CAPITOLO PRIMO

 

STORIA DELLO SCHEMA LETTERARIO CLASSICO

 

1)    Formazione e diffusione dello schema letterario classico.

2) Accoglimento da parte del XVIII secolo dello schema letterario classico

 

 

1)Formazione e diffusione dello schema letterario classico.

Lo schema letterario classico è, tra tutti gli schemi storiografici francesi, quello che per primo ha preso un predominio sicuro nel campo artistico e letterario, che si é pienamente affermato e che ha avuto una durata di circa tre secoli.

L’origine di tale schema deve essere ricercata in quel particolare momento cui si diede il nome di “Renaissance”. In sede puramente letteraria, e per ciò che concerne la letteratura francese, il nome di “Renaissance” servì a designare quel moto di rinnovamento in virtù del quale il Francia ripudiò come barbaro il suo passato letterario e si sforzò di instaurare una letteratura più degna, unicamente fondata sulla tradizione greco-romana.

La barbarie medievale, trattata assai spesso nel Seicento e nei primi decenni dell’Ottocento, ebbe inizio dal problema linguistico che i letterati si proposero e culminò col disconoscere a favore del latino, il diritto delle nuove lingue formatesi nel Medioevo e col tacciare di barbaro chiunque non avesse parlato un  latino più che perfetto. Fu allora che si delineò quel concetto che considerava il Medioevo “come un tutto contrapposto ad un altro tutto, formato dall’antico e dall’antico-moderno... come un cuneo fastidioso e doloroso conficcato tra queste due età. (1)

I primi tentativi di preparare il terreno all’avvento di uno schema puramente classico, sono da porsi nel periodo in cui cominciò, in Francia, a  farsi luce l’importanza degli studi classici.

In questo primo contatto col mondo antico fu alla Francia soprattutto di guida l’Italia e agli inizi, nel concetto di classicità, restarono inseparabili e accomunati in un medesimo culto i modelli classici propriamente detti e quelli italiani. “E tale influenza – fa rilevare il Pellegrini (2) -  durò per tutto il XVI secolo in quanto nei contatti che gli scrittori francesi stabilivano con gli antichi, sembrava assai spesso che essi fossero guidati dalle preferenze dimostrate per gli antichi dai nostri scrittori”.

Il contatto tra gli studi letterari italiani e quelli francesi non avvenne nel modo descritto dal Michelet e accettato da tutti i Romantici, per effetto delle invasioni francesi, ma si deve ricercare anteriormente al secolo XV, e riportare a quel periodo in cui la corte papale venne a stabilirsi in Avignone (3).  La città, divenuta di colpo centro nevralgico delle due nazioni, attirò da entrambe le parti non solo personalità del campo politico e religioso ma anche personalità del campo artistico e culturale. Il Petrarca fu l’esponente maggiore di quest’ultima schiera e se teniamo presente che il suo Umanesimo per bisogno di bellezza formale, riecheggiava gli scritti antichi e toccava il vertice col giungere ad una perfezione quasi assoluta, dobbiamo pensare che non del tutto indifferenti siano rimasti gli scrittori  francesi in questi contatti culturali. La discesa di Carlo VIII perdeva, quindi, il prestigio che il Michelet le aveva attribuito e serviva solamente per un diretto confronto tra i due popoli e per legare più saldamente rapporti che erano iniziati molto tempo prima.

I frutti però del contatto italo-francese attraverso Avignone, non apparvero subito ma rimassero in gestazione e si mostrarono solo nel Cinquecento.

Nel Cinquecento si ebbe, infatti, in Francia un periodo attivo, un periodo in cui alcuni umanisti, tra i qual  Budé, Erasmo e altri, favorirono ed allargarono gli influssi della nuova corrente letteraria e introdussero in vasta scala l’ideale umanistico dell’imitazione dei classici.

Si deve in gran parte a Budé – scrive Spingarn (4) – se le opere della Pléiade misero in grande rilievo l’interesse per gli studi classici; ed oltre a ciò i due lavori del critico, De studio litterarum recte et commode istituendo e De Philologia – sempre per Spingarn – sono da considerarsi “due trattati che segnano  il primo affacciarsi degli ideali classici nella cultura francese”. (5)

Fu durante il XVI secolo che si avvertì in Francia il germinare di un’era nuova e che si vide come l’ideale classico stesso stesse prendendo decisamente campo. Il ritorno si espresse nel culto dell’antichità classica, nella ripresa di manifestazioni letterarie, artistiche, morali attinte dai Greci e dai Romani.

