tempo era corso via lentamente tra quelle mura tetre, in mezzo all'odore incensi, ai canti gregoriani, mentre il suo corpo cresceva e la vocazione scemava. Spesso nella sua mente si affacciava una domanda: "Ma che ci faccio io qua dentro?” La risposta gli fu chiara quando ricevette dal padre un telegramma: 'Zia Brigida morta intestata. Stop. Eredità irrilevante. Stop. Decidi tu. Stop. Papa” Aveva deciso subito. Un breve colloquio col padre confessore, uno più breve col padre spirituale e poi fuori dal seminario per sempre. Nei primi giorni tutto gli era sembrato strano e aveva trovato difficile ambientarsi e prendere nuove abitudini. Si sentiva impacciato persino nell’indossare gli abiti, inconsueti per lui, troppo stretti, specialmente i calzoni (lui aveva sempre portato ampi mutandoni di stoffa leggera) che lo fasciavano eccessivamente e a contatto con le gambe e le cosce gli davano una strana sensazione. Esteriormente delle sue esperienze in Seminario era rimasto ben poco, niente anzi. Ma si accorse subito che qualcosa in lui era cambiato. Mentre prima i pensieri religiosi erano stati spesso e volentieri offuscati da visioni profane, ora erano le tentazioni quotidiane ad essere condizionate dalla paura del peccato, dal timore di cadere nella colpa religiosa. Spesso si sentiva sdoppiato e in lui combattevano due nature opposte. Era assodato in partenza che i desideri prima o poi avrebbero prevalso, ma il diavoletto buono, quello che tutti chiamano coscienza, non smetteva ugualmente di tormentarlo. Amore sensuale ed espiazione erano il succo della sua vita e il grafico era rappresentato da una serpentina continua. Prima il desiderio che saliva sino all'apice di quel grafico ideale, fino a raggiungere la colpa, poi l'espiazione che riportava la curva a zero. Dopo tutto ricominciava. Per sua fortuna Gigino, vinto un concorso per segretario municipale, era stato costretto a lasciare la sua città ed era stato inviato come Segretario Comunale nel paese di Isolabona. Un borgo di seicento anime; altezza sul mare 108 metri; economia: viti e ulivi; molte donne, alcune assai belle. Se fosse rimasto in città si sarebbe abbrutito completamente a forza di frequentare passeggiatrici da pochi soldi. In quel paese no. Era impossibile peccare troppo, anzi non era possibile peccare affatto. Tanto più che ora egli era diventato il primo cittadino dopo il Sindaco e quindi gli occhi puntati su di lui erano troppi. In un primo momento questo era stato un bene. Ci voleva un periodo di disintossicazione... femminile dopo l'ubriacatura post seminaristica. Si sa, l'ubriacone rinsavito é sempre tentato da un bicchiere di vino e Gigino in mezzo a quelle donne prosperose, dai seni traboccanti, dalle cosce rotonde come angurie ed altrettanto sode, a quelle donne simili a Veneri steatopigiche, aveva un bello stornare gli occhi, macché, sempre là puntavano In certi giorni poi Gigino soffriva terribilmente; il dolore gli serpeggiava in tutte le vene e lo spingeva ad essere brusco e scostante con gli altri. Ne sapeva qualcosa il sindaco, costretto a subirne gli scatti iracondi da quando aveva demandato a Gigino tutti gli affari relativi al Comune per cui, invece di essere il suo superiore, era diventato un suo dipendente. Le donne in paese erano divise in due categorie: le locali, più libere e, ma per niente cedevoli; e le donne immigrate dal sud, più restie, più riservate, ma non meno belle e ancor meno cedevoli. Su queste ultime Gigino si era fatto un’idea che affondava le radici nell’esperienza e nelle sensazioni da lui provate durante la segregazione in seminario. Allora aveva sempre pensato al mondo esterno come ad un luogo di delizie, d’evasione, un luogo luminoso ben diverso da quegli stanzoni bui dove lo costringevano a fare gli esercizi spirituali. Per quelle donne doveva essere lo stesso. Costrette dalla gelosia dei mariti o dei fratelli a vivere quasi sempre rinchiuse, paludate in abiti scuri, avvolte in scialli neri e con un fazzoletto che nascondeva i capelli, dovevano, com'era accaduto a lui, sognare una evasione, un'avventura, uno stato diverso da quello monacale a cui erano assuefatte ormai da secoli. Un mattino Gigino, dopo una notte di sogni strani, si era recato al lavoro di malumore; di malavoglia aveva risposto ad alcune lettere e sempre di malavoglia aveva risposto al Sindaco che gli chiedeva delucidazioni circa il taglio di pini in un bosco demaniale. Dopo, seduto comodamente su una logora poltrona, mentre stava leggendo il resoconto di una partita di calcio, una donna entrò senza bussare. Si vedeva a colpo d'occhio che non si trattava di una indigena. Poteva avere sì e no venticinque anni. Il viso ovale con tratti armoniosi era ravvivato da occhi neri, profondi, sensuali, occhi che, pur guardando ogni cosa non vi si soffermavano, ma la sfioravano appena per poi chinarsi a terra. Ma quel movimento di chinare il capo non denotava affatto timidezza, suscitava invece un istintivo desiderio di porle una mano sotto il mento per invitarla ad alzare il viso e di perdersi in quello sguardo profondo, tra quegli occhi resi più lucenti dai raggi del sole che penetrava dalla finestra. Una leggera peluria, quasi invisibile, le ombreggiava il labbro superiore, rendendo la bocca più accentuata, più sensuale. Gigino non l'aveva mai vista prima; forse era una delle ultime emigrate dal sud e probabilmente non aveva mai messo piede fuori di casa. - Desidera? - chiese alzandosi premuroso. Lei non rispose, se ne stava impacciata, avvolta nel vestito nero che la fasciava completamente e che dava al suo corpo, che doveva essere bello, un aspetto di anonimità. La donna, dopo aver nuovamente sfiorato Gigino con lo sguardo e dopo essersi soffermata un poco più del necessario nell'esaminarlo - in fondo era un bel giovane - aveva abbassato gli occhi e li teneva fissi a terra in un punto indeterminato. In attesa. - S’accomodi - disse Gigino, indicando una seggiola, - e mi dica che vuole. Lei si sedette sul bordo della seggiola e a voce bassa disse: - Signor segretario, vengo a nome di mio marito Salvatore. Per un piacere. Gli hanno offerto un posto di guardiano notturno al mercato dei fiori di Ventimiglia e occorre fare una domanda in carta bollata. Lui non sa scrivere, sa! Lei invece é istruito... se fosse così gentile... E lo guardò fisso porgendogli un foglio di carta bollata arrotolato. Come dire di no a quegli occhioni! Gigino si mise subito al lavoro e si sedette alla macchina per scrivere. - Qual é la ditta che lo dovrebbe assumere? - Il Mercato dei Fiori . - Come si chiama suo marito? - Salvatore. Salvatore Chillemi, nato a Enna. - Professione? - Ma non ce l'ha! - rispose stupita la donna e aggiunse: - La sta cercando. - Ah, già! Lei si chiama? La domanda gli era venuta istintiva anche se non serviva ai fini del documento. La donna se ne accorse e, reprimendo un sorriso, rispose - Santa. Gigino finì di scrivere, poi, porgendo il foglio alla donna, chiese: - E' da molto che abita in paese? - Due mesi domani. - Strano, non l'ho mai vista. - Oh, ma io sì. Abito proprio di fronte a lei. Tra il suo balcone e la mia finestra c'é solo un tetto che ci divide. Io spesso la guardo quando prende il sole sul balcone e legge. Un campanellino trillò nella mente di Gigino. Quell'ultima precisazione di Santa non era richiesta, eppure lei l’aveva fatta anche se dopo, abbassato timidamente lo sguardo, si era alzata e si era avviata verso la porta. Da quel giorno Gigino si era messo a coltivar gerani sotto gli occhi stupiti dei vicini. Quel giardinaggio casalingo era stata l’unica trovata che gli aveva permesso di sbirciare impunemente nella casa di fronte e di vedere di tanto in tanto Santa che gli faceva dei piccoli cenni di nascosto dal marito. La curva del grafico di Gigino cominciò in quel tempo a salire, a salire sempre più in alto. Un giorno Salvatore ebbe la notifica della sua assunzione e quella sera stessa partì in Lambretta per iniziare i suoi turni di notte con grande gioia di Gigino e di Santa che non potevano ammettere che un marito rimanesse disoccupato troppo a lungo. Anche Gigino quel giorno cominciò il suo turno di notte. L'indomani, però, la curva ebbe una brusca impennata e discese decisamente. Solo a posteriori l'ex seminarista si era accorto di aver infranto un comandamento, il decimo. Si pentì, si pentì amaramente e andò in chiesa ad inginocchiarsi e a recitare il 'mea culpa'. Ne ebbe un gran sollievo e promise a se stesso di non affacciarsi più a quel peccaminoso balcone. .Solo che, dopo tre giorni, si accorse che i gerani avevano sete, una sete fenomenale, tanto da avere i fiori penzolanti e i gambi molli; occorreva acqua per raddrizzarli. E quella sera Gigino, dopo aver sentito lo scoppiettìo della Lambretta di Salvatore che partiva, innaffiò i gerani e poi, attraversato il tetto, andò anche lui a dissetarsi da Santa che lo accolse a braccia aperte. Santuzza era un amore. Gli sorrideva sempre felice e a lui piaceva accarezzare quella pelle vellutata, simile ad una pesca appena colta; ne aspirava il profumo che gli ricordava l'odore degli aranci, dei bergamotti e delle zagare. Unico testimone di questa beatitudine era Ciccio, un cagnolino che Salvatore aveva addestrato a tener lontani gli importuni da Santa, ma che Gigino si era fatto amico con alcune leccornie, tanto che ora, quando entrava di notte dalla finestra, rimaneva indifferente a dormire su una poltrona. Salvatore non si era ancora accorto di nulla, anche se aveva notato uno strano cambiamento in Santa. Era più calma, meno esigente e, quando poteva, lo evitava con una scusa. " Che mi tradisca?" pensò un giorno. No, non era possibile. Glielo aveva detto chiaro e tondo: - Bada, Santuzza, sono terribile nella vendetta! - E il tono con cui aveva proferito la minaccia aveva apparentemente scosso la donna. Eppure Salvatore non era tranquillo affatto; ma come effettuare controlli se ogni notte era costretto a lavorare al mercato? Si avvicinava intanto la Pasqua e Gigino un po’ per consuetudine, un po' per convinzione, si recò in chiesa per confessarsi. Non aveva però previsto la reazione del vecchio prete, quando gli confessò i suoi rapporti con Santa. Credette quasi che quello uscisse fuori dal confessionale tanto era adirato: lo sgridò, lo redarguì, lo invitò a pentirsi e a scacciare da sé il demonio. Tanto disse e tanto fece che la curva di Gigino cadde a zero e il desiderio di pentirsi, di pentirsi completamente, totalmente, lo afferrò - Come posso fare, padre? Mi dia una penitenza che mi prostri, che mi impedisca di pensare ad altro. - Ce n'é una, figliolo: dovresti fare il Cristo nella processione del Giovedì Santo. Che ne dici, eh? Ma per farlo occorre il tuo consenso. Gigino ci pensò un poco. Aveva sentito spesso in quei giorni parlare della processione, ma non ne aveva mai visto una. - Sta bene, padre. Accetto. Che debbo fare? - Giovedì, prima della processione, vieni in sagrestia e ti dirò tutto Dopo l''ego te absolvo' se n'era andato ripensando alla promessa. **************** La Processione del Giovedì Santo era una prerogativa di Isolabona, unico paese in tutta la vallata ad effettuarla. Iniziava al calar delle ombre della sera, muovendosi dall'Oratorio di Santa Croce, adiacente alla chiesa. Di lì uscivano i Confratelli della Misericordia che accompagnavano un incappucciato che portava sulle spalle una Croce tenendola per uno dei bracci e lasciando strisciare per terra quello più lungo. Costui, sconosciuto alla popolazione per tutto il tempo della cerimonia, aveva una corda al collo, una corona di spine in testa e i piedi fasciati in pesanti calze di lana. L’incappucciato, in testa alla processione, seguito dai Confratelli della Misericordia in camice bianco, avvolti in un sanrocchino viola e la testa coperta da un’infula bianca, doveva andare fino alla chiesa di San Rocco, poco fuori del paese, poi ritornare verso il Cimitero, sostare brevemente di fronte alla Chiesa della Madonna del Grazie e rientrare quindi nell’Oratorio di Santa Croce. Drante il tragitto la popolazione aveva la facoltà di tirare all'incappucciato zolle di terra, di colpirlo con vincastri, di seminare per terra, dove passava, roveti, spine, chiodi. Questi ultimi particolari Gigino non li conosceva e don Filippo si era ben guardato dal comunicarglieli. C'era sempre una certa reticenza nelle parole di tutti quando si trattava di parlare di quei particolari. Il giorno successivo, infatti, il Venerdì Santo, nessuno ammetteva di aver scagliato zolle o seminato spine. Tutti asserivano di aver assistito compunti alla cerimonia religiosa; eppure le ecchimosi sul viso e sul corpo di uno di loro non erano certo opera dello Spirito Santo. Finalmente quel giovedì, il giovedì di passione e di espiazione per Gigino, arrivò. Nei giorni che lo precedettero non aveva più rivisto Santa. Aveva lasciato che i gerani appassissero per mancanza d'acqua e si era preparato con coscienza alla prova che lo attendeva. Sentiva solo un po' di vergogna qualora si fosse risaputo che era stato lui a portare la croce e per questo era contento di dover indossare camice e cappuccio, così nessuno lo avrebbe riconosciuto. Dopo la confessione si era a questo proposito messo d’accordo con don Filippo. Sarebbe andato al tramonto in casa sua, avrebbe indossato saio e cappuccio senza che nessuno lo vedesse e, accompagnato dal prete, avrebbe raggiunto l’oratorio, mantenendo sotto quella copertura il più rigoroso incognito. Terminata la cerimonia, don Filippo lo avrebbe riaccompagnato in canonica. Molto semplice, almeno in apparenza. La faccenda cominciò invece ad ingarbugliarsi quando don Filippo, mentre lui