Anche in ciò che riguarda lo stile si ha un mutamento quasi radicale. Il Medioevo si era interessato più al contenuto; il Cinquecento si volge anche al lessico ed accoglie accanto a termini medievali poi caduti in disuso, dialettalismi d’ogni provincia: viene, infatti, introdotto il lionese con Rabelaias, il piccardo con Ronsard, il guascone con Montaigne e neologismi derivati dal latino, dal greco, dall’italiano. La grammatica ancora incerta elenca forme multiple, tollera costruzioni italiane, latine, rinuncia a teorizzare la sintassi e più d’uno scrittore fornisce l’esempio di un fraseggiare inorganico.

Nello svolgersi di questi tentativi per una più stretta presa di contatto con l’antichità classica si notano due periodi distinti che corrispondono alla prima e alla seconda metà del XVI secolo.

Gli scrittori del primo periodo sono dominati da un travaglio morale e intellettuale; hanno un ideale di  vita da esprimere, non un  programma letterario da attuare. Non appartengono interamente alla Rinascita intesa in senso letterario, ma sia il loro stile sia il loro spirito cerca di conciliare il Medioevo coi tempi nuovi; le vecchie forme indigene con le lezioni dell’antichità e con gli influssi dell’Italia.

Mentre in questo periodo non si pone in astratto il problema dell’arte, ma ogni scrittore trova spontaneamente le forme di cui ha bisogno il suo contenuto interiore, nel periodo successivo il problema artistico prende il sopravvento e l’unità d’arte e pensiero viene spezzata.

Gli scrittori di questa generazione erano più preparati a sentire la bellezza delle opere antiche e italiane che non quelli cresciuti un cinquantennio prima; e per di più riportavano l’impressione che nulla ancora fosse stato compiuto.

Fu proprio l’opera di uno scrittore della seconda generazione, Du Bellay, che segnò nettamente il passaggio tra Medioevo e Rinascimento. La sua Defence et illustrastion de la langue française è uno scritto di una povertà teoretica sorprendente, senza alcuna novità di pensiero (6), ma estremamente deciso e battagliero. In esso si dichiara guerra ad oltranza ad ogni residuo medievale e contro gli umanisti troppo attaccati al latino, si proclama venuto il tempo di poetare in francese: si stabilisce, inoltre,  il principio che per fondare e arricchire la letteratura ci vuole  l’imitazione intesa non come riecheggiamento di opere indigene, ma come assimilazione di valori letterari stranieri (7).

Il distacco dai primi tentativi di classicismo è, in questo manifesto di Du Bellay, assai evidente. La poetica della Pléiade condanna decisamente il Medioevo e sorpassa quello slancio primitivo che voleva fondare sul sincretismo di Medioevo cristiano e di pensiero antico una nuova vita più libera, più completa, più conforme alla ragione e alla natura.

Il concetto di imitazione, com’era inteso dalla Pléiade, segnava però un regresso nell’insieme del Rinascimento, in quanto esso veniva inteso nel senso di adattamento e di plagio. Questo è quanto notò Boileau quando scrisse che Ronsard (che qui sta per tutta la Pléiade) “Reglant tout, brouilla tout, fit un art à sa mode” (Art poétique, lib. I, v. 124)

I principi della Pléiade portarono un’immediata sostituzione della tradizione classica alla nazionale  e dell’imitazione diretta dei classici a quella della natura. Fu a questo proposito l’accusa di Brunetière in cui il critico sostiene che la Pléiade aprì un abisso tra la poesia francese e la vita della nazione (8).

Tale accusa se a Spingarn in un primo tempo appare troppo ingiusta, in quanto fu la Pléiade ad inculcare per prima lo studio immediato della natura e ad avvertire l’importanza di temi umili come temi di poesia, tuttavia di fronte al passo di Du Bellay dove il poeta, che aspira all’immortalità, è descritto come un essere solitario, dispregiatore del volgo e incline alle lunghe veglie e ai colloqui con gli antichi, è portato a convenire col Brunetiére che la nuova poetica, estraniandosi dalla vecchia poesia francese contribuì alla separazione completa tra poesia e sviluppo nazionale.

E in più si può aggiungere che tutta la produzione poetica nazionale anteriore alla formazione di quest’ideale classico cessava di influire sugli scrittori (9) e continuava a vivere esclusivamente nella corrente erudita.

Lo schema classico che si è venuto a definire alla conclusione del lavoro della Pléiade, si riassume in queste due idee principali: aver imitato assai da vicino gli antichi e aver creato uno stile e una lingua particolari.

Da quanto detto, si può concludere che lo schema classico inizia nel periodo in cui appare l’opera di Du Bellay (10). Il periodo precedente la Defence, pur contenendo fermenti di idee nuove, fu assai lontano dall’elaborare un ideale che potesse conciliare tutti  gli spiriti e nel quale tutti gli spiriti più colti potessero ritrovarsi.

La divisione che della “Renaissance” dà E.Faguet (11), ci aiuta a meglio intendere questo periodo precedente la Pléiade nel quale viene preparato il terreno alla formazione dello schema classico.

La “Renaissance” viene dal Faguet divisa in tre parti: “Renaissance littéraire, Renaissance dans les idées , l’humanisme”.

La prima è l’imitazione degli antichi, imitazione che non ha nessuna data di inizio, ma che è esistita attraverso tutto il medioevo e diventa tanto più forte quanto più si avvicina al XVI secolo. La “Renaissance dans les idées” è l’antichità compresa, amata e seguita nelle sue idee filosofiche, morali e politiche.  “l’Humanisme” è l’antichità ripresa, imitata nei suoi procedimenti letterari  e messa in auge massimamente da Ronsard e seguaci.

Lo schema classico prende quindi nella metà del Cinquecento un aspetto ben definito e possiamo concludere che la Defence ne è all’origine. Tutti gli studi, le ricerche sull’antichità a cui si è precedentemente accennato furono un lavoro di preparazione, lavoro che fa parte di quella “Renaissance littéraire” a cui accenna il Faguet; i lavori di Erasmo e del Budé debbono essere considerati come Rinascita nel campo delle idee. E’ quindi solo con la Pléiade che nasce il classicismo francese “forme plutôt qu’esprit, moule plutôt qu’inspiration, mais moule trés bien accomodé à l’esprit français et dans le quel il jettera pendent cent ans des belles choses et pendent cent ans ancore des choses agréables (12)”.

Verso i primi decenni del 1600 lo schema classico subisce un ulteriore mutamento (13), e cioè quando Malherbe, rompendo decisamente con Ronsard e con tutta la Pléiade “fit la liquidation générale du XVI siècle (14)”.  Il duello Ronsard-Malherbe altro non è che l’opposizione del Seicento al Cinquecento, entrambi secoli classici ma profondamente differenti tra di loro. Si tratta di due tentativi di schema classico che, pur progredendo nello stesso senso hanno poco in comune e dei quali quello seicentesco è giunto molto più lontano del primo e si è affermato al di fuori di ogni influsso che avrebbe potuto ricevere da esso.

Le differenze tra lo schema letterario classico del XVI secolo e quelle del XVII secolo possono ridursi a queste due idee principali: la Pléiade ha sempre considerato la poesia come un sacerdozio mentre per il “gran siècle” essa diviene un mestiere; la Pléiade non ha fatto che regole, mentre il Seicento aveva bisogno di un metodo minuzioso, di una poetica dettagliata; per i primi ancora l’immaginazione è quasi completamente libera, mentre per i secondi è schiava del giudizio; e, infine, la Pléiade segue servilmente e pedissequamente i suoi modelli mentre il Seicento cerca di difendersi da una completa schiavitù.

A Malherbe, quindi, e al suo tentativo di imporre alla poesia qualità formali che porteranno al classicismo seicentesco, dobbiamo il fatto che Ronsard e seguaci vennero prima gettati nel disprezzo dei contemporanei e in seguito nell’oblio (15).

Per capire quale sia il fondo del classicismo seicentesco bisogna rifarsi ad una frase del Bray dove sta scritto: “La soumission à la règle est l’article essentiel du credo classique(16)”.

La poesia per la poetica del XVI secolo – scrive R Bray – ha per fine l’istruzione della società umana e mentre ogni sua estetica è volta verso l’utilità, le regole servono a meglio assicurare l’efficacia dell’insegnamento. Ma per giungere a ciò il poeta ha bisogno di essere veramente poeta, di essere cioè dotato di quella disposizione naturale chiamata “génie”; ma “le gènie ne peut rien sans l’art” e l’arte altro non è che un codice di regole dettate da una ragione immanente che, attraverso l’individuo, assicura la continuità della dottrina e della critica. Ed ecco, quindi, chiuso il ciclo e spiegato il perché la regola abbia avuto un’importanza preponderante durante il Seicento.