si stava vestendo in canonica, gli chiese: - Figliolo, non vorrai mica andare con le scarpe ai piedi? - Perché, debbo forse andare scalzo? - Lo esige la tradizione. Hai portato le calze di lana? - Io no - rispose stupito Gigino - per farne che? - Ma lo sai almeno come si svolge la processione? Quando lo seppe gli venne voglia di buttare camice e cappuccio in un angolo, ma si trattenne. Indossò l'una sull'altra tre paia di calze ruvide e spesse che il prete gli imprestò, intercalando tra l'una e l'altra una spessa suola di cartone e, dietro la promessa che don Filippo gli fece di avvertire la popolazione a non abbandonarsi ad atti inconsulti e a moderarsi, uscì dalla canonica per recarsi all'Oratorio. Lì trovò tutto pronto. La Confraternita della Misericordia al completo, con i ceri accesi e il libro dei salmi in mano, aspettava solo lui, novello Cireneo, che avrebbe dovuto portare la croce per tutto il percorso. Questa gli fu messa addosso. “Accidenti quanto pesa!” pensò. Poi gli venne legata una corda al collo e venne spinto verso il portone. Davanti all’Oratorio c’era già una gran folla che fece ala quando vide il portone aprirsi e l’incappucciato uscire trascinando la pesante croce. E subito le domande cominciarono ad intrecciarsi. - Chi é? - Non lo so. - Mi sembra il figlio della Menica. - Macché! Questo qui é più alto, non lo vedi? Ed ha anche le spalle più quadrate. - E se fosse il macellaio? Ho sentito dire che aveva proposto alla Confraternita di portarla lui la croce. - Buono quello! Sa portare solo quarti di manzo. - Già, e darti anche un sacco di scarti per fare il peso. E poi, non lo vedete là il macellaio, in mezzo alla folla. - Ma allora, chi é? Gigino con apprensione seguiva i vari discorsi mentre Don Filippo, prima che la processione si avviasse, parlò ai presenti. - Parrocchiani, anche quest'anno, come nei precedenti, si rinnova la tradizione. Come sapete, io non vi posso partecipare, ma gradirei rivolgervi una fervida preghiera e cioè che da parte vostra vi fosse più compunzione e senso religioso e non si giungesse agli eccessi dello scorso anno. Come ben ricordate... A questo punto Gigino cessò di ascoltarlo. A due passi da lui, avvolta in uno scialle nero c'era Santa in compagnia di Salvatore. Il peccato che veniva ad assistere alla sua espiazione! L'incappucciato si volse di scatto verso il lato opposto per non tradirsi. Avrebbe voluto mettersi subito in cammino, ma don Filippo non la pensava così: continuava ad esortare e a raccomandarsi. Fu allora che successe il guaio. Ciccio, il cane di Santa, sbucato in mezzo alla folla, evitando i piedi dei presenti, si diresse verso Gigino facendogli mille feste e saltandogli addosso uggiolando festosamente. Fortunatamente un confratello gli allungò una pedata e il cagnolino scappò entrando nell'Oratorio. Pochi si erano accorti dell'incidente, ma tra quei pochi c'era Salvatore. Quando vide il suo cane fare le feste all'incappucciato, un dubbio atroce lo assalì e il dubbio fu rafforzato da un gesto che fece la sua Santuzza quando vide la scena. - Santuzza, componiti! - ringhiò a denti stretti. ‑ Composta sono - rispose quella con un sospiro. Ormai il cane li aveva involontariamente traditi Gigino di sottecchi vide Salvatore accigliato che rimuginava l'accaduto e ne traeva le conclusioni. Fortuna per lui che era incappucciato ed attorniato da molta gente; solamente ciò impedì un atto inconsulto da parte del marito geloso, costretto a rimanere anche all'oscuro circa l'identità del probabile amante di sua moglie. Eppure, pensava Salvatore, non deve passarla liscia quello là. Anche se non sono proprio sicuro che Santuzza mi tradisca, nulla mi vieta di fare come gli altri: se mi ha messo le corna, sarà una vendetta; se no, contribuirò alla buona riuscita della processione. E, lasciata la moglie, si era diretto verso le ultime case del paese dove un gruppetto di giovinastri e ragazzi si era radunato in attesa dell'incappucciato. Ognuno teneva in mano un vincastro col quale avrebbe colpito il penitente e tutti si erano dati un gran daffare per cercar rovi, spine, sassi appuntiti da porre lungo il tragitto. Il secondo atto, il lancio delle zolle, si sarebbe svolto dopo, all'altezza cioé dei primi orti, là dove c'era materiale in abbondanza e a portata di mano. Salvatore si unì al gruppo dei più scalmanati e attese con impazienza. Gigino, intanto, aspettava. Ora avrebbe voluto che don Filippo continuasse a parlare, all'infinito; aveva visto Salvatore partire precipitosamente ed un oscuro presentimento gli diceva che quella sera ci sarebbero stati dei guai per lui. Ma don Filippo terminò la sua esortazione e guardò Gigino avviarsi. La folla si aprì e l'incappucciato attorniato dai confratelli cominciò a camminare lentamente trascinando la croce, imboccando la discesa che dall'Oratorio porta alla strada provinciale. Un tragitto, quello, di nessun pericolo. Il Priore della confraternita intonava i mottetti leggendo dal Libro dei Salmi e qualcuno rispondeva, ma la maggior parte discuteva d'altro: del raccolto, delle vigne, degli uliveti, degli orti. Altri continuavano a chiedersi chi fosse quel 'coraggioso' che guidava la processione e se fosse a conoscenza dei guai verso i quali andava incontro. Quando l'illuminazione stradale cessò e Gigino si trovò di fronte alla strada buia, rotta solo dai vaghi e fiochi chiarori che le candele dei suoi accompagnatori mandavano all'intorno. La croce sembrò aumentare di peso e il bordo del legno gli si ficcò nella spalla dandogli un atroce dolore. 'Ah, Santuzza, Santuzza, quanto costano i tuoi baci!' - pensò. E subito dopo imprecò tra i denti: 'Mondo boia!' , sentendo una spina piantarglisi in un piede. Si arrestò di colpo facendo fermare la processione e, stando in bilico su una gamba, dopo aver affidato l'equilibrio precario della croce ad una sola mano, tentò con l'altra di strapparla, ma non vi riuscì perché perse l'equilibrio e se non fosse stato trattenuto, sarebbe caduto sotto la croce. Riprese quindi il cammino zoppicando, rallentando il passo e cercando più con i piedi che con la vista di scartare gli ostacoli dal terreno. Fu allora che i Farisei si scatenarono. All'improvviso infatti sentì alcune scudisciate colpirlo a tradimento sulle spalle, sul corpo, sulle gambe. Quanto più cercava di evitarle, tanto più quelle piovevano da tutte le parti, insistenti, continue, con forza. Ad intervalli poi gli arrivava un colpo feroce, secco, tagliente. Dava l'impressione che chi lo vibrava ci mettesse tutta la sua forza. La prima volta gli strappò un mugolìo di dolore; la seconda gratificò l'ignoto autore con un - Maledetto figlio di un bastardo! Quando intravide, al lume delle candele, Salvatore in mezzo a quella masnada scatenata, capì chi era l'autore di quella fustigazione e gli venne il sangue alla testa. - Porco fottuto, Salvatò, - digrignava tra i denti - maledetto qual sei, ne approfitti senza ritegno, eh? Dai, picchia, cane schifoso, ma con tua moglie... Dio che botta! Il pensiero fu interrotto da una zolla di terriccio che venne a spiaccicarglisi sul cappuccio, lasciandolo mezzo intontito e facendogli ronzare un orecchio per il colpo. Era iniziata la seconda parte dello spettacolo. Stavolta però Gigino non era più il primo attore. Anche i Confratelli della Misericordia venivano presi di mira. Le loro candele accese e il breviario aperto in mano erano bersagli troppo allettanti per lasciarseli sfuggire. Al Miserere mei Deus intonato da un confratello, aveva fatto riscontro un: - Ma Cristo, fate attenzione, porcacci schifosi! - di un confratello colpito in pieno sul breviario che gli era caduto a terra. - Dio ti mandi un colpo! - gli aveva fatto eco un compagno a cui era caduta a terra la candela che si era spenta e andava cercandola tastando con una mano il terreno cosparso di spine - Ma sacramento, andate tutti a farvi castrare! - esclamava intanto un terzo che, colpito in pieno viso da una zolla, andava avanti a tentoni cercando di togliersi il terriccio dalla bocca e dagli occhi. La gente al seguito continuava a salmodiare ad alta voce e a seguire quanto accadeva intorno all'incappucciato. Gigino si sentiva un poco sollevato perché ora divideva l'espiazione dei suoi peccati con i Confratelli che lo accompagnavano. Non che fossero tutte rose e fiori. Ad intervalli gli arrivavano dei colpi tremendi che lo facevano traballare. Di certo dovevano lasciare certi lividi da indurlo a non uscire di casa per alcuni giorni. Intanto dietro di lui i versetti del Miserere si andavano mescolando sempre più a serque di bestemmie che sembravano sfilze di giaculatorie. Di ciò si accorgevano coloro che stavano più vicino a chi era colpito perché, a parte qualche imprecazione che scappava ad alta voce, strappata da un colpo più violento, le altre venivano pronunciate sullo stesso tono del Miserere, mescolando così sacro e profano senza preoccupazione alcuna. Era ormai nella prassi che la cerimonia seguisse quel canovaccio. Da decenni succedeva la stessa cosa. Una variante al Miserere erano le litanie perché meglio si adattavano alla bisogna e alla necessità di sfogo che la situazione richiedeva. Capitava spesso di udire, intercalate ai mottetti, frasi come: - Turris eburnea. - Porcu maledettu! - Una zolla era giunto a destinazione. - Speculum justitiae. - Te vegnisse un furmine! - Un'altra zolla. - Refugium peccatorum. - Gran figliu de una troia! - Stavolta era un sasso arrivato a segno. Pur avendo la testa frastornata, un ronzìo continuo agli orecchi, il corpo ammaccato in molte parti e una grande stanchezza addosso per quella croce che ora pesava enormemente, Gigino tra una zolla e l'altra rifletteva su quella strana processione e si chiedeva quali frutti potevano trarne coloro che vi prendevano parte e lui specialmente che vi era andato col preciso scopo di redimersi dai suoi peccati. Era questa una redenzione? O non aveva ancora più gravato la coscienza con altri peccati? Si pentì allora di essersi lasciato convincere da don Filippo. Poi si pentì di essersi pentito. Andò avanti così fra un pentimento e un ripentimento, ormai insensibile ai colpi, finché non vide di nuovo davanti a sé la porta dell'Oratorio. Gli venne tolta la croce dalle spalle, ché lui non aveva più la forza di fare un benché minimo sforzo, poi, accompagnato dal prete che era stato in attesa del suo ritorno, rientrò in canonica. Si tolse il camice sporco di terra, gettò via il cappuccio, si levò le calze piene di spine e, uscito dalla porticina che dava sull'orto, giunse a casa sua senza incontrare nessuno. Una volta in camera si gettò sul letto, ma il sonno non venne. Ripensava a quella tremenda serata, a Ciccio il cagnetto che lo aveva involontariamente tradito, a Salvatore scatenato, alle bestemmie dette e sentite. Lo distolse da quei pensieri lo scoppiettìo di una Lambretta che si allontanava. - Salvatore va al mercato - pensò, - quindi Santuzza rimane sola anche stasera. Allora si ricordò che i gerani avevano sete. Dolorante, pesto, stanco, prese la via del tetto e bussò alla finestra di Santa. Quella aprì. - Bella madre di Dio! - esclamò la donna vedendo il suo viso tumefatto e aprì le braccia per accoglierlo. E quella notte Gigino poté così aspirare ancora il profumo del bergamotto, delle lumie e delle zagare.
LA PROCESSIONE DI SAN SEBASTIANO
La tradizione
L'ultima processione risale all'anno 1928. Si trattava di uno strano rito la cui origine sembra essere legata ad un periodo di pestilenza che colpì tutta la regione. Il suo svolgimento era alquanto singolare. Il prete in testa al corteo attraversava le vie e i vicoli illuminati fiocamente da centinaia di luci prodotte da lumi ad olio posti sui davanzali e dalle immancabili file di gusci di lumaca riempiti di olio e muniti di uno stoppino. Dopo un inizio calmo, durante il quale i fedeli intonavano le litanie dei Santi e si chiedeva a San Sebastiano di tener lontana la peste, il prete, all’improvviso, accelerava il passo e cominciava a correre mentre i partecipanti, in particolar modo i giovani, lo inseguivano al grido di “Piglieiru! Piglieiru! (Prendetelo, prendetelo!) Il perché di tale processione viene spiegato da G.C.Pola Falletti nella sua opera Associazioni giovanili e feste antiche: le loro origini, vol. 4°, Milano, 1939, in cui si legge: "Tale processione facevasi in adempimento di un voto fatto dal parroco di quella comunità per liberarla dalla pestilenza forse nel XV secolo. Quel parroco avrebbe assunto per sé e per i suoi successori il pio impegno di farsi vilipendere nel percorso di detta processione. Così avveniva che egli fosse rincorso dalla gioventù, provocando scompigli poco adatti alla serietà della cerimonia che fu soppressa." E a sopprimerla fu il parroco Don Tornatore di Dolceacqua, uomo di indole schietta, un poco irascibile, che non tradiva la sua origine contadina. Avendo notato l'intemperanza dei giovani, che raggiungevano sempre eccessi non consoni al rito, vi pose fine. Una spiegazione della ragione per cui quel primo parroco promosse la processione nel giorno di San Sebastiano, potrebbe trovarsi nel fatto che, secondo quanto è stato tramandato, quel sacerdote, durante una pestilenza, non aveva ritenuto opportuno, per incolumità personale, entrare nelle case degli appestati per impartire l'estrema unzione. Non volendo aver contatti con i moribondi, si era limitato a camminare velocemente per tutti i vicoli e a impartire una breve benedizione rivolto verso l'uscio dei morenti. Cessata la peste e resosi conto di essere venuto meno ai suoi doveri, costui promosse quel rito, lasciandolo in eredità - come spiega il Pola Falletti - ai suoi successori.
Il racconto : Elio e gli scacchi
La prima volta che vide una scacchiera con tutti quei pezzettini di avorio bianchi e neri, Elio aveva otto anni, la stessa età in cui Rzeschewsky vinceva grandi maestri con una facilità tale da far pensare che il gioco degli scacchi fosse affine a quello degli aliossi. A dir la verità quella prima volta il gioco così statico, lungo e monotono, non lo aveva interessato affatto e si era dimenticato subito della sua esistenza. Fu solo a dodici anni, l'età in cui Capablanca già dava scacco matto a eccelsi giocatori, che si riaccostò al gioco, stavolta per impararlo. Era stata la rottura di una gamba ad aprirgli mondi favolosi pieni di re, di regine, di cavalli e di torri che avevano popolato la sua fantasia divisa in minuscoli quadratini neri e bianchi. Da allora aveva seguitato a giocare con quei personaggi fiabeschi fino a farne uno scopo della sua vita. C'è gente che questo scopo lo trova nell'alcool, nel lavoro, nel vizio: lui l'aveva trovato negli scacchi. Quasi senza accorgersene, terminate le magistrali, si era ritrovato pedagogo, scacchista perfetto e repubblicano convinto e questa sua ultima convinzione la doveva proprio agli scacchi. Molto spesso, negli ultimi tempi, vivendo le partite con la stessa intensità con cui altri vivono le esperienze amorose, si era accorto di parteggiare per quelle povere pedine derelitte, gettate allo sbaraglio al solo scopo di aprire una strada ora al re, ora alla regina, ora ai cavalieri. A metà partita quella povera plebe indifesa o difesa con un falso scopo si trovava decimata, ridotta a metà, a un terzo, mentre lui, il re, troneggiava impettito in fondo alla scacchiera, spesso arroccato, con una torre che gli proteggeva il fianco. Che le angherie alla plebe fossero una ingiustizia era palese, quello che non gli andava giù era che le ingiustizie e le angherie a danno del popolo entrassero pure nei giochi. Aveva quindi preso ad odiare i re per cui il suo gioco era divenuto assai strano e contorto. Quasi sempre, mentre da un lato si gettava con tutte le sue forze sul re avversario per annientarlo, dall'altro, nel difendere il suo re, agiva in modo così bizzarro e sconclusionato da far ammattire l'avversario e da far venire i sudori freddi al suo misero re. Nei periodi in cui più acuta era la sua mania regicida, emulava molto spesso Aliechin, giocando dieci, dodici partite per volta e mettendo in difficoltà dozzine di re. Nemmeno l'ultimo conflitto mondiale, di cui era stato anche lui una pedina, lo aveva scosso da questa mania, anzi, caduto prigioniero degli inglesi a El-Alamein, aveva trascorso una prigionia dorata fatta di lunghe partite, di interminabili ore passate di fronte a quel minuscolo campo di battaglia in cui aveva mosso con perizia le sue armate molto meglio di quanto non avesse fatto Rommel in Africa o Eisenhover in Europa. Ma poi, finita la guerra, era ritornato a casa e in un momento di abbandono, lontano dalla scacchiera, aveva sposato una ragazza assai più giovane di lui. Al ritorno dal viaggio di nozze, quando la novità del matrimonio non fu più tale, il vecchio amore sopito, ma non dimenticato, ritornò di colpo prepotente e insistente. Elio, vinto un concorso per maestro e inviato a Isolabona, un minuscolo paese della Liguria di Ponente, aveva stentato assai prima di trovare un antagonista degno di competere con lui nel difficile gioco degli scacchi. Le conoscenze dei modesto villici non andavano oltre una partita a tresette o a scopa o a tarocchi, giocata nell’osteria del paese, in mezzo ad un vocìo continuo e persistente dove la concentrazione che gli scacchi richiedono non era nemmeno immaginabile. Di insegnare il gioco alla moglie neanche a pensarci. Elda avrebbe preferito fare un bucato piuttosto che mettersi a ponzare su quei pezzettini di legno - perché scacchi di avorio lui, modesto maestro, non sarebbe mai riuscito ad averne. Non che Elda facesse dei bucati molto spesso; per la verità non ne aveva mai fatto uno. Ma Elio la pensava così tanto per aver un termine di paragone. Elda preferiva, invece, passare ore e ore davanti allo specchio, a trascorrere il tempo leggendo frivole storie d'amore su romanzetti da quattro soldi, a guardare soap-opere o telenovelas alla televisione, a sognare ad occhi aperti o a spettegolare con la moglie del sindaco e del segretario comunale. Da quei conciaboli lui si sentiva escluso, in parte perché i pettegolezzi lo infastidivano, in parte perché si sentiva vecchio, più vecchio di quelle tre pappagalline cinguettanti. Però, a forza di cercare, un amico se l'era trovato pure lui, a sette chilometri dal paese, nel vicino borgo di Pigna: il medico condotto, fanatico anche lui di scacchi. Il dottor Manzi non aveva fatto in alcun modo degli scacchi una ragione di vita; li aveva accettati come l'unico mezzo capace di rompere la monotonia di una vita paesana e l’unico modo possibile per impedire che la mente si ottundesse. Il “nulla die sine linea” dello scrittore era diventato per lui "nessuna settimana senza una partita". Di comune accordo con l'amico maestro, aveva deciso di dedicare il mercoledì e il venerdì sera agli scacchi e Elio in quelle due sere partiva contento con la sua motoretta alla volta di Pigna. Come "campo di battaglia" avevano infatti scelto la casa del medico: un ambiente più calmo, più raccolto, privo di chiasso e di donne. Il dottor Manzi era scapolo e l'unica donna che bazzicava la casa era una vecchia zia che si ritirava presto la sera in camera sua a biascicar rosari e a cadere presto nel sonno tra una Avemaria e una giaculatoria. Durante quelle poche ore Elio dimenticava tutto: dimenticava gli alunni che lo facevano ammattire, i compiti da correggere, il non lauto stipendio. Tutto veniva temporaneamente gettato dietro le spalle; rimanevano solo torri, re, regine, alfieri, cavalli e pedine a popolare la sua mente e a divertirlo. Anche Elda passava nel dimenticatoio. Strano matrimonio il loro! Perché lei, più giovane, bella, avesse sposato proprio lui non l'aveva mai capito, pur essendoselo chiesto più volte. Lui, non bello, non brillante, ricco ancor meno, s'era trovato sposato a quella donna quasi senza saper come. C'erano stati pettegolezzi che gli erano giunti all'orecchio nel breve tempo del corteggiamento, ma li aveva tutti allontanati con fastidio e noia come si cacciano i noiosi tafani che d'estate si posano sulla pelle per pungerla a sangue. Subito dopo il matrimonio lui l'aveva amata intensamente, poi col passar del tempo le aveva voluto bene e ora la considerava come una cosa cui si è attaccati e se anche non la si desidera più ardentemente purtuttavia la si tiene come una reliquia e guai a chi osa profanarla. Che la Elda fosse una reliquia era cosa ben lungi dalla verità. Le teche e le urne non facevano per lei e tanto meno le piaceva essere lasciata sola nell'intimità del santuario casalingo. Le prime sere in cui Elio la lasciò per recarsi dal suo amico dottore le trascorse facendo visita alle sue amiche, ma alla fine si stancò dei soliti pettegolezzi, delle solite partite all'uomo nero, inframmezzate da discorsi vacui, inutili senza sugo. E cercò qualcos'altro. Ma quale svago poteva offrirle quella monotona vita di paese se non quello di tradire il marito? Qualcuno forse arriccerà il naso al solo pensiero che il tradimento sia uno svago, ma in effetti è proprio così. Il tradimento non è altro che una piacevole distrazione; se poi ad esso si aggiunge un pizzico di 'suspense' allora il cocktail che ne vien fuori è qualcosa di veramente eccitante. Prendiamo ad esempio il tradimento in un paese. In quell'ambiente così ristretto il pizzico di 'suspense' è dato dalle difficoltà che sorgono e che impediscono di poterlo attuare liberamente. Il tradimento in città è assai più semplice. In città te ne puoi andare nel primo alberghetto un po' fuori mano e puoi essere sicura che nessuno si accorgerà di nulla, ma in paese? Vai forse all'unica locanda dove tutti ti conoscono? Oppure te ne vai nei campi dove può spuntare sempre qualche contadino a chiederti: - Buongiorno, signora, suo marito come sta? In un paese quindi il tradimento è assai più difficile, ma al tempo stesso più stimolante. Le difficoltà da superare fanno parte del gioco e le astuzie, i sotterfugi, sono la componente stessa del piacere che si acuisce quanto più ardue sono le difficoltà e quanto più machiavelliche le astuzie adottate. Nel caso di Elda però le precauzioni prese non erano né elaborate, nè sottili. Data la conformazione della casa ad un solo piano e con un minuscolo giardino, la sola astuzia adottata per non farsi sorprendere dal marito era stata quella di porre il secchio della spazzatura dietro la porta; se Elio fosse arrivato, l'amante avrebbe avuto tutto il tempo di fuggire dalla finestra nel giardino e di dileguarsi nella notte. Case all'intorno ce n'erano poche e sulla destra poi l'enorme mole della chiesa gettava l'ombra, nelle notti di luna, su tutta la casa. Favorita quindi dalla natura del luogo e ancor più dall'innocente passione del marito che la lasciava sola per due sere alla settimana, Elda si era messa a giocare pure lei con un giovane commesso di banca, un ragazzone bruno, atletico, bello come una scultura greca, ma fatuo e vuoto come una campana. In certi divertimenti però l'intelligenza conta molto poco. I mercoledì e i venerdì passarono quindi allegramente per i due coniugi, mentre gli altri giorni erano meno monotoni perché occupati dal ricordo e dall'attesa. Purtroppo c'è sempre l'imprevisto a guastare le cose e negli umani rapporti. Esiste, infatti, un sentimento che, pur essendo buono, gentile, lodevole, finisce un bel momento per rovinare le cose. Questo sentimento è l'amicizia. Un buontempone disse una volta: "Una delle più grandi consolazioni di questa vita è l'amicizia e una delle consolazioni dell'amicizia è avere qualcuno cui confidare un segreto. Ora - proseguì quell'indimenticato conoscitore dell'animo umano - gli amici non vanno a due a due come gli sposi, ma ognuno di noi ne conta più di uno per cui un segreto rapidamente si spande, si allarga a guisa di macchia d'olio su una carta assorbente.” Con una sottile intuizione i cinesi hanno spiegato questo caso facendo uso di una matematica a dir poco strana, ma efficace. "Se tu solo sai un segreto, sta pur certo che esso rimarrà sempre tale. Se però tu lo sveli ad un amico, sappi che sarete in undici a saperlo perché tu, 1, accanto al tuo amico, lui pure 1, farete 11; se poi tu lo dirai, sempre per amicizia, ad un terzo sarete tre 1, cioè 111 e così via. Quando un segreto è in possesso di sei, sette persone è ormai di dominio pubblico." C'è però una ben più solida amicizia di cui né il benpensante su accennato, né i cinesi hanno tenuto conto nelle loro considerazioni: una amicizia disinteressata per la quale un segreto rimane tra due persone e resta così segreto che una delle due non conoscerà mai il volto dell'altra. Ne conoscerà solo le lettere, quelle anonime, quelle appunto che servono per svelare il segreto. E un bel giorno Elio tra una lettera della nonna e una circolare ministeriale ne trovò una scritta con una grafia a zampe di gallina che diceva: "Charo amiqo tua molie ti tradisce. Un amiqo". Ecco dove si vede la vera amicizia disinteressata anche se analfabeta ! Allo choc iniziale che l'aveva colpito si era aggiunto un fastidio, un'uggia per quegli errori, anzi orrori di ortografia che a lui, maestro di scuola, sembravano altrettanti insulti. Ma poi si era fatta strada nella sua mente l’altra idea, quella di Elda e la grammatica gli era parsa nulla al confronto. Elda tradirlo! Ma come e perché? L’aveva forse mai tradita lui? pensò. No! E allora perché lei sì! Che le aveva fatto per spingerla su quella china? Nel suo studiolo, con la lettera mezzo sgualcita in mano, andava su e giù come un vecchio orso ingabbiato, con la testa in fiamme e il cuore pesante. "Che fa un uomo - si chiese - quando riceve una lettera simile?" Cose da fare ce n'erano molte ma tutte impossibili all'apparenza. Poteva chiedere chiaro e tondo a Elda se lo tradiva: ma oltre ad essere una domanda per lui difficile da porre alla moglie, la Elda avrebbe sempre potuto mentire, anzi avrebbe certamente mentito. E' mai possibile immaginarsi che una donna alla richiesta del marito: "Mi tradisci?" lei risponda:"Sì, perché?” Risolvette quindi di confidarsi con l’amico dottore. Quel mercoledì sera partì a malincuore e per la prima volta in vita sua giocò male a scacchi. ‑ Che ti succede, Elio, non ti senti bene? - gli chiese l'amico dopo aver vinto due partite e in procinto di vincere la terza. - Non mi sembri tu stasera. Qualcosa non va? - Sì, qualcosa non va, ecco, guarda tu stesso! - Trasse di tasca la lettera spiegazzata e la porse al medico. Il dottor Manzi inforcò gli occhiali, la lesse, guardò in viso Elio, la rilesse e gliela porse - E allora? - chiese Elio aspettandosi una soluzione - Eh, amico mio! - rispose l'altro allargando le braccia. - Chiedimi come si fa una laparatomia e all'incirca te lo spiegherò, ma in queste cose che vuoi che ti dica E poi io tua moglie la conosco appena . - Ma ti sembra possibile che Elda abbia potuto farmi una cosa simile? - Eh! - rispose il dottore, aprendo di nuovo le braccia con gesto rassegnato. - Ma quando è potuto accadere? - Questo non è poi molto difficile da stabilire - fece il medico.- Ritengo che il mercoledì e il venerdì siano i due giorni più probabili. Tu qui a giocare a scacchi e lei là... - Ah, ma io mi vendico, oh se mi vendico! - fece Elio, sentendo l'ira assalirlo improvvisamente. ‑ Adesso non esagerare, - intervenne l'amico vedendolo infuriarsi e agitarsi. - Quando si sa che il male c'è, occorre trovare la cura più adatta e non un rimedio controproducente. Per prima cosa devi essere sicuro che la lettera anonima dica la verità. In seguito dovrai tu stesso trovare una soluzione, sei d'accordo? Elio approvò scuotendo il capo. Stettero tutta la sera a discutere il pro e il contro della situazione sotto gli occhi, si fa per dire, di quei pezzetti di legno che, immobili nelle caselle bianche e nere, sembrava che li guardassero sogghignando; in special modo quella regina bianca e quel cavaliere nero, l'una accanto all'altro, i quali pareva si burlassero di quel misero reuccio arroccato in un angolo. Da quel lungo discorso venne fuori un'unica soluzione : Elio per qualche sera doveva far la posta alla moglie per sorprenderla in flagrante. Pazienza se le partite scacchi dovevano essere rimandate! Il venerdì successivo, mentre la tramontana soffiava feroce e nell’aria si avvertiva un presagio di neve, Elio finse di partire per la solita partita a scacchi; in realtà si fermò poco fuori del paese, di fronte alla chiesa di San Rocco, proprio dove un pilastro di sostegno posto ad angolo con la facciata, formava con essa un cantuccio attorno al quale il vento sibilava senza penetrare. Lì, intirizzito dal freddo e dall'umido che veniva dal torrente sottostante, con lo sguardo ora perso nel buio, ora fisso su una finestrella sporca che permetteva di vedere dentro la chiesa rischiarata da due tremolanti candele, stette in attesa che l'amante di sua moglie, sicuro della sua assenza, si decidesse ad entrare in casa. - Ma perché, - mormorò - quel dannato anonimo non ha atteso la primavera per inviarmi quella lettera sgrammaticata! Ora non sarei qui a battere i denti per il freddo. L'idea che lui, onorato maestro di scuola, uno dei pilastri della élite paesana, stesse facendo una figura barbina gli sfiorò d'un tratto la mente, ma il suono argentino e improvviso delle campane lo scosse. Chissà se la Elda e il suo amante avevano sobbalzato pure loro a quei rintocchi! E poi, perché le campane suonavano a quell’ora di notte? Che strano paese quello in cui era capitato per volere di un Provveditore bisbetico! Le cose più assurde vi potevano capitare senza che nessuno si preoccupasse o si incuriosisse. Ad esempio, perché suonare le campane a quell'ora? Certamente, pensò Elio don Buschini si è inventato qualche nuova cerimonia notturna o segue qualche vecchia tradizione valida ancora e solamente per quell’angolo perduto della Liguria. E la verità, nonostante Elio avesse fatto solo una supposizione, era proprio quella. Don Buschini non aveva inventato nulla di nuovo, perché il freddo, congelandogli le idee non glielo avrebbe permesso. Stava solamente avvisando i fedeli che