Guardando ora da lontano tutta quanta la produzione classica del XVII secolo possiamo dedurre i caratteri essenziali che si riducono a tre: l’utilità, la sottomissione alla regola e la preoccupazione dell’universale, ciascuno legato strettamente agli altri in una dottrina perfettamente coordinata e armonica.

L’utilità, che lo schema classico attribuisce alle sue opere, deriva ai francesi dallo studio di Orazio. La Rinascita italiana aveva scelto una posizione intermedia tra l’imperialismo romano e l’ellenismo, e nella sua scia, a causa di profondi e frequenti contatti culturali tra le due nazioni, si porta anche la Francia. Più decisamente, però, che non la cultura italiana, il XVII secolo francese getta via il concetto dell’arte intesa come strumento di piacere, secondo la formula aristotelica; e tale arte, negando nettamente la formula “arte per l’arte”, tende al solo fine dell’istruzione morale. Basti leggere l’ Art poétique per rendersene conto. Boileau, infatti, scrive:

 

“Qu’en saventes leçon votre muse fertile

Partout joigne au plaisants le solide e l’utile.”

(Art Poetique,vv 87-88, lib. IV)

 

La lezione di Orazio è presa alla lettera e per di più viene arricchita da spunti diversi che quasi sempre giunsero specie dall’Italia specie attraverso l’opera dello Scaligero.

L’utilità e l’insegnamento morale che stavano alla base di tale poesia, impedivano ad ognuno di avere un codice estetico proprio; la scuola classica non permette l’individualismo ed è anche per questo che si sentì il bisogno di un unico codice di regole. Solo la Pléiade era stata una scuola di libertà ed aveva permesso, sotto l’egida dell’imitazione, che il poeta si ispirasse a piacer suo ai suoi grandi modelli; mentre il XVII secolo, trovandosi di fronte ad un saccheggio disordinato dell’antichità, paragonando continuamente l’imitazione al modello, fu condotto ad una codificazione artistica e accettò il postulato secondo il  quale esistono regole la cui conoscenza è indispensabile al poeta per riuscire.

Parlando delle diversità tra lo schema del XVI secolo e lo schema del XVII secolo, si è detto che entrambi, pur procedendo verso un fine unico, hanno assai poco in comune. Un esempio lo si può riscontrare nel perfezionamento della lingua e nei tentativi che i due secoli fecero per attuarlo. Si deve a Malherbe se tutti gli arcaismi, neologismi, latinismi, parole composte e dialettali che la Pléiade aveva tentato  di introdurre allo scopo di allargare la sfera della lingua poetica francese, vengono a poco a poco scomparendo. La lingua viene ad essere purificata e riceve, per così dire, unità.

L’ideale di Malherbe e più tardi di Boileau, fu che il francese non doveva più essere un guazzabuglio o un dialetto ma la lingua pura ed elegante del re e della sua corte. In questo periodo grazie ad artisti di ottimo gusto, la lingua francese si modifica fino a diventare uno strumento raffinato dell’espressione letteraria, una grande eredità che il secolo d’oro lascia al Settecento, agli Enciclopedisti, a Voltaire.

Il principio organizzativo di tutto il Seicento gli viene lasciato dal secolo precedente; ma, come abbiamo visto, uno stimolo nuovo porta gli scrittori seicenteschi a non voler più ricalcare le orme dei loro immediati predecessori, ad affrancarsi dal giogo degli antichi, ad appoggiarsi sulla ragione, sull’osservazione, sull’esperienza.

Ciò che si cerca di stabilire è ben delineato nel titolo di un’opera di Père Bouhours: La maniére de bien penser sur les ouvrage de  l’esprit.

Lo schema letterario che si era affermato nel secolo precedente e che poteva venir compreso nei seguenti tre punti principali: bellezza degli antichi – oscurità medievale – ripresa della bellezza classica nel Cinquecento, si viene gradatamente deformando in qualche sua parte, anche se l’ossatura, la spina dorsale di esso  rimane immutata.  Il Rinascimento  con la sua audacia, con le sue battaglie sconvolse la tradizione secolare. Oppose  l’uno all’altro due mondi: quello medievale e quello moderno (ancora  embrionale)

I problemi sollevati furono molti, quelli risolti assai pochi. Unica consolazione fu che i problemi rimasero e furono lasciati in eredità al XVII e XVIII secolo.