tra poco, e con loro grande gioia e sollazzo, si sarebbe ripetuta la tradizione e sarebbe iniziata la processione di San Sebastiano. Che l’aggettivo ‘strana’ ben si adattasse a quella processione è un fatto innegabile. Da che mondo è mondo dire processione è pensare ad un lungo corteo che si muove per le vie a guisa di un lento serpente il quale, stanco per il caldo o appesantito per un pasto abbondante, striscia con ampie volute ora a destra ora a sinistra tra gli sterpi. Anche in quel paese le processioni avevano di solito lo stesso ritmo e le stesse cadenze che altrove, ma la sera del venti gennaio, giorno di San Sebastiano, la processione aveva una caratteristica completamente diversa. Tutti i fedeli, armati di fiaccole (perché per consuetudine l'elettricità veniva interrotta per tutta la durata della cerimonia) si pongono ai lati del portone principale della chiesa in attesa che il sacerdote esca. Questi, indossata sulla nera tonaca una bianca cotta, dopo aver bisbigliato alcune preghiere, tenendo una piccola croce in mano, si avvia con passo veloce e poi, di corsa, si dirige verso una delle tante strette viuzze che si aprono a raggiera dalla piazza della chiesa. Un istante appresso, non appena il prete sparisce alla vista dei fedeli, tutti quanti, dal più vecchio al più giovane, si gettano alla rinfusa all'inseguimento, urlando a più non posso "Piglieiru, piglieiru !" e inframmezzando alle urla contumelie a non finire. Poiché nel buio, in mezzo a tutti quei vicoletti che si intersecano, tra le torce che si spengono e i lumini a olio che dai davanzali mandano più puzza che luce, il prete si dilegua, la processione viene a spezzettarsi in molti tronconi di fedeli che corrono come disperati alla ricerca della loro preda sempre urlando, confondendosi a vicenda e urtandosi nel buio. Capita assai spesso che in certi stretti passaggi, mai modificati dall'alto medioevo in poi, tra quelle mura granitiche spesse qualche metro, due gruppi di fedeli provenienti da opposte direzioni si mescolino violentemente a guisa di dannati danteschi e si gridino anche loro "ontoso metro". Qualche contuso in quelle occasioni ci scappa sempre. Quando alla fine il povero prete, sudato e ansante, viene fermato, allora da quel momento ha inizio una vera processione che si dirige verso la chiesa con la lentezza che si addice ad una cerimonia sacra. Stabilire da dove traesse origine una tale cerimonia è cosa assai problematica. Per saperlo bisognerebbe sfogliare vecchi libri. Ma se qualcuno volesse addentrarsi nei meandri del folklore per avere subito una risposta, di quelle che accontentano la curiosità e la fantasia, non avrebbe che da interrogare qualche vecchietta la quale, tra una gugliata e l'altra, gli racconterebbe la leggenda del cavaliere nero e dei suoi valletti. "Vedi, ragazzo mio, molti anni addietro, anzi secoli, attorno al paese c'erano solo boschi, nere foreste attraversate da pochi sentieri. I nostri padri allora vivevano felici e contenti mentre nel mondo, da notizie che qualche raro mercante riferiva, il cavaliere nero e i suoi valletti seminavano peste, fame e guerra e la gente moriva come mosche. "Una sera però un boscaiolo giunse trafelato sulla piazza del paese, urlando: - Li ho visti, sono nel bosco giù in fondo alla valle e stanno salendo verso di noi!” “Ma chi?” - gli chiesero da tutte le parti. “Lui, arriva lui, il cavaliere nero e i suoi valletti. Stavo tagliando la legna e li ho visti. Sono tutti vestiti di nero e incappucciati. Sono pronto a scommettere che sotto gli abiti - aveva aggiunto battendo i denti dalla paura - c'è solo lo scheletro.” "Le madri avevano radunato i figli e stavano tremando di terrore; gli uomini non sapevano che fare. Se il boscaiolo aveva ragione, che avrebbero potuto fare loro contro degli scheletri? Ucciderli? E come si fa ad uccidere uno scheletro? “Su consiglio del prete, tutti si rintanarono in casa e attesero in preghiera sperando che il cavaliere nero fosse solo di passaggio. Ma il cavaliere nero e i suoi valletti erano di ben diversa idea; si fermarono in paese e cominciarono a scorrazzare per le strette viuzze in cerca di prede. I poveri contadini che, ignari di quanto accadeva, ritornando dal lavoro si imbattevano nel cavaliere nero, lanciavano urla terrificanti la cui eco si ripercuoteva sotto le volte delle viuzze, tra quegli archetti rampanti con i quali sembrava che le case si sostenessero a vicenda. Entro le case poi la paura faceva tremare ognuno e tutti si guardavano bene dal porre la punta del naso fuori dell'uscio. Dopo alcuni giorni però la situazione divenne insostenibile. Si era, infatti, in pieno inverno; i viveri si erano assottigliati, la legna era sparita a poco a poco nell'antro del caminetto e il freddo penetrava da ogni fessura. Occorreva uscire per non morire in casa. Ma fuori c'era lui, il cavaliere nero e i suoi valletti! " Di ciò si rese ben presto conto il prete che per tutto quel periodo era stato al freddo, in chiesa, inginocchiato di fronte all'altare, pregando che Dio liberasse i suoi figli da quel flagello. Ma le urla sempre più rabbiose di quei demoni scatenati, ululanti notte e giorno per mancanza di preda, gli fecero capire che se voleva liberare il paese occorreva un sacrificio, un olocausto. Decise, quindi, per il bene dei suoi parrocchiani di offrire se stesso. Indossata una bianca cotta e afferrato un crocifisso, uscì dalla chiesa correndo e sempre correndo per tutte le vie attirò su di sè il cavaliere nero e i suoi valletti. I paesani, folli di terrore, udirono le urla bestiali degli inseguitori che si perdevano nei boschi ammantati di neve e che riecheggiavano tra le gole montagnose sbarrate da grossi candelotti di ghiaccio. "Da quel giorno l'incubo ebbe fine. Il buon prete non fu più veduto e con lui sparirono il cavaliere nero e i suoi valletti. "Ecco perché. figliolo, il venti di gennaio di ogni anno, nel giorno di San Sebastiano, ha luogo la processione che può parere così strana a chi non conosce la leggenda" E Elio la leggenda non la conosceva perché altrimenti avrebbe ammirato quel provvidenziale gambitto dato dal prete bianco cavaliere nero. Infreddolito, stropicciando i piedi e soffiandosi tra le mani, ascoltava i rintocchi delle campane, incuriosito e al tempo stesso infastidito. "Ci manca pure una funzione religiosa" pensò. "E ora che faccio? Se per caso i miei sospetti sono realtà e trovo mia moglie in compagnia di qualcuno, non posso nemmeno vendicarmi perché con la chiesa così vicina a casa lo verrebbero a sapere tutti. Dovrei, quindi, aspettare? Già mentre quelli... No, no, meglio andare; voglio sapere subito e togliermi il cruccio. Dopo giudicherò quale sarà la via più conveniente da seguire." Si avviò lentamente e, nel timore di imbattersi in qualcuno, tagliò per i campi. Sarebbe arrivato a ridosso della sua casa e, non visto dalla strada, si sarebbe intrufolato furtivamente dalla porta per scoprire se... "E se non ci fosse nessuno? Se la lettera anonima fosse stata solo una bravata, una cattiveria?" Al pensiero si fermò di colpo. "Ma perché uno scherzo! E poi perché a me! Ho forse mai dato l'occasione di prestarmi ad uno scherzo? No. E allora perché mi avrebbero preso di mira, così, senza una ragione! No, no, chi ha inviato la lettera sapeva quello che diceva. Che l'abbia fatto con una certa compiacenza maligna è evidente" concluse "ma non riesco lo stesso a capire la ragione. Lo odio. Però, se è vero, gli sono in ogni caso grato di avermi aperto gli occhi”. Riprese a camminare nel buio inciampando spesso nelle pietre sparse qua e là lungo il sentiero e scostando, quando lo poteva, i rami umidi e freddi che tentavano di colpirlo al viso . Proprio in quel frattempo don Buschini, indossata una bianca cotta e scelto un piccolo crocifisso di legno, leggero e maneggevole (avrebbe avuto bisogno di tutti i movimenti liberi per correre meglio) si apprestava a dare inizio alla processione; aspettava solo che il messo comunale staccasse l'interruttore generale nella cabina elettrica e facesse piombare il paese nel buio più completo, poi si sarebbe lanciato di corsa nella prima viuzza, inseguito dalla popolazione armata di torce fumiganti. Elio stava già per raggiungere l'uscio di casa quando vide le luci del paese spegnersi contemporaneamente e udì un vocìo levarsi dalla parte della chiesa. - Che succede adesso? - mormorò stupito. Come un lampo gli passò in mente l'idea che tutto il paese fosse presente per assistere alla sua disavventura, ma tale pensiero passò velocemente come era venuto. - Ma allora che accade? Sarà successa qualche disgrazia? - si disse. - Ma anche a me sta per succedere qualcosa, quindi: mal comune mezzo gaudio. - E aprì l'uscio di scatto. Il rumore del secchio della spazzatura che si rovesciava e del contenuto che rotolava in corridoio, lo fecero sobbalzare. Bastò quello perché il sospetto divenisse certezza. Entrò di corsa e si buttò contro la porta della camera da letto. Chiusa. Un trapestìo e un parlar concitato gli dicevano che nemmeno in camera regnava la tranquillità e la capacità di ragionare a mente fredda. Con due poderose spallate mandò in briciole la serratura e, trascinato dallo slancio, finì sul letto disfatto, in tempo però per vedere una forma bianca che fuggiva attraverso il giardino. Lasciata la moglie (a lei avrebbe pensato dopo), si lanciò all'inseguimento. In un attimo fu sulla piazza della chiesa completamente vuota, anche quel bianco fantasma balzato fuori dalla finestra si era eclissato, ingoiato da uno dei tanti vicoletti bui. Elio con la mente in fiamme si gettò in uno di essi correndo come Fidippide. Sentiva provenire da varie parti urla belluine come di gente che si inseguisse e vedeva talvolta apparire fuggevolmente ombre che correvano nel buio simili a scuri fantasmi. Il suo obiettivo era però un altro. L'aveva visto bene lui quell'attentator di focolari con la camicia bianca, svolazzante, fuggire a gambe levate e non se lo sarebbe certo lasciato scappare così, semplicemente. Si fermò un istante per decidere sulla direzione e fu allora che vide la sua preda, una bianca larva fuggente in fondo ad un nero budello formato da uno stretto carruggio. - Fermati, maledetto! - urlò e si slanciò in una folle corsa. Ma l'avversario non fu da meno e l'inseguimento cominciò. Per le strette viuzze ricoperte da ciottoli levigati, incastonati nella terra, risuonavano i passi dei due uomini. Talvolta, nello scantonare, uno dei due batteva ora con una gamba, ora con una spalla, ora con tutto il corpo contro ostacoli imprevedibili quali fasci di fieno, fascine di legna, sacchi che i contadini avevano lasciati davanti all'uscio di casa o delle stalle. E allora erano moccoli e parolacce che volavano e Elio sentiva una furia tremenda, un'ira feroce addentargli la gola. Spinto da questa rabbia che lo divorava, riuscì finalmente ad agguantare il nemico afferrandolo saldamente per una spalla. Arrestati entrambi nello slancio, si fermarono ansanti, incapaci di parlare e di agire finché l'affanno non fosse cessato. "E ora che faccio ? " si chiese Elio non appena si fu un po' ripreso, tenendo sempre stretta la preda che dal canto suo non cessava di ansimare. "E poi, chi è? Ci mancava pure il buio!" D'un tratto nel fondo della viuzza si vide un bagliore, poi due, poi tre, poi molti. Un fiume di fiammelle si avvicinò velocemente e Elio, a poco a poco, vide apparire i tratti di don Buschini che, sempre ansante, con il crocifisso tra le mani, bisbigliava:‑ - Bravo, figliolo, bravo... mi hai preso... sarai fortunato tutto l'anno. Però che foga, mio Dio!... Est modus in rebus. Inebetito dallo stupore, sempre con la mano artigliata sulla spalla del prete, Elio lo guardava, incapace di proferir parola. Mille idee si aggrovigliavano nella mente: "Don Buschini, lui! E che ci fa qui? Possibile che Elda e don Buschini... No, no. E allora che ci fa qui?" Guardò la gente che gli stava attorno e si chiese: "E tutta questa gente che vuole?" La gente, intanto, commentava la fine della processione ed elogiava il maestro per la sua bravura nell'acchiappare il prete Fu appunto dalle frasi smozzicate che gli giunsero agli orecchi che Elio riuscì a ricostruire ogni cosa. Quello però che lo convinse completamente fu l'osservazione di un gruppo di giovani giunti per ultimi. - Ma come è possibile che don Buschini sia già qui - fece uno - se lo stavamo inseguendo dall'altra parte del paese! - Che vuoi che ti dica - rispose un altro - anche a me era sembrato che fosse don Buschini, ma se è qui ovviamente non poteva essere anche là - concluse con rassegnata filosofia - Eppure abbiamo visto un bel camicione bianco! - concluse un piccoletto, accompagnando le parole con un rapido scuotimento del ramo di pino acceso che lasciò cadere alcune gocce infuocate di resina, simili a lacrime ardenti. Ma Elio se lo spiegava chiaramente quello che era accaduto. Vedendo qualcosa di bianco, lui aveva inseguito don Buschini, confondendolo con l'amante di sua moglie, mentre l'amante era stato rincorso dalla popolazione ignara di ogni cosa. Certo che come processione quella era stata proprio il non plus ultra! "Ma che fare?" pensò Elio amaramente mentre seguiva il corteo lento che si avviava disordinatamente verso la chiesa con il prete in testa. " Che fare?" ripeté. E nella mente gli scacchi gli diedero la risposta. "Ho cercato di dar gambitto e mi hanno risposto con un controgambitto inaspettato. Certo che una mossa tale né Rzescewsky, né Aliechin, né Capablanca avrebbero saputo come pararla! Pazienza, qualche partita bisogna pur saperla perdere”.
U SCÜROTTU
La tradizione
Mentre il Carnevale cessa ovunque alla mezzanotte del Martedì Grasso, a Isolabona si prolunga anche nella prima giornata di Quaresima e prende lo strano nome di scürottu di difficile interpretazione. La tradizione vuole che gruppi di giovani mascherati, cantando, fischiando, suonando strumenti musicali in modo sgangherato, seguiti da un codazzo di gente che vuole continuare i divertimenti carnascialeschi, si rechino di buon mattino in casa di un comune amico, lo sorprendano ancora immerso nel sonno, lo leghino nelle lenzuola e lo portino così impacchettato nella sua cantina condannandolo a offrire gratuitamente il suo vino. Il perché di tale tradizione non è ben chiaro: sembra si tratti di una punizione per l’accidia dimostrata dal dormiente il quale non ha voluto alzarsi in tempo per assistere al rito delle Ceneri e iniziare il periodo di penitenza e digiuno, E’ da notare che lo scotto da pagare da parte del malcapitato consiste solo in bevande. Nessun cibo solido viene richiesto, forse in considerazione del fatto che le bevande non interrompono il digiuno. C'è da considerare però che ogni parroco ha sempre tentato di scalzare e abolire tale tradizione. Nonna Marì, la più anziana del paese, dalla mente ancora lucida, mi ha raccontato un'altra versione circa la nascita della tradizione. Sembra, secondo il suo racconto, che tragga origine da una azione profanatoria del sacramento dell'Eucarestia. Nel 1887, dopo il terremoto che causò il crollo della chiesa parrocchiale di Baiardo, in Isolabona, poiché non si erano avuti danni, tranne la caduta di un comignolo, durante la messa di ringraziamento, che si svolse nel primo giorno di Quaresima, alcuni individui, capeggiati da certo Battarin, inscenarono una cerimonia blasfema offrendo ai presenti al momento dell'Eucarestia vino e fettine di rapa ritagliate a mo' di ostie. Si ritiene probabile che la persona "legata nelle lenzuola" rappresenti quel tale Battarin che annualmente deve pagare per la profanazione da lui ideata.
Il racconto: Tavio e il 'padre'
(N.d.A. - Contrariamente agli altri racconti i cui personaggi sono frutto di fantasia - per cui ogni riferimento a fatti e persone realmente avvenuti o esistiti è da ritenersi puramente casuale - nel personaggio di Tavio è possibile ravvisare la figura di un isolese realmente esistito. E’ una persona che conobbi durante la mia infanzia e che, allora, come molti altri miei coetanei considerai un ‘diverso’ per le sue stravaganze. Oggi, alla luce dell’esperienza, lo definirei un eccentrico, un anticonformista, un nemico del progresso. Il racconto, in cui realtà e fantasia si mescolano, - in particolar modo nella parte finale totalmente inventata - vuole essere un modo per chiedergli scusa del mio giudizio di allora e per gratificarlo con un omaggio postumo.