Il Seicento lasciò immutata dello schema su esposto la parte centrale. Il Medioevo rimase e continuò ad essere considerato un’epoca oscura: Ad avvalorare questa affermazione basti considerare i versi di Boileau:

 

“Durant les premiers ans di Parnasse françois

Le caprice tout seul faisait toutes ses lois.”

(Art Poétique, lib. I vv. 113-114)

e poco più oltre:

“Villon sut le premier,dans ses siècles grossiers,

debrouiller l’art confus de non vieux romanciers”

                                      (Art Poétique, lib. I , vv 117-118)

 

Il cambiamento che si opera nelle altre parti dello schema cinquecentesco consiste nel fatto che il Seicento viene considerato un’età unitaria meritevole tutta quanta della qualifica di  “grand siècle” e di quella di “classique”.

L’aggettivo “classique” continuava ad avere il valore conferitogli dal XVI secolo a cioè appartenente all’antichità, fondato essenzialmente sull’imitazione degli antichi; ma questo si andò aggiungendo (ed in poco tempo prese il sopravvento) l’idea generica di eccellenza.

Da allora la Francia considerò gli autori del Seicento come modelli di perfezione letteraria, come guide per non perdere il senso della propria tradizione spirituale.

Dal punto di vista storiografico, il XVII secolo rinnegò l’importanza non solo del  Medioevo ma anche del Cinquecento. Nell’ Art poétique, considerata la vera estetica del Seicento, il manifesto del classicismo, è delineata da Boileau questa linea di sviluppo. Il Medioevo è tacciato di “capriccioso” e di “confusionario”; proseguendo nel suo schema, Boileau accenna al Cinquecento ricordando Ronsard; ma tutt’altro che elogiativo è il passo a suo riguardo:

 

“Ronsard, qui le suivit, par un’autre méthode

regland tout, brouilla tout, fit un art à sa mode...”

(Art poétique, lib. I, vv. 123-124

 

Anche la Pléiade era stato un periodo mal compreso dal Seicento e di tutto il Cinquecento veniva salvato solo  il poeta Marot.

La vera letteratura doveva cominciare dopo quel secolo. Gli scrittori seicenteschi, non contenti di fare del loro secolo il “gran siècle”, volevano che anche con esso cominciasse la vera letteratura. E’, quindi, con uno scrittore a cavallo dei due secoli, con Malherbe, (17), che Boileau attua questo concetto e, strano a dirsi, per tutto il suo secolo, per quello successivo e per alcuni scrittori romantici, tale schema perdurò.

Un passo avanti in una schematica sistemazione della letteratura francese s’era già fatto nel Cinquecento; ma mentre questo si inchinava rispettoso alla bellezza antica, il Seicento, o più precisamente la seconda metà di esso, cercava invece di liberarsi da questa servilità, tentando e riuscendo a dimostrare che lo spirito francese aveva sotto Luigi XIV toccato il suo massimo vertice.

Il desiderio e la preoccupazione di liberare la Francia dall’eccessiva influenza della cultura italiana (oltreché da quella classica) fu uno degli intenti di Boileau e giustifica la crudezza dei suoi giudizi nei riguardi di scrittori italiani.

Viceversa – scrive il Pellegrini – se Boileau è riuscito a perfezionare l’ideale dell’arte poetica quale ci appare nella sua più nota opera, deve questo, non solo all’assidua lettura della Poetica di Aristotile, ma soprattutto all’influsso dei nostri trattatisti ben noti nella cultura francese: lo Scaligero, il Robertello, il Vida, il Segni, il Castelvetro, il Tasso” (18).

Anche nell’opera del Bray – e più precisamente alla fine del suo capitolo L’influence des theoriciens italiens (19) – si trova un concetto analogo:  “il me semble desormais difficile de contester que le sources du classicisme français sont en Italie. L’Italie ce n’est pas seulement, comme on à tendance a le croire, le cavalier Marin, Berni, le Tasse ou Guarini: c’est Castelvetro, c’est Scaliger, c’est Vida. Ce sont eux qui continuent nos la Menadière, nos Aubignac, nos le Boussu...”  e poco oltre: “il importait de marquer des les début qu’ils [i francesi] n’ont pas tout fait avec rien, que ce n’est pas dans leurs predecesseurs français mais bien dans l’Italie de la Renaissance qu’ils ont trrouvé leurs maitres”. (20)

Fuori da ogni retorica dobbiamo però convenire che quest’epoca aurea ha avuto i suoi limiti. L’eccessiva sottomissione al sovrano, quel carattere sociale che si identificò assai spesso con quello cortigiano od aulico, quel fine encomiastico che era alla base di ogni opera non fu propizio all’affermarsi di individualismi in fatto d’arte.