A chi gli chiedeva un giudizio su una persona poco fornita di intelletto, un parigino rispose: - Quello è il penultimo degli sciocchi . - Perché il penultimo? - Perchè al mondo ci sono tante persone e non bisogna mai scoraggiare nessuno. Tale finezza, distintiva, necessaria forse nella Ville Lumiére non era nemmeno immaginabile in un paese dove le nomee, dal più ricco al più povero, dal più astuto al più cretino vengono attribuite con quella sicurezza e precisione che è la caratteristica di un gruppo in cui tutti i componenti si conoscono reciprocamente. In paese il penultimo degli sciocchi non c'era; si conosceva solo l'ultimo: Tavio. Tare ereditarie nella sua famiglia non ce n'erano mai state (almeno a memoria d'uomo) ed era quindi un mezzo mistero riuscire a scoprire dove suo padre fosse andato a pescare quel gene distorto che con tanta generosità e abbondanza aveva elargito a Tavio. L'altra metà del mistero era forse più comprensibile se si mettevano in conto i numerosi bicchieri di vino rosso che suo padre aveva buttato giù nel corso degli anni - tanto per "umettare la gola" come era solito dire. Gli effetti del vino si erano però manifestati tardi e solo il povero Tavio se li era goduti quasi tutti lui. Quasi, perché anche i suoi fratelli, tutti più vecchi di lui, ne avevano ricevuto una briciola, per fortuna loro non nella materia grigia, ma nel nome. Suo padre e sua madre ad ogni nascita si erano divisi equamente compiti:lei provvedeva a mettere al mondo il figlio e lui pensava al nome. Non che si spremesse tanto le meningi: questo no! Il suo parto era di quelli indolori. Aveva sofferto una sola volta, quando aveva partorito il primo nome. Per ore e ore si era arrovellato, si era arrabattato, tra un bicchiere e un altro, nel prendere in esame tutti i santi del Paradiso, poi alla fine aveva trovato il nome adatto: Primo. E da quel giorno non si era più sforzato: gli era bastato seguitar la serie con Secondo, Terzo, Quarto eccetera e il nostro Tavio, Ottavio per l'anagrafe, era stato l'ultimo della serie, ultimo perché il padre aveva deciso così. Sin da ragazzo Tavio aveva palesato un carattere chiuso e schivo. Nonostante avesse sette fratelli, preferiva vivere appartato e fin che poteva se ne stava in soffitta a guardare il cielo attraverso un abbaino. Nella sua infanzia era stato uno di quei bambini che non hanno mai conosciuto vezzeggiativi . - Tavio, vieni qua! Cretino, scostati! Tavio, prendi questo! Tavio, prendi quello! Nessuno si era mai sognato di dirgli: - Ma che bellino, che carino, il nostro Taviuccio! Vuoi più bene al paparino o alla mammina? - Smancerie inutili. Nonostante tutto Tavio era cresciuto, s'era fatto adulto e un bel giorno, accettato il consiglio di uno dei fratelli, sebbene all'oscuro della lingua francese, era partito alla volta della Costa Azzurra dove, a Eze, aveva trovato lavoro in un hotel come uomo tuttofare. Nei primi tempi il suo umore bizzarro era rimasto appisolato, incapace di manifestarsi in quel mondo così diverso da quello in cui fino allora era vissuto. Solo due o tre volte il mese, quando tornava al paese, in un ambiente a lui più familiare, si sbizzarriva in stravaganze che divertivano tutti . Non che le stranezze di Tavio fossero tanto assurde, in fondo si differenziavano da quelle di altre persone per il solo fatto che le sue erano uniche e spiccavano, mentre quelle degli altri erano collettive e si nascondevano a vicenda e perciò, in quel paese di orbi, quell'unico cieco era schiavo. Ora essere schiavo di un paese equivale ad esserne anche lo zimbello, il giullare. E Tavio lo era diventato dal giorno in cui aveva abbandonato il lavoro a Eze per venirsi a infognare nel suo paese d'origine. Forse nessuno avrebbe notato il suo ritorno se una delle sue stravaganze, forse la più grossa, non fosse stata risaputa da quei buoni villici i quali, ormai da tempo, s'erano abituati a lui da farci il callo. Ma la fama di sciocco che si era guadagnato sulla Costa Azzurra era diventata la sua livrea. Ad Eze, nell'attraversare la nazionale numero uno, era stato investito da una Mercedes guidata da un ricco signore, reduce dal Casino di Montecarlo dopo una ottima vincita ed una ancor migliore libagione. Trasportato all'ospedale, vi era rimasto per tre settimane con una gamba in trazione, alcune costole rotte ed ecchimosi su tutto il corpo. Monsieur Pichegrue, l'investitore, era andato a trovarlo col suo legale per provvedere ad un congruo indennizzo, ma Tavio, col viso bendato, pallido più di un morto, gli occhi mezzo chiusi e lacrimosi, li aveva investiti con il suo francese che sapeva di ligure: - Che, che, che non voglio niente da te. Che, che è stata una disgrazia che può capitare a tutti e che se il 'Padre' ha voluto che capitasse a me, non c'è niente da fare. Che, che il 'Padre' sa quello che si fa e che se ha voluto che tu mi investissi ebbene è perché dovevo essere investito per i miei peccati. E quindi andatevene tutti e due perchè da voi non voglio niente. E non c'era stato verso di fargli accettare nulla. Facendo precedere ogni sua risposta da un 'che' ripetuto più volte tanto da conferire al suo discorso un confuso balbettìo iniziale e facendo riferimento in ogni suo pensiero al 'Padre', riuscì a scacciare Monsieur Pichegrue e il suo legale i quali, frastornati e stupiti, si ritrovarono fuori dall'ospedale senza aver concluso nulla - Ma chi è il 'Padre'? - aveva chiesto Monsieur Pichegrue. - E che ne so! Sa, per me quello è un po'... - e il legale aveva battuto l'indice su una tempia. Da quel giorno per Tavio era iniziata la nomea ufficiale di sciocco, conferitagli nientemeno che da un avvocato. L'episodio era però servito a dissipargli dalla mente il velo che gli aveva sempre precluso una chiara visione e una completa comprensione della figura e dell'entità del 'Padre', figura ed entità fino ad allora confuse e nebulose, ma ora, dopo la disgrazia, chiare e lucenti come il sole, tanto che durante le lunghe ore di corsia era riuscito a capire e a inquadrare certe situazioni che si erano create nei suoi contatti col progresso e con quella strana società che lo circondava . Tavio e il progresso non erano mai andati d'accordo. Le diavolerie inventate dagli uomini non si accordavano affatto con i disegni del 'Padre' per cui, alla vista di un elicottero che sorvolava la baia di Eze o di un aereo che volava alto, Tavio si fermava col viso rivolto verso il cielo, le mani alzate, le palme tese e urlava: - Che... che... che precipiterai anche tu! Che il 'Padre' non ti ha creato e che dovrai cadere perché il 'Padre' lo vuole. E voi brucerete tutti... tutti bruciati! - concludeva rivolto verso i passanti che si fermavano stupiti a guardarlo. Talvolta era la vista di un oggetto strano, inusitato a fargli perdere il controllo. Quando avevano sistemato nella cucina dell’hotel una macchina lavapiatti, per poco non successe una tragedia. Alla vista del grosso elettrodomestico Tavio era rimasto indifferente, non aveva detto nulla. Si era limitato a guardarlo. Ma quando la macchina fu messa in funzione e, attraverso l’oblò vide l’acqua schiumosa precipitare da tutte le parti contro piatti e casseruole, assalirli con getti violenti e caldi in un turbinìo di gocce e di vapore, mentre mobile vibrava, sbuffava, gemeva, allora Tavio stralunò e cominciò a urlare. - Il diavolo! Che bisogna ammazzarlo ... che certe cose non sono permesse dal 'Padre'. 'Padre, Padre' io lo farò, perchè io sono con te. E dato di piglio ad una scopa si era messo a colpire con violenza la lavapiatti. Per fortuna il cuoco ebbe la buona idea di chiudere l'interruttore e il meccanismo si fermò. Di fronte alla macchina che di colpo aveva cessato di funzionare, anche Tavio si era fermato. Col viso ebete aveva guardato attraverso l'oblò i piatti sgocciolanti, poi con un risolino si era allontanato soddisfatto. Lui e il 'Padre' avevano vinto. Il padrone dell'hotel alle prime stranezze di Tavio aveva riso di cuore, riso assieme ai clienti; ma poi la cosa aveva cominciato a non andargli più a genio specie quando le mattane del giovane andavano a scapito del servizio. Al paese Tavio era ritornato quando il padrone lo aveva pregato di andarsene, non perchè fosse un fannullone, ma perchè voleva fare solo di testa sua. Alternava a lunghi periodi di lavoro forsennato altrettante lunghe pause causate, secondo lui, dal volere del 'Padre'. Nel bel mezzo di un lavoro tutto eseguito senza l'ausilio delle macchine, perchè queste non facevano parte dei disegno del 'Padre', qualora si presentava il minimo intoppo che non fosse compreso tra quelli previsti, piantava in asso ogni cosa e se ne andava in giro dicendo: -... che l'incaglio ce l'ha messo il 'Padre' e che ciò vuol dire basta! E io non faccio più niente. La goccia che aveva fatto traboccare il vaso e aveva mandato completamente fuori dai gangheri il padrone era stato il rifiuto categorico di Tavio di portare nelle camere a loro destinate le valigie dei clienti Dall'aereoporto di Nizza era giunto un pullman di inglesi, seguito da un camioncino carico di bagagli. Il compito di Tavio consisteva nello scaricare quest'ultimo e nel portare le valigie nelle varie stanze. Per caso (vedi un po' tu dove spesso va a cacciarsi il caso!) le prime cinque valigie, oltre alla normale chiusura, avevano anche una cinghia che le serrava a metà. Accadde quindi che nel tirare giù la prima, la cinghia si impigliasse in un gancetto situato nella parte posteriore del camioncino. Un piccolo strattone bastò a liberarla. Anche la seconda si impigliò e fu liberata allo stesso modo. Alla terza però Tavio aggrottò le sopracciglia e prima di liberare la cinghia dal gancio, ponderò la situazione con una certa gravità. Risolvette però di proseguire e la scaricò insieme alla quarta la quale, a dir la verità, si impigliò solo a metà nell'intoppo Chiunque al posto di Tavio avrebbe fatto passare le rimanenti valigie lontano da quel punto, ma lui no. Testardo come un mulo afferrò la quinta e la tirò a sé. Stavolta il gancio la bloccò completamente; ebbe un bel tirare il poverino, la valigia non si mosse. Sembrava che ce l'avessero incollata. Il direttore dell'hotel che stava a guardarlo dalla hall, gli gridò: - E sganciala, Tavio, non vedi che strappi tutto! Bastò quell’osservazione per farlo andare fuori di sé. -... che lo sapevo io che il ‘Padre’ non voleva che prendessi le valigie e io, testardo, ho voluto insistere. Bestia che sono! Ma basta! ... che se il 'Padre' ha voluto così, io le valigie non le scarico più. Del lavoro lasciato a metà e dei clienti che protestavano non gliene importò più nulla e tanto meno delle urla del padrone che, cianotico in viso, lo scongiurava a riprendere il lavoro. - Il 'Padre' ha detto di no e io pianto tutto e me ne vado. E se ne andò davvero. Ma quel giorno non se n'era andato solo dall'hotel: aveva anche lasciato la Francia. Alto, dinoccolato, magro come un chiodo, con una andatura traballante da papero dovuta ai piedi piatti, col viso magro e affilato, scarnito, in cui gli zigomi sporgevano tendendo la pelle e rendendo più cupe le occhiaie, era ritornato alla casa paterna e aveva ripreso possesso della sua vecchia camera buia, tetra, dai muri scrostati sui quali erano sparse infiorescenze di umido. L'unica finestra, traballante sui cardini, con i vetri sporchi che lasciavano passare poca luce, dava su un carruggio stretto e soffocato che puzzava di stalla per quasi tutto l'anno e dell'aspro odor del mosto in autunno - E adesso che farai? - gli aveva chiesto uno dei suoi sette fratelli. - ... che il 'Padre' ci penserà - rispose. - Guarda il sole: scalda tutti. Anche gli uccelli vivono. Vivrò anch'io. Il fratello pensò agli uccelli, guardò l'allampanato Tavio e scosse la testa dubbioso. Ciononostante i mesi passarono e il 'Padre' oltre a pensare agli uccellini, pensò anche a Tavio che da parte sua lo aiutò nel chiedergli molto poco. Quando non lavorava come bracciante negli uliveti, se ne andava a Pian del Pero dove possedeva un orticello e una capannuccia e lì provvedeva a cucinarsi il pranzo. Cuocersi in casa quel po' di brodetto rado in cui nuotavano due carote, un porro, alcune patate e molti fagioli, non era nemmeno pensabile perchè in camera non c'era alcun caminetto. Avrebbe potuto benissimo risolvere il problema con una cucinetta a gas e relativa bombola, ma il 'Padre' non accettava certi sotterfugi e il giorno in cui i fratelli gliene fecero trovare una pronta per l'uso, per poco non successe il finimondo. Rientrato in casa e visto quell'ordigno, Tavio, contrariamente al solito, non urlò né invocò il 'Padre'; prese semplicemente la bombola e, dopo aver strappato il tubo di gomma, la scaraventò dalla finestra. Per fortuna un grosso fascio di fieno accolse l'ordigno che sibilava e spandeva tutto attorno un gas maleodorante e pericoloso. Uno dei fratelli si precipitò di corsa nel vicolo per chiudere la valvola. - Va su una forca tu e le tue manie! - gridò, alzando il pugno verso Tavio che, affacciato alla finestra, lo guardava tranquillo e contento di essersi liberato da qualcosa di estraneo alle sue abitudini. Quindi, quasi ogni giorno, se ne andava nel suo orticello con un pentolino tutto ammaccato e sporco di fuliggine dove faceva cuocere i suoi intrugli. In paese lo sapevano tutti dove andava quando, al suono della sirena di mezzogiorno, attraversava la piazza del paese e nessuno ci faceva caso. Nessuno tranne i bambini. C'era stato un periodo in cui i ragazzi, terminato il magro pranzo, si radunavano sulla piazza e attendevano il ritorno di Tavio col solo scopo di condire la digestione con quattro risate. Al suo apparire sorgeva un vocìo confuso in cui si distingueva solo la parola 'Padre'. Tavio, imperterrito e incurante dei lazzi, tirava diritto senza rispondere. Solo qualche vecchietta riprendeva i ragazzi e lo faceva più per voglia di rampognare qualcuno che per difendere il poveretto. Il giorno in cui i ragazzi passarono dalle parole ai fatti per dare più sugo al gioco, Tavio reagì. Fino ad allora aveva sopportato in silenzio lo scherno e avrebbe forse continuato a sopportarlo se i ragazzi si fossero limitati a questo. Ma quel giorno, chissà perchè, uno di loro prese una manciata di sassi e fango semi indurito e gliela tirò in viso. Tavio, incapace di capire la ragione di quel gesto, si fermò a guardare sgomento il monello; probabilmente la sua faccia dovette essere così buffa, il suo atteggiamento così strano che tutti scoppiarono in una risata e alcuni imitarono il compagno. A questo punto Tavio si scosse e, lasciato cadere a terra il pentolino con la minestra ancora calda, prese a tirar sassate anche lui . "Reazione da sciocco e torto dalla sua parte!" dissero in seguito i ben pensanti del paese. L'unica a non dir nulla fu la madre di uno dei ragazzi che era stato colpito al malleolo da una sassata di Tavio. Quando, scalmanata e fuori di sè, si recò da lui per 'fargliela pagare' e se lo vide apparire di fronte con un largo squarcio su una gota e un occhio nero, la rabbia le sbollì e si allontanò a testa bassa senza dir nulla. Lui, Tavio, dimenticò subito l'accaduto e, come per l'incidente automobilistico concluse: - Che l'ha voluto il 'Padre' e che non c'è niente da fare. Che lo so che i ragazzi sono cattivi, ma... che non hanno alcuna colpa... che la colpa ce l'ha il prete che dovrebbe educarli; ma è dannato anche lui perchè ha l'automobile e quindi ha rinnegato il ‘Padre'. Dopo di che si era sdraiato sul tavolaccio che gli serviva da letto e si era addormentato senza nemmeno coprirsi con la vecchia coperta da soldato, mezzo tarlata, trovata in una cassapanca. Tavio aveva orrore dell'estate. Nonostante quella stagione gli offrisse la possibilità di dormire fuori casa, in qualche prato, sotto le stelle del 'Padre', egli la vedeva avvicinarsi con terrore e ciò solo per colpa delle donne. Non era infatti il caldo a dargli fastidio quanto il vedere l'altro sesso indossare pantaloni (lunghi o corti non aveva importanza) e il vederle andare in giro con molta pelle scoperta. Solo questo bastava a mandarlo letteralmente in bestia. (E sì che quando lavorava a Eze ne aveva visto della pelle al sole!) La vera ragione Tavio non la disse mai; forse non la sapeva nemmeno lui. Da giovane le ragazze della sua età le aveva sempre sfuggite; le donne poi lo avevano schifato specie quelle col ventre deformato dalla maternità. Aveva, quindi, concepito più che odio, una avversione che si mitigava solo di fronte alle vecchiette del paese intabarrate a tal punto da rassomigliare più a mucchi di stracci scuri e ambulanti che ad esseri umani. Con le giovani, invece, specie con quelle un po' pienotte, la cosa era diversa. Quelle non sembravano mucchi di stracci. Tutt'altro. Quando qualche turista nordica, bene in carne, rosea come un porcellino di prima setola, scendeva dalla Volkswagen in pantaloncini corti, attillatissimi, mettendo in mostra certe natiche che 'levati!', e il solo reggiseno, Tavio le si scagliava contro alzando le braccia e ululando: -... che... che...che il 'Padre' ha creato i vestiti per tutti, sporcacciona! E che te li vai a mettere. Quasi tutte si rifugiavano spaventate nella macchina e aspettavano che il marito o il fidanzato mettesse a posto quell’energumeno o che qualcuno del paese lo allontanasse. Una sola volta gli capitò di imbattersi in una peripatetica milanese la quale per tutta risposta gli voltò la schiena e, in segno di scherno, si alzò la minigonna e si batté sonoramente una chiappa. Tavio in quell'occasione fuggì tra le risate di tutti. Le donne, quindi, comunque fossero, vestite o nude, erano la sua croce. Persino in chiesa non lo lasciavano in pace tant'è vero che si sentiva costretto ad uscire molto prima che la messa finisse e ciò perchè non sopportava di vederle prendere la Comunione con quelle bocche unte di rosso Era arrivato persino al punto di lamentarsi col prete per il fatto che in chiesa vi era un quadro che rappresentava una Maddalena la quale, a suo dire, mostrava un po' troppo le tette. "Ma si sa - aveva concluso tra sé e sé di fronte all'occhiata di commiserazione del prete - che lui ha la macchina e che ormai è passato dall'altra parte e la religione non sa manco più dove stia! E per alcune settimane aveva disertato le funzioni religiose. Eppure Tavio, a modo suo, era profondamente religioso. Ogni giorno, nel tardo pomeriggio, diluviasse o splendesse il sole, se ne andava sul sagrato del Santuario della Madonna e lì pregava rimanendo immobile davanti alla chiesa sempre sbarrata da una grossa catena. Per chi pregasse e chi pregasse nessuno lo seppe mai. Se ne stava a fissare ora la porta ora la finestra attraverso la quale, deformate da vetri impolverati, si intravedevano le pitture che ricoprivano le pareti e la volta dell'unica navata e se qualcuno gli passava vicino non dava alcun segno di vederlo. In quei momenti di concentrazione muoveva velocemente le labbra senza che ne uscisse alcun suono. Con le braccia abbandonate lungo il corpo, il capo un po' reclinato su una spalla, sembrava una statua supplicante. Dopo un intervallo più o meno lungo si scuoteva da quel letargo e si sarebbe detto che ritornasse a vivere. All'imbrunire d'estate e in piena notte d'inverno se ne ritornava lentamente alla sua stanzaccia evitando di passare per la piazza del paese e per le vie troppo illuminate. In camera si buttava sul tavolaccio e guardava attraverso il vetro rotto della finestra, ché gli altri erano troppo opachi per il sudiciume, il vago chiarore che la luna riusciva a ficcare tra quelle case ammonticchiate le une addosso alle altre. Poi si addormentava di colpo in un sonno senza sogni.
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Quell'anno l'inverno era stato aspro, così aspro che Tavio aveva accettato senza discutere un'altra coperta assai pesante da uno dei suoi fratelli, ma non tanto aspro da permettere che si aggiustasse il vetro rotto da cui entrava uno spiffero gelido. La neve era già scesa due volte e un detto locale voleva che cadesse ancora una volta all'incirca verso la fine del Carnevale. In barba al detto però stava per scoccare la mezzanotte del Martedì Grasso e la neve non si era ancora vista, anche se si avvertiva nell'aria. In paese il ballo organizzato in un ampio garage adibito per l'occasione a dancing, era nella sua fase culminante. Molte coppie agghindate alla meglio con vecchi abiti e con orrende maschere di cartapesta che nascondevano il viso, saltavano come forsennate al suono di una orchestrina estemporanea che aveva quale repertorio musiche di vent'anni prima. Gli anziani che già da tempo, a causa degli acciacchi e dei reumatismi, avevano dichiarato forfait, e,dopo essere stati a far da tappezzeria, iniziavano a sfollare lentamente trascinando qualche mascherina che, riluttante e a malincuore doveva lasciare la sala. Quando, verso le quattro del mattino, nello stanzone rimasero solo alcuni giovinastri e il freddo cominciò a infiltrarsi attraverso gli interstizi della porta e le commessure delle finestre, qualcuno, tanto per scaldarsi, propose di andar per cantine. La proposta non cadde nel vuoto e il giro incominciò. Passando alternativamente di cantina in cantina (ogni giovane infatti aveva a disposizione la sua e quella di qualche parente compiacente) il freddo passò e i discorsi si fecero confusi e farfuglianti. Ma quando qualcuno disse: - Ragazzi, questo no, il 'Padre' non lo vuole ! - allora si ricordarono di Tavio - Che ne direste - saltò su uno con una maschera da porcellino sul viso - che ne direste se andassimo a legare Tavio? Nessuno si stupì per quella strana proposta in quanto il mercoledì delle Ceneri corrispondeva al giorno dello scürottu, una antica consuetudine che permetteva ai giovani di penetrare di prima mattina in casa di qualche amico addormentato, di legarlo e di portarlo di peso all'osteria per consumare abbondanti libagioni sul conto dell'impacchettato. La proposta di legare Tavio fu dunque accettata all'unanimità, non tanto per ottenere una bevuta gratis, ché Tavio portafogli a fisarmonica non ne aveva, anzi non ne possedeva nemmeno uno, quanto per divertirsi alle sue spalle. Quando il poveretto, svegliato di soprassalto, scosso e legato come un salame, si vide attorno nel buio della stanza quelle maschere ghignanti chine su di lui, quei volti senza volto, diede un urlo e cercò di svincolarsi. Ma più si contorceva, più la corda gli segava la pelle. Coricato a terra sentiva il trapestìo di quella banda di scalmanati che si agitava e ogni volta che alzava il capo riusciva a intravedere nel buio rotto da un vago chiarore che penetrava dalla finestra dei musi contorti e deformati, facce diaboliche ululanti che pareva lo volessero mordere. Quando poi si sentì sollevare da terra, pensò che fosse giunta la fine; chiuse gli occhi e attese. Quelli, trasportandolo come un sacco, scesero per strada dove già cominciava a sfarfallare la neve e solo allora si accorsero tra le risate che Tavio non aveva addosso che una striminzita camicia da notte da cui spuntavano due gambe sbilenche e pelose che scalciavano a più non posso. - E ora che si fa? - chiese uno col viso coperto da una maschera da lupo. - Mettiamolo su un carretto e facciamo il giro del paese - rispose quello che aveva la faccia da porcellino. - Io ho freddo - disse uno col teschio sul viso. - Andiamo invece nella tua cantina a bere. La proposta fu accettata e in breve si ritrovarono in una specie di spelonca con la volta a botte, piena di damigiane, tini, tinozze, botticelle e fiaschi ammonticchiati alla meglio negli angoli o posti ordinatamente su assi sistemate lungo i muri trasudanti l'umido e coperti qua e là da grosse ragnatele scure. La lampadina, anch'essa circondata da ragnatele e impolverata, mandava una luce fioca che conferiva alla scena un non so che di irreale e contribuiva a rendere confuse le ombre che si stendevano dappertutto. La banda prese subito d'assalto un gruppo di fiaschi e provvide dapprima a smorzar la sete; poi pensò al prigioniero. Tavio fu sistemato su una tinozza rovesciata poi una delle maschere, afferrato un imbuto, glielo ficcò in bocca con la delicatezza di un ubriaco, e, preso un fiasco di rossese, cominciò a rovesciargli il vino in gola. Il poveretto, in mezzo a quelle facce sghignazzanti, si agitava, smaniava, strabuzzava gli occhi mentre sulla camicia da notte si spandeva il liquido che colava dagli angoli della bocca. Ogni tanto la maschera si fermava un attimo per permettergli di prendere fiato e Tavio cercava in quei momenti di tirar dentro quanta più aria possibile, ma subito la tortura riprendeva. Sentiva il gusto acre del vino, un bruciore insostenibile in gola e avvertiva un pulsare continuo alle tempie, mentre il cuore gli batteva a ritmo accelerato. Ma quelli, completamente ubriachi e incapaci di ragionare, non s'accorgevano di nulla e continuavano nel loro scherzo alternando vino rosso a vino bianco, vinaccia spessa a vinello leggero. Per istinto Tavio aveva cercato dapprima di resistere, ma poi aveva lasciato che facessero quello che volevano. ‑...che... che... - era riuscito a farfugliare, ingurgitando vino, - ...che se lo vuole il 'Padre'... io bevo. Per tutta la mattinata e il pomeriggio erano rimasti a gozzovigliare divertendosi con canti sguaiati, alternati a lunghi momenti di stasi per riprendere le forze e smaltire il vino bevuto. Verso le quattro Tavio, pieno come un otre, si era abbattuto su una tinozza lasciando che il capo ciondolasse da una parte. Gli altri al par di lui ubriachi più di un acino ubriaco, dringolavano per la cantina appoggiandosi alle botti e alle damigiane issate sui palchetti. - Lo riportiamo a cuccia? - chiese uno singhiozzando e barbugliando tra una parola e l'altra. - No - rispose una maschera con gli occhi vitrei, - io direi... hep... direi di portarlo al Santuario. - E giù un bel rutto. - Lui ci va sempre... hep... si vede che è un posto che gli piace - concluse con un altro rutto.. - Ma si sta facendo buio - gli fece notare uno dei presenti. Sempre legato, il disgraziato Tavio fu buttato sul carretto che un po' spinto, un po' trascinato da quegli avvinazzati urlanti si avviò cigolando e zigzagando verso il Santuario. La neve tanto attesa ora cadeva a falde larghe cancellando ogni cosa. Solo nei pressi del Santuario un gelido vento di tramontana, spirando verso il mare, la faceva turbinare in vorticosi mulinelli. Fu forse il vento, la neve e ancor più l'avvertire che il calore provocato dal vino andava scemando, a consigliare alla brigata di rientrare. Nessuno voleva più spingere il carretto per cui, slegato Tavio, ognuno si avviò verso casa. Il disgraziato, sentendosi finalmente libero e non udendo più alcun urlo intorno a sé, si riscosse e con la mente annebbiata dai fumi del vino si rizzò a sedere alla meglio sul carretto. Il freddo pungente gli mordeva le carni per nulla protette da quella leggera camicia da notte tutta intrisa di vino. Cercando di accostarne i lembi sbrindellati sul magro petto, si mise a guardare i fiocchi che continuavano a cadere e, incominciando a ridacchiare, prese a far gesti sconsiderati per tentare di scacciare quelle inopportune farfalle che gli si appiccicavano alla pelle e si scioglievano dopo averla pizzicata. Visti infine vani i suoi tentativi, decise di andarsene e si alzò in piedi sugli assi traballanti del carretto. Fu a questo punto che, scivolando sulla neve che li aveva ricoperti cadde pesantemente a terra urtando con la testa contro un masso appuntito. E svenne. La neve continuò a cadere. Quando riprese conoscenza - non avrebbe saputo dire se dopo un minuto o un'ora - Tavio intuì più che vedere la massa scura del Santuario che gli stava di fronte. Non sapendo capacitarsi di come fosse capitato in quel posto, si passò una mano sul viso e, ritraendola sporca di sangue, disse spaventato: - 'Padre', 'Padre', perché, perché, perché? - ripeté stupito egli stesso di osare, per la prima volta, di porre una domanda. Poi, siccome nessuna risposta gli giungeva, si guardò attorno e riprese a gridare in mezzo al turbinìo di neve: - Perché, 'Padre', perché, perché, perché? E il 'Padre', finalmente, gli rispose. Tavio si chetò di colpo e porse l'orecchio. La voce, innaturale, si manifestò dapprima con un sordo brontolìo che veniva da molto lontano ed era preceduta da un vago chiarore il quale, scendendo dall'alto della valle, si diffondeva a poco a poco in mezzo al baluginare della neve. Poi il brontolìo crebbe di intensità e la luce prese a giocare strani scherzi nascondendosi ora dietro il costone della collina, ora prendendo d'infilata tutta la valle, ora salendo dritta verso il cielo, ora sparendo per pochi istanti per riapparire poi più luminosa di prima. Per Tavio le parole del 'Padre' erano incomprensibili, vuote di significato, ma ciò aveva poca importanza. Si beava solo di quel brontolìo e della luce giallastra in cui vedeva i fiocchi di neve brillare come stelle e attraverso le labbra sporche di vino e del sangue che sgorgava dalla ferita che si era fatto cadendo, borbottava: - ... che ... che ci sei PADRE! Che finalmente ti vedo! Quando la luce immensa, irreale, straordinaria, abbagliante gli fu addosso e lo fasciò tutto, Tavio si rizzò in piedi e, alzando le braccia al cielo, urlò per tre volte: - PADRE, PADRE, PADRE ! - e cadde di schianto a terra mentre tutto, attorno a lui, piombava nel buio più completo. L'automobile rombante che, venendo dall’alto della valle aveva sciabolato la notte con i suoi fari abbaglianti, gli passò accanto senza fermarsi. Il conducente, con gli occhi fissi sulla strada, non lo vide nemmeno. E l’automobile, allontanandosi, continuò a sciabolare il buio con i suoi fari e a rompere il silenzio notturno col rombo del motore. Continuò a nevicare. E quel mattino, una donnetta, uscita di casa ravvolta in un ampio scialle per andare a gettare la spazzatura, vide per terra un mucchio di neve da cui spuntava un paio di piedi nudi, bianchi, grossi , piatti , gelati.
LA VISITA DI LEVA
La tradizione
Sin dalla notte dei tempi in ogni gruppo sociale vigeva l'uso che i giovani dovevano superare varie prove di iniziazione per prepararsi alla vita tribale e ai compiti che avrebbero dovuto affrontare e assolvere durante la loro esistenza. Il progresso, ad eccezione di alcuni gruppi tribali ancor oggi esistenti, ha cancellato ogni traccia di quei riti iniziatici, a meno che, per i soli maschi, non si voglia coglierne ancora un residuo in quel complesso di operazioni che va sotto il nome di 'chiamata di leva'. A Isolabona , fino a qualche decennio fa, la chiamata annuale dei giovani di leva era preceduta da una settimana di bagordi e di feste per soli uomini in cui essi davano sfogo alla loro esuberanza e al loro temperamento, quasi a dimostrazione che stava finendo l'era dei giochi spensierati e ne iniziava un'altra in cui le responsabilità sarebbero state d'obbligo. Ogni paese assisteva, quindi, alle bravate di questi giovani che, con in testa cappelli tricolori su cui era stampato l'anno di nascita e in mano un fiasco di vino da cui bevevano a garganella, incuranti se il liquido si spandeva sulla camicia, percorrevano le vie del paese, gozzovigliando, urlando, importunando bonariamente le donne. La presenza della bandiera tricolore agitata da uno di essi faceva sì che lo schiamazzo venisse tollerato da tutti e da tutti accolto con occhio benevolo. Durante le soste nelle poche osterie del paese, dove la consumazione era spesso a carico del gestore, intonavano canti ora nostalgici, ora da caserma attraverso i quali volevano dimostrare la loro raggiunta maturità. Quello più noto era:
Semu cuscriti, Siamo i coscritti u sänghe u ne buglie, il sanghe ci ribolle, nu ne rumpì ciü e cuglie non rompeteci più le palle e lasceine chietà. e lasciateci in pace.
Il cui contenuto esprime chiaramente l'emancipazione che un giovane raggiungeva attraverso un atto che convalidava la sua raggiunta maturità. Nel giorno della presentazione degli iscritti alla Commissione di leva, il Sindaco stesso li accompagnava, quasi per una consegna simbolica alle autorità militari e li abbandonava a se stessi. Dopo la visita e l'assegnazione ad una determinata arma, era quasi d'obbligo, fare una visita a Villa Azzurra, una casa chiusa, situata alla periferia di Ventimiglia. Era l'atto finale che sanciva il passaggio ad una piena e virile maturità. L'espressione che da sempre tutti hanno usato nel vedere partire alla volta di Ventimiglia i giovani che a piedi o, in tempi più vicini a noi, usavano un traballante omnibus a quattro ruote, trainato da cavalli, era: "I vän a tirää" (letteralmente: Vanno a tirare). Tirare che? Per comprendere la strana espressione occorre risalire alla promulgazione in Francia della Legge Jourdan. (19 Fruttidoro dell'anno IV) in cui si stabiliva che ogni francese, in caso di pericolo per la patria, doveva diventare soldato. Tale legge, applicata con rigore, divenne odiosa alla popolazione dopo i disastri del 1812 e lo spreco di uomini nelle campagne del 1813-1814-1815. Il primo atto della restaurazione fu quello di abolirla. Ma, in seguito ci si rese conto degli innegabili vantaggi e del sano principio etico cui essa era informata e fu rimessa in vigore. Altri Stati, tra cui il nuovo Regno Sardo la adottarono. Tuttavia fino a dopo il 1849 ebbe larghissimo uso l'arruolamento volontario e soltanto nel caso che questo non avesse dato il gettito necessario a mantenere l'esercito sopra uno standard di forza, si faceva ricorso all'arruolamento coatto. Vi erano però molte esclusioni e, inoltre era ammessa la surrogazione, cioè la sostituzione di una persona con un altra e l'affrancazione, consistente nel procurare allo Stato e a proprie spese un volontario o a versare allo Stato una somma corrispondente all'arruolamento di un volontario. Passarono anni prima che le due forme, poco morali, scomparissero. Con l'entrata in vigore dell'arruolamento obbligatorio, lo Stato sabaudo dovette subito rendersi conto che il fabbisogno di reclute, finché le ferme furono lunghe, era inferiore al numero degli iscritti di leva abili al servizio in ciascuna classe. E dato che per l'agricoltura era controproducente sottrarre per lunghi periodi di tempo braccia abili al lavoro nei campi, si ricorse all'estrazione a sorte fra i dichiarati idonei al servizio. I favoriti dalla fortuna facevano ritorno a casa. Per il sorteggio ognuno estraeva un numero da un'urna. Se il numero era al di sopra di quello stabilito dalla Commissione di leva il giovane era libero di ritornare al suo focolare; in caso contrario doveva partire. In seguito, quando venne l'obbligo personale del servizio e le ferme si abbreviarono, il sistema del sorteggio andò scemando d'importanza fino a sparire. Ma l'espressione "i vän a tirää" rimase. Una curiosità di sorteggio a rovescio si riscontrò nel 1794 nel Regno di Napoli. Essendosi ordinata una leva di 16000 uomini per l'esercito e non essendo stata raggiunta tale quota, si stabilì che, in mancanza di volontari si sarebbero estratti a sorte "per via del bussolo da praticarsi in pubblico parlamento" gli uomini mancanti.