A nessun poeta fu permesso di farsi un codice artistico per suo proprio uso. “Celà pourra suffire à d’autres école, mais l’école classique ne se soucie pas d’individualisme” – così scrive Bray. (21)

La missione del poeta è educare e perciò gli viene imposto un codice e solo obbedendo ad esso e alle regole può raggiungere il suo fine. E seguendo tale idea dobbiamo convenire col Bray, che il poeta così inteso altro non è che un soldato e come tale costretto a perdere la sua individualità mescolato com’è alla moltitudine.

In fondo uno scrittore che lotta contro un ambiente avverso od estraneo ha più modo di trovare se stesso che non cercando di assecondare o di indovinare i gusti di una ristretta cerchia di raffinati.

Fu solo verso la fine del Seicento che si incominciò ad intravedere una vera meditazione storica.

Lo schema classico riceve, nel XVII secolo, la sua codificazione ufficiale in quel singolare documento che è l’ Art poètique; in esso Boileau cerca di dare una precisazione assoluta alla sua dottrina. Per lui solo la perfezione esiste in letteratura e questa l’hanno raggiunta i classici antichi. Boileau – che ignora tutta quanta la letteratura medievale – non ammette che si possano avere mutamenti di gusto. La poesia è un’arte assai difficile ma offre grandi possibilità di apprendimento quando si basa esclusivamente sulla ragione che la natura dà a tutti indistintamente. Senonché la ragione ha per oggetto la scoperta del vero e il vero inoltre si identifica col bello “Rien n’est plus beau que le vrai” scrive in una lettera al Seignalay; la natura d’altra parte è vera, quindi sull’osservazione di essa riposa l’arte: “l’esprit avec plaisirs reconnait la nature”(22) dice Boileau nel canto terzo dell’ Art poétique, e poco più oltre aggiunge: “Que la nature donc soit votre étude unique” (23). Ora un ottimo esempio di tale ‘naturalismo’ manifestato nell’ Art poétique, lo forniscono gli antichi ed oltre ad essi l’immortalità e la diffusione delle loro opere garantisce l’eccellenza del loro merito.

Conclusione dell’ Art poétique era quindi il rinnegamento dell’invenzione o meglio l’invenzione non era altro che un modernizzamento degli antichi.

Oltreché una codificazione, lo schema classico riceve con Boileau anche una impronta diversa. Da tutta la sua opera si nota come l’imitazione della natura sia la regola maestra, la regola che domina e riassume tutte le altre. Precedentemente a Boileau, tale imitazione era rimasta incerta in quanto ognuno aveva un diverso modo di sentire, di vedere, di intendere e perciò era spinto a cercare di perfezionarla in quella parte dove, secondo lui, peccava di debolezza. Boileau, invece, cerca un principio che precisi di quale natura essa debba essere, un principio che la restringa perché senza di esso l’imitazione della natura è ben poca cosa. Tale principio Boileau lo trova nell’autorità, nella sovranità della ragione. Natura e ragione sono quindi i due principi che Boileau ama negli antichi: ed in ciò sta la differenza col precedente schema classico. Boileau, infatti, comprende perché sia legittima l’ammirazione, mentre per Ronsard e la Pléiade la ragione di tale ammirazione era sentita confusamente e in modo imperfetto.