Il racconto: Babì e la cartolina di precetto
Di fuori l'acqua veniva giù a catinelle, scrosciando rumorosamente su alcuni fusti vuoti di benzina lasciati incustoditi nei pressi dell'osteria di Ercole. Rivoli fangosi scendevano lungo la Bunda, una strada in discesa, tutta ciottoli, e trascinavano con sé foglie secche e carta che andavano a ostruire i tombini i quali già rigurgitavano una densa melma che, lentamente, s'andava insinuando tra le sconnessure delle porte, nelle stalle e nelle cantine. Pareva che il tempo non si sarebbe più rimesso al bello tanto le nubi erano basse e pregne d'acqua e la pioggia avrebbe continuato a cadere per sempre con quel ritmo ossessionante. Per le straduccole non c'era quasi nessuno; poche persone si azzardavano ad uscire. E se lo facevano, correvano sotto gli scrosci, ricoperte da teli tenuti sul capo con entrambe le braccia alzate, simili a veloci fantasmi. Solo il portalettere, protetto da una mantellina militare logora e sbiadita, grondante acqua, con la vecchia borsa delle lettere a tracolla, camminava lentamente ciabattando nell'acqua, incurante del diluvio. A tratti si fermava al riparo di un poggiolo o di una sporgenza, traeva di tasca un paio di occhiali tenuti assieme da un po' di spago e leggeva gli indirizzi per poi riprendere il giro. L'osteria di Ercole, a causa della pioggia, era quel giorno insolitamente gremita. Su tutti i tavoli, bottiglie, bicchieri e carte bisunte che andavano e venivano da un giocatore all'altro, accompagnate da pugni sul tavolo e spesso da qualche bestemmia. Alcuni avventori, col naso incollato ai vetri, guardavano attraverso le gocce che li rigavano il portalettere avvicinarsi. - Ercole, c'è posta per te! - fece rivolto all'oste uno che seguiva l'andirivieni del procaccia. Un istante dopo, grondante acqua, l'uomo entrava nell'osteria, salutando tutti i presenti. - To', bevi questo! - gli disse Ercole porgendogli un bicchiere di vino. - E' meglio se te lo bevi subito perché, se mi porti brutte notizie, te lo tolgo di sotto al naso - aggiunse ridendo. L'uomo si lisciò i baffi lentamente, a più riprese per togliere le gocce d'acqua, e poi sorseggiò il vino piano, piano per meglio assaporarlo - Brutta giornata, Ercole, tempo da fogne! Be', giacchè siamo qui, vediamo se c'è posta per qualcuno di voi, così evito di girare sotto l'acqua. - Dunque... dunque... vediamo. - E inforcati gli occhiali, volse il capo circolarmente squadrando tutti i presenti. - Sì, ecco! - fece, vedendo Giò il calzolaio. - C'è una lettera per te, mi sembra. Ora te la do. - Si mise a cercare dentro la borsa di cuoio e trattane una cartolina gialla, scosse la testa e disse: - No, non è per te; è per tua figlia, non te la posso consegnare. - Come non me la puoi dare! Mia figlia è minorenne e io ho sono il padre. - Ti sbagli - gli fece notare uno dei presenti. - Babì è nata due giorni prima della mia Carla e quindi ha appena compiuto i diciott'anni. Non hai più alcuna tutela. - Ma lasciami perdere, - gli rispose Giò seccato e, rivolto al portalettere: - Mi dici chi è che scrive a mia figlia? - E così dicendo, cercava di sbirciare la busta. - Calmati, Giò! Non è la cartolina di uno spasimante - lo rassicurò il portalettere che conosceva la severità del calzolaio per tutto ciò che riguardava la figlia. - Ne sei sicuro? - indagò l'altro a bassa voce. - Aspetta che guardo meglio. - E si diede di nuovo a rovistare nella borsa dove aveva deposto la cartolina. - To', - si stupì dopo aver letto il mittente: - E che cosa vuole il Ministero della Difesa da Babì. - Il Ministero della Difesa! - esclamò il calzolaio. - Da' un po' qua, fa vedere! - e gli tolse la cartolina dalle mani prima che il portalettere potesse impedirglielo. - Sentite un po' qua, gente, - sbottò dopo averla letta, - questa sì che è bella! Lo sapete di che cartolina si tratta? Ve la do a una su mille se indovinate. - Dai, taglia corto, Giò - intervenne uno che agitava per aria una carta e non poteva giocarla perchè i suoi compagni erano intenti ad ascoltare il calzolaio. - E' una cartolina di precetto: invitano la mia Babì ad andare a passare la visita di leva fra dieci giorni. - Ma bravi, bene! Era ora che si rinnovasse anche l'esercito! - sbottò a dire uno tra le risate generali. - E' la volta che faccio domanda per partire volontario! - aggiunse un vecchietto sdentato che aveva solo la forza di masticare le parole attraverso le gengive. - Da' qua, fammi vedere, - intervenne il portalettere riprendendo la cartolina. - Sarà uno sbaglio del Distretto. - La lesse e poi, alzati gli occhi sui presenti, disse: - Oh che bella! E ora che si fa? - E che si fa? Niente - gli rispose il calzolaio. - La straccio e tutto finisce lì. Non ti sembra? - Eh no, Giò, direi proprio di no. Io ti consiglio di rimandarla indietro con una lettera di accompagnamento e, se vuoi il mio parere, dovresti anche allegare una dichiarazione del sindaco. - Già che ci sei, mettici anche un certificato medico, - ridacchiò uno. - Quelli del Distretto Militare sono cocciuti. Li conosco bene io!‑ - Ma perchè non vi rimettete al Sindaco, - troncò Ercole, il barista. - Guardate, sta arrivando in compagnia del nuovo segretario comunale. Sono loro che mandano al Distretto gli elenchi delle nuove leve. Probabilmente ci sarà stato un errore in Municipio. Che ci fosse stato un errore fu anche il parere del cavalier Bartini che, dopo aver letto la cartolina, fulminò con lo sguardo il giovane segretario. Il giovane, semistrozzato dall'aperitivo che stava sorseggiando, arrossì e tentò di scusarsi. - Sì... evidentemente deve essere un mio sbaglio, cavaliere. Mi sembra però strano, ma non può essere altrimenti. Si vede che mi sono confuso; sa... è stato il primo lavoro ho fatto non appena fui nominato in questo paese. Ma non dubiti, rimedierò... Anzi, vado subito in Municipio a controllare. - Ed uscì prima ancora che il cavalier Bartini potesse trattenerlo. Nell'osteria, intanto, passata la novità, quasi tutti si erano rimessi a giocare o a bere e solo pochi erano rimasti attorno al calzolaio, al sindaco e al portalettere per discutere sull’accaduto. Di fuori, intanto, la pioggia era intensificata e il vento, spingendola, ora da un lato ora dall'altro, la sbatteva contro la facciata delle case, contro i portoni e le finestre, facendola filtrare dentro le case e colare giù per i muri anneriti dal tempo. - Eccolo che ritorna! - esclamò uno messo di vedetta vicino alla porta per annunciare il ritorno del segretario. Si vedeva, infatti, in fondo alla Bunda, vicino alla fontana, sotto gli scrosci d'acqua, il giovane segretario camminare spedito, rasentando i muri come i gatti. Dopo aver saltato alcune pozzanghere ed evitato i ruscelletti fangosi che si perdevano per ogni dove, si precipitò nell'osteria con un sospiro di sollievo per essersi sottratto a quel diluvio. - Ecco, signor sindaco, - esordì ansando e presentando al superiore un foglio di carta spiegazzato e bagnato. - Sì, effettivamente sono stato io a spedire il nominativo al Distretto, ma le posso assicurare che non c'è stato errore da parte mia. - Su, andiamo, Tinazzi! - rispose seccato il cavaliere, mentre i giochi si interrompevano di nuovo e gli avventori facevano ressa attorno ai quattro. - Com'è possibile che non ci sia stato un errore? Come può dirlo se lei ha inviato al Distretto tra i nomi di coloro che quest'anno sono di leva, anche il nome di una donna? - Ma per il semplice motivo che la figlia del calzolaio, signor sindaco, non è una donna, ma un uomo! Per un istante nell'osteria non si sentì volare una mosca; poi il calzolaio, sempre più rosso in viso, facendosi avanti coi pugni stretti, urlò: - E io le spacco il muso qui, davanti a tutti! - Calma, Giò, calma - intervenne il sindaco, afferrando i pugni minacciosi del calzolaio. Poi, rivolto al segretario: - Tinazzi, che cos'è questa storia? Si spieghi meglio. - Io non volevo dire - iniziò il giovane titubante - che la signorina Babì... non è una signorina, ... ma volevo dire che per noi, Comune di Isolabona, e per il Distretto Militare risulta essere un uomo. - E così dicendo gettò uno sguardo verso il calzolaio che significava: non è colpa mia, ma è così, quindi niente pugni. E proseguì: - Mi spiego subito. Quando mi accorsi, poco fa in Comune, che ero stato io ad aver inviato quel nominativo al Distretto, mi sono premurato di vedere perché e come potevo aver commesso quell'errore, se errore c'era stato, ed ho consultato il registro delle nascite. Ebbene sul registro delle nascite c'era scritto che Martini Babila Maria è di sesso maschile. Ecco perchè ho inserito il nominativo nelle liste di leva. - Ma non poteva accorgersi, mentre lo scriveva, che si trattava di un nome di donna? - gli fece notare uno dei presenti. - E no, proprio no! Fino a prova contraria 'Babila' è un nome maschile e anche Maria può esserlo. Io, ad esempio, mi chiamo Gian Maria. - O porco Giuda! - fece il calzolaio, dimenticando per un istante la cartolina, - e io avrei dato a mia figlia un nome da uomo? Ma ne è proprio sicuro? - Sicurissimo. - Stasera mi sente mia moglie! Il sindaco, intanto, si stava accarezzando il mento, incapace di trovare una soluzione immediata. - E ora che si fa, Tinazzi? - Subito, subito non c'è nulla da fare. Non possiamo certo alterare il registro delle nascite. Se non mi sbaglio, penso che occorra una sentenza del tribunale, ma le sarò più preciso non appena potrò consultare il codice. - Sì, tutto questa va bene, ma adesso che si fa? - chiese il calzolaio che, sentendo nominare il tribunale, si era calmato di colpo e cominciava a preoccuparsi. - Temo, signor Martini, - rispose il segretario - che sua figlia dovrà andare al Distretto - e vedendolo alzare il capo di scatto, aggiunse: - L'accompagni lei e spieghi tutto. Vedrà che ogni cosa si arrangerà. Nell'osteria intanto qualcuno incominciava a sghignazzare. - Giò, senti bene, appena in caserma ricordati di andar al passo: unò, duè, unò, duè , tu davanti, per anzianità , e tua figlia dietro. - Giò, ricordati che alla visita medica si va tutti nudi; non metterti le mutande di lana, faresti una brutta figura. - Però che fortunate quelle reclute... - Per le mutande di Giò? - Ma non dire cretinate. Penso a quelle di Babì. - Sta tranquillo che qualche tenentino se la prenderà subito come attendente. E giù a ridere e a sghignazzare. A Giò, un tipo tarchiato, col viso asciutto (ora rosso per il vino e per la rabbia) su cui spiccava come un promontorio un naso rosso e carnoso, violaceo per le recenti libagioni, bastò poco perchè su quell'appendice saltasse una di quelle mosche cavalline dal pungolo feroce. - Andate tutti in malora - urlò. - Se credete che mandi mia figlia tra quel branco di infoiati, vi sbagliate di grosso. Ecco che me ne faccio della cartolina! tiè , tiè e tiè ! - E la strappò in pezzettini minutissimi che gettò in aria. Tra le risate dei presenti e mentre le gialle farfallette si posavano sui tavoli, uscì sbattendo l'uscio. Quella sera in tutte le case non si parlò d'altro. Stupore, curiosità, malizia, parole a doppio senso e parole a senso unico, si incrociarono attorno ad ogni desco e nel buio delle camere odoranti aglio e cipolla sino a tarda notte. L'unica a non stupirsi e tanto meno a preoccuparsi fu Babì, la maggiore interessata. - Tu non esci di casa per due o tre giorni! - concluse suo padre dopo averle raccontato ogni cosa. Babì si limitò ad alzare le spalle e continuò a sbucciar patate. La ragazza non era brutta anche se non la si poteva definire una bellezza. Era una di quelle forti contadinotte piene di vita, dalle forme tondeggianti, sode, atte a sopportare qualsiasi peso o fatica senza risentirne. Al vederla lavorare nei campi la si sarebbe presa, da lontano, per un uomo; ma quando alla domenica si vestiva a festa per andare a Messa non c'era giovanotto in paese che non le rivolgesse un complimento o che non avesse qualche segreto pensiero. Se fino a quel giorno non aveva avuto amori passeggeri non era colpa sua, ma del padre che le teneva addosso due occhiacci feroci e sospettosi che troncavano non che un pensiero, non che una preferenza, non che una inclinazione. Quell'improvvisa, strana convocazione da parte del Ministero della Difesa, se proprio non l'aveva stupita, perchè Babì aveva imparato che a questo mondo non ci si deve stupire di nulla, specie quando si ha a che fare con l'autorità costituita, l'aveva incuriosita. "Che bello se fossi un uomo!" aveva pensato rigirandosi al buio tra le coperte. "Almeno farei un poco a piacer mio e non sarei costretta ad andare sempre in cerca d'erba per i conigli. Il giorno dopo la curiosità in paese era molto scemata e ognuno avrebbe dimenticato la chiamata alle armi di Babì se di sera i coscritti, cioè il gruppo dei giovanotti che, come lei avevano ricevuto la cartolina di precetto, non fosse andato con chitarre e una fisarmonica a farle la serenata sotto la finestra, Ad una ragazza è di prammatica fare una serenata a base di canzoni d'amore, di dolci stornelli, di tenui filastrocche in cui cuore fa rima con amore, calore, ardore, fiore. Ma come comportarsi con una ragazza che ha ricevuto la cartolina di precetto e deve andare a passare la visita di leva? Babì quella sera non si aspettava certo una serenata. Assorta nei suoi pensieri, se ne stava appoggiata con le braccia al davanzale della finestra della sua camera e guardava attraverso i rami di un caco, la luna che risaliva le pendici del monte, contornata da grappoli di stelle che, in lungo corteo, parevano seguirla nel suo cammino. In quel momento non pensava a quanto era accaduto il giorno prima. Suo padre si era calmato dopo la violenta scenata che aveva avuto con la moglie, alterco nato dal fatto che quella povera donna continuava a insistere nel dire che Babila era un nome di donna. Ora dormivano entrambi. Quando nella calma della notte, da un lato buio di una viuzza laterale si udì il suono di una fisarmonica, accompagnato dagli accordi di una chitarra e una voce prese a cantare "Osteria numero uno, para pum zi pum zi pa!" e quel che segue, Babì fu assalita dal timore che suo padre si imbestialisse di nuovo e ne combinasse una delle sue, ma poi, alzate le spalle e accostate le persiane, si dispose ad ascoltare il canto, non certo d'amore, e a cercare di indovinare nel brusìo che si alzava dal sottostante vicolo, a chi appartenessero le voci. Qualche finestra delle case di fronte si era intanto illuminata e la gente si era affacciata per godersi lo spettacolo. Si trattava di una variante nuova nelle caotiche ed esuberanti manifestazioni che i ragazzi di leva inscenavano annualmente prima di recarsi alla visita medica. Ci sono così poche occasioni di divertirsi in un paese!
Chi, invece, non la pensava in quel modo fu il padre di Babì. D'un tratto, proprio nel bel mezzo di una canzonaccia che parlava di alpini, di vino, di donne, si udì la madre della ragazza gridare a voce alta: -Per l'amor di Dio, Giò, posa quel fucile! Sono ragazzate. Non ti compromettere! - Spostati, vecchia, so io quello che faccio! - le rispose Giò. - Quelli me li hanno già rotti abbastanza da sveglio e me li stanno rompendo anche quando dormo. Non sono il fesso che tollera. Togliti di mezzo! Si udì un tramestìo e si vide una finestra, proprio a fianco di quella di Babì, spalancarsi di colpo. Giò si affacciò con la doppietta imbracciata, mentre la moglie gli si era aggrappata e cercava di togliergli l'arma. - Per carità, Giuseppe, fermati, calmati son ragazzate! Non comprometterti; e voi andate via, maledetti! - aggiunse ad alta voce rivolta verso il buio del vicolo. In quel mentre la fucilata partì. La rosa di pallini frusciò attraverso le foglie del caco, perdendosi nell'aria in direzione della luna che, nauseata da quello spettacolo e ancor più dall'essere presa a schioppettate, si nascose dietro una nuvola. In paese, intanto, il silenzio era ritornato di colpo. Le finestre illuminate s'erano fatte buie all'istante e nel vicolo ogni rumore era cessato. Marito e moglie, impauriti per l'involontaria fucilata, si erano precipitosamente ritirati chiudendo le imposte e ora stavano ad ascoltare col fiato sospeso se qualcuno si lamentasse. L'unica a non essersi mossa era Babì che con i gomiti puntellati sul davanzale e la fronte appoggiata al palmo delle mani, scuoteva la testa ridendosi dell'ira di suo padre, dell'apprensione di sua madre, della paura dei giovani coscritti, dei curiosi e delle strane situazioni che possono capitare per un errore di nome. Dopo quella notte non successe più nulla e in paese nessuno più accennò alla cartolina ricevuta da Babì. Il gruppo dei giovani coscritti si comportò come di consueto, Scorrazzò per tutte le strade, cantando, vociando, agitando una bandiera tricolore e, finalmente, come Dio volle, fu accompagnato a Ventimiglia dal sindaco affinché il Ministero della Difesa decidesse della loro sorte. - Finarmente i sun andäi a tirää - dissero i vecchi, tirando un sospiro di sollievo perché ora non sarebbero più stati disturbati dagli schiamazzi.
Una settimana dopo arrivarono due carabinieri. Giò non c'era. Quel mattino, di buon'ora, col magaglio in spalla se n'era andato in Marcora, una località quattro ore di strada dal paese per lavorare la terra che la recente pioggia aveva ammorbidito. Quando Lena, la madre di Babì, si vide davanti quei due cosi neri neri, impettiti e udì uno dei due dire: - Abita qui Martini Babila? - per poco non le prese un colpo. - Sì, perchè? - riuscì a balbettare. - Che cosa è successo? - Deve venire con noi. - E perchè? - Come perchè? E' renitente alla visita di leva e lei mi chiede perchè? In quel momento era entrata Babì con tre cavoli tra le braccia. - Che c'è , mamma? Che cosa vogliono? - Signorina, - fece il secondo carabiniere - dov'è suo fratello? - Io non ho fratelli, sono figlia unica. - Scusi, ma non capisco. Qui - proseguì il carabiniere guardando un foglio che aveva in mano - c'è scritto "Martini Babila, Via Orsi, 32. E' ben questa la casa, no? -Sì è questa e Martini Babila sono io. - Allora c'è un errore di sesso - intervenne il primo carabiniere. - Be', un errore dell'anagrafe, direi - corresse il secondo carabiniere dopo aver squadrato la ragazza dall'alto in basso. - E ora che facciamo? - Semplice - gli rispose il compagno. - Il qui presente Babila Maria viene con noi. Deciderà il brigadiere. - Ma noi siamo venuti a cercare un uomo! - Questo per me, dai documenti, risulta essere un uomo. E tanto mi basta. Andiamo. Mentre Lena si accasciava su una seggiola, non sapendo più a che santo votarsi, Babì cominciò a divertirsi. - Voglio proprio vedere come va a finire - borbottò tra sé e sé. Poi, rivolta ai due carabinieri che continuavano a confabulare, disse: - Sentite datemi un po' di tempo per vestirmi meglio e poi vi seguirò dal vostro superiore. - Ma, Babì, sei ammattita ! - Sua madre era balzata dalla seggiola afferrandola per le spalle. - Non pensi a tuo padre? - Oh, mamma, sono stufa di questa storia. Ora vado con loro e vedrai che appena mi vedono non penseranno certo a farmi fare il militare. Per papà non preoccuparti - aggiunse con una punta di malizia. - Mi ha sempre detto che se qualcuno mi importuna devo chiamare i carabinieri: ebbene, qui ce ne sono due, dunque niente paura - E se ne andò di corsa. Mezz'ora dopo, in mezzo ai due carabinieri, Babì, che indossava una gonna verde, una camicetta bianca e aveva al collo un ampio foulard rosso (non si era accorta di formare una bandiera... o l'aveva fatto di proposito?), scendeva lungo la Bunda verso la carrozzabile per Dolceacqua, dove i due tutori dell'ordine pubblico avevano parcheggiato la macchina. Questa partì in una nube di polvere in cui si intravedeva solo il rosso del foulard svolazzante. Nello stesso istante, con la sgambata del montanaro frettoloso, partiva un nipote della Lena per avvertire dell'accaduto l'ignaro Giò che se ne stava a zappare sui monti. La prima tappa alla sede distaccata dei carabinieri di Dolceacqua non ebbe alcun esito. Babì, seduta accanto alla finestra, con una sigaretta accesa tra le dita, gentile omaggio del brigadiere, e di cui non sapeva che farsene dato che non le era mai piaciuto fumare, aveva assistito ad una delle prime telefonate di quella giornata. Il brigadiere, dopo aver dato un cicchetto ai due subalterni rei, secondo lui di avergli portato una 'femmina' al posto di un 'maschio', dato di piglio al telefono, s'era fatto mettere in comunicazione col Distretto. Nell'attesa che la linea si liberasse, con una matita batteva e ribatteva sul tavolo, mentre gli occhi, simili ad una altalena, andavano e venivano dalla porta alle gambe di Babì, poi di nuovo alla porta, ma per poco, indi a quelle due gambocce tornite e sode che la gonna verde, troppo corta, lasciava ampiamente scoperte. - Pronto, Distretto? ... sì vorrei parlare con l'ufficiale addetto al reclutamento... Sì, aspetto. Altra pausa, altra sbirciatina. - Pronto? L'ufficiale di picchetto?... Sono il brigadiere Toschi. E' lei che si occupa delle pratiche dei renitenti alla leva... Ho capito, lei non si occupa delle reclute. Ma ci sarà qualcuno... sì, sì, ho capito. Mi passi allora il maresciallo capo Altra attesa, altro spuntino visivo del brigadiere il cui viso si stava colorando di un bel rosso aragosta. - Pronto, sì sono io. Maresciallo abbiamo qui Martini Babila, renitente alla leva... va bene, aspetto! ... Ah, vi risulta... ma vede, maresciallo, c'è un guaio - fece dopo una breve pausa - va bene che non l'interessa, ma io debbo almeno comunicarle che... D'accordo, d'accordo: non vuole sentir ragioni; bene, se la veda lei, maresciallo. Glielo mando subito il Martini Babila - concluse sbattendo giù il telefono con rabbia e poi, rivolto ai due carabinieri, che non si erano mossi dalla posizione di attenti e che di conseguenza non si erano abbandonati ad altalene con gli occhi, ma li avevano accuratamente tenuti fissi sulle gambe della ragazza, disse: - Voi due, prendete la qui presente e conducetela subito al Distretto. - E si abbandonò sulla seggiola mentre Babì, buttata a terra la sigaretta, seguiva i due angeli custodi. Alcune ore dopo il povero brigadiere che credeva di aver tutto risolto, si sciroppava le urla e gli improperi di Giò il quale dalla vigna si era catapultato in paese saltando per i sentieri come un capretto, sfruttando tutte le scorciatoie, e poi, inforcata la motocicletta di un suo nipote, si era precipitato alla caserma dei carabinieri, masticando in cuor suo la rabbia e i propositi di vendetta contro tutte le forze armate dello Stato. Babì nel frattempo aveva già raggiunto il Distretto Militare dove, nella stanza surriscaldata del maresciallo, seduta su una seggiola, con le gambe accavallate e la gonna (quella benedetta gonna corta!) sopra il ginocchio, aspettava che qualcuno decidesse qualcosa nei suoi confronti. - Che cosa vuole lei? - aveva chiesto il maresciallo, un quarantacinquenne traccagnotto, con gli occhiali sul naso, attraverso i quali l'aveva squadrata non appena gli si era presentata. - Io niente: è lei che vuole me. Io sono a sua disposizione. Il maresciallo era rimasto un attimo immobile, non capacitandosi della risposta, poi, fatto un leggero movimento del capo che gli fece cadere gli occhiali sul registro che teneva davanti, cominciò ad urlare: - Ma che dice? Chi è lei? Chi l'ha fatta passare? Piantone! . - Comandi, maresciallo! - gli fece eco un soldato che si pose sull'attenti e strabuzzò gli occhi nel vano tentativo di sbirciare tra la camicetta di Babì. - Chi le ha detto di mandarmi qui una ragazza? - Lei, maresciallo, mi ha dato ordine di mandare nel suo ufficio tutti i renitenti alla leva 'dicendomi che avrebbe provveduto lei a grattar loro il sedere dopo averli accuratamente fatti spogliare'. Sono le sue testuali parole. Il maresciallo divenne paonazzo, squadrò la donna e il subalterno poi, visti i due carabinieri nel corridoio, si diresse verso di loro, chiudendosi la porta alle spalle. Un quarto d'ora dopo rientrava nel suo ufficio in compagnia di un capitano e poco dopo entrava anche un maggiore. Babì, seduta in un angolo della stanza, taceva e guardava la triade che doveva decidere della sua sorte. - Ammetto che ci sia stato un errore, ma io debbo rispondere di tutto l'apparato amministrativo e verificare tutti i nominativi che i comuni ci hanno inviato. Non è colpa mia se ci sono stati errori da parte loro - urlò il maggiore. - Per me il Martini è un uomo. - Scusi, maggiore, - intervenne il capitano. - ma l'evidenza... - Che evidenza e evidenza! - sbottò il maggiore. - All'apparenza è una donna, ma legalmente è un uomo e io non ho la facoltà di escludere nessuno dalla visita medica. Lo sapete che su questo punto sono intransigente. - Non vorrà mica sottoporre a visita di leva la qui presente... - IL qui presente ! - troncò il maggiore. - Non mi cambi le carte in tavola. Carta canta; i documenti parlano chiaro: Martini Babila di sesso maschile. A me non interessa altro. - Ma è una donna ! - continuò ad insistere il capitano. - Non è colpa mia. Io ho solo dei figli maschi: i maschi li so fare io! - concluse squadrando dall'alto in basso Babì che, impettita, guardava ora l'uno, ora l'altro e si chiedeva se non fosse capitata in una gabbia di matti. Il maresciallo che se n'era stato sino ad allora in silenzio, si raschiò debolmente la gola per attirare l'attenzione. - Se permettete, signori, - intervenne - non c'è che una sola cosa da fare. Lei, signor maggiore, dal punto di vista legale ha perfettamente ragione. Qui c’è UN renitente alla leva. - E proseguì calcando il tono sull'UN: - UN renitente che non solo deve passare la visita di leva, ma che è anche passibile di denuncia al Tribunale Militare. Però, d'altro canto, considerando il caso particolare, non è nemmeno pensabile portare una donna in mezzo a tutti quei giovani. Sa com'è ... si parla tanto di censura ...e il fatto, sa!... Avremmo addosso tutti i giornali del paese, quindi io proporrei di sottoporre il caso al colonnello e di rimetterci alle sue decisioni. Nel frattempo Giò, vanamente inseguito dal brigadiere dei carabinieri che aveva cercato di trattenerlo si era precipitato a bordo della motocicletta fino al Distretto dove era stato fermato all'ingresso dall'Ufficiale di picchetto il quale, aiutato da due soldati, l'aveva costretto ad entrare nel corpo di guardia. Il pover'uomo, impolverato, con gli abiti da lavoro addosso ancora tutti incrostati di terra, abbandonato su una panca, mugolava tra sé e sé parole inintelligibili. A tratti balzava in piedi per precipitarsi verso la porta, ma la presenza dei due soldati lo costringeva a rimettersi seduto. Dopo interminabili ore di angosciosa attesa finalmente gli dissero che sua figlia poteva uscire e lo lasciarono libero. Babì pettoruta, impettita, scortata dal maresciallo, apparve in fondo alla Piazza d'armi e la attraversò ancheggiando tra due file di soldati accorsi a vederla. 'Radio Naia' aveva fatto presto a far circolare la notizia in tutta la caserma. - Figlia mia, che t'hanno fatto? - chiese a voce bassa Giò che si guardava attorno come una belva, pronto a scannare chi avesse osato dire qualcosa all'indirizzo della figlia. - Che vuoi che m'abbiano fatto, pa'! Non sono mica stata in mezzo ai cannibali, no? Il padre si voltò verso tutti quei visi trasudanti libidine ed ebbe un leggero dubbio. Babì, intanto, uscita dalla caserma, si era avviata lungo un viale, seguita da Giò. - Insomma, Babì, si può sapere che cosa è successo? E' tutto finito, no? - Per ora sì. - Come per ora! - gridò Giò trattenendola per un braccio. - Non pretenderanno mica che tu faccia il soldato, no? Porco d'un mondo! - Calmati, papà, la soluzione c'è. L'ha trovata il colonnello. Ora ti spiego. Vedi, c'era il maggiore che pretendeva che io facessi il soldato perché per la legge io sono un maschio. Il capitano diceva, invece, che non era possibile perché io sono donna: capisci? - Sì, capisco. Va' avanti! - Il colonnello, dopo avermi ben guardato, ha detto che la chiamata alle armi avverrà tra un anno: quella di oggi doveva solo essere una visita di leva dalla quale mi ha esentato, perché, dice lui, sarei risultata abile comunque. Nel frattempo noi dobbiamo unicamente preoccuparci di far correggere l'errore sui registri dell'anagrafe di Isolabona e poi tutto rientrerà nella normalità. Come vedi, la faccenda è molto semplice. - Finalmente una persona intelligente! - esclamò Giò che s'era sentito cadere un peso dallo stomaco. - Se ne trovano ancora a questo mondo. - Oh sì! - fece Babì con ancora gli occhi pieni di quel bel colonnello, vigoroso, prestante, dalle tempie leggermente brizzolate, proprio un bell'uomo. - Figurati che ha persino telefonato ad un avvocato, suo amico, per sapere quali pratiche si dovranno fare. Guarda, mi ha scritto tutto qui. - E gli porse un foglietto. Giò lo prese e alla luce di un lampione, dato che la sera era scesa da un pezzo, cominciò a leggere: - Certificati, estratti, atti notarili, verbali, sentenze, tribunali, ministeri... Ma quanto tempo ci vuole per correggere una parola e per scrivere 'femmina' al posto di 'maschio'? - Hum, un po' di tempo ha detto l'avvocato. Sai, le pratiche negli uffici sono lunghe... c'è la burocrazia. Ci vorranno dai due ai tre anni. - Come! - esclamò Giò, fermandosi di scatto. - Due o tre anni !!! Ma se la chiamata alle armi sarà tra un anno! - Non preoccuparti, il colonnello ha pensato anche a questo. Te l'ho detto, no, che ha trovato la soluzione! Dato che non si farà in tempo a completare la pratica entro l'anno prossimo, mi toccherà fare il militare. Vedi, il suo attendente personale l'anno prossimo se ne andrà in congedo e io prenderò il suo posto. Non ti devi preoccupare; non vivrò in caserma, ma in casa del colonnello. E' tutto così semplice. E mentre Giò si appoggiava ad un lampione per non cadere, Babì si avviò ancheggiando verso la motocicletta.
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