 Il fatto che Boileau giudichi con tanta sicurezza, gli deriva dal non aver neppure lontanamente pensato che il bello potesse variare secondo i tempi e i luoghi e che, quindi, il gusto potesse seguire i cambiamenti. Il principio dell’imitazione della natura inteso come voleva Boileau, è banale e interpretato non giustamente. L’arte classica non è per nulla realista; essa cerca sì di imitare la natura ma nello stesso tempo cerca di abbellirla, di ordinarla, di utilizzarla e spesso giunge a travisarla. Oltre a ciò tenta ancora di togliere dalla natura il brutto morale e anche quello materiale e di imitare il bello, ma solo quello  conforme al suo gusto. Il mondo esteriore viene così abbandonato mentre la natura umana diventa un tema prediletto. La conclusione è quindi che “avec l’apparence du naturalisme, l’art classique est tout entier un pur idealisme”.(24)

La convinzione che la bellezza e il gusto siano assoluti e la convinzione circa l’infallibilità delle regole, dà un aspetto estremamente dogmatico all’opera di Boileau ed è per questo che, se la sua poetica fu accettata dai suoi contemporanei in quanto era in rapporto diretto col momento storico in cui apparve, fu in seguito avversata dai Modernisti e tacciata dai romantici col nome di “tiranna delle libere manifestazioni della fantasia”.  Per  sorpassare questa poetica, che parve in seguito così angusta, ci vollero profondi studi oltreché sull’antichità, anche sui secoli medievali che non erano stati abbandonati totalmente, come sembrerebbe da uno sguardo superficiale a tutta la produzione seicentesca, ma vivevano ancora in quella corrente erudita che avrà una parte importante in letteratura, solo nel Settecento.

Gli errori della poetica seicentesca furono però subito avvertiti e combattuti. La “Querelle des moderne et des anciens” servì, infatti, a porre di fronte due spiriti completamente diversi: uno che rispettava la tradizione; l’altro più avventuroso, più libero che cercava di instaurare lo spirito critico al posto del dogmatisdmo boileauiano, e che fu “le signal et l’expression du premier mouvement de révolte qu’on ait tenté contre l’esprit de la Renaissance”. (25)

E forse anche Boileau alla fine della sua carriera letteraria avvertì la limitatezza della sua poetica e capì che non del tutto errata era la posizione di Perrault, suo diretto avversario, che sosteneva potersi paragonare, senza tema di essere ingiusti “le siècle de Louis au beau siècle de Auguste”.

La conclusione della polemica fu la lettera di Boileau a Perrault del 1700, nella quale il primo viene a dimostrare che non di superiorità si deve parlare nei confronti degli antichi, bensì di uguaglianza.

Con tale idea Boileau riacquistò il suo prestigio che durò per più di un secolo, ma riuscì a raggiungere questo suo scopo solo usando e parafrasando le idee del suo avversario.

Dopo aver scritto le Reflexions sur Longin, epigrammi e lettere, la conclusione riecheggiava fedelmente i seguenti versi di Perrault:

 

Et l’on  peut comparer sans crainte d’ être injuste

Le siècle de Louis au beau siècle d’Auguste”.

 

Ai fini di stabilire quello che è lo schema letterario in Francia proprio al finire del Seicento, giova esaminare la lettera che Boileau scrisse a Perrault e nella quale si pone il termine dell’accesa battaglia sugli antichi e sui moderni. In una parte di essa Boileau non fa che tracciare (non in ordine) lo schema che avrebbe usato se avesse voluto scrivere una storia letteraria greca, latina, francese.

Mentre nell’ Art poètique si faceva menzione di Villon elogiandolo, nella lettera si inizia decisamente da Malherbe e si riprende quindi dal verso già citato “Enfin Malerbe vint...”, ma vi si aggiungono altri nomi.

“Mais pour nous arreter ici qu’aux seuls auteurs qui nous touchent vous et moi de plus prés, je veux dire aux poètes, quelle gloire ne s’y sont point acquise les Malherbes, les Racan, les Maynards! Avec quel battement de main n’y a-t-on point reçu les ouvrages de Voiture, de Sarazin et de La Fontane! Quel honneur n’a-t-on point, pour  ainsi dire, rendu à M. de Corneille et à M. Racine! Et qui n’est qui n’a point admiré les comedies de Molière?” (26).

In queste poche righe il quadro letterario del Seicento è tracciato; manca la filosofia ma è solo questione attendere e di giungere alla fine della lunga lettera per incontrare Descartes e Gassendi.

Per quello poi che riguarda la letteratura latina, Boileau recede dalla sua primitiva intransigenza circa la preminenza degli antichi e giunge a dire: “Je suis sur celà entiérement de votre avis...” parlando della superiorità del secolo di Luigi XIV su quello di Augusto. Se poi, aggiunge lo scrittore, dovessi “plume a la main” provarlo, terrei questa linea di condotta: “Ainsi, quand je viendrois au siècle d’Auguste, je commencerois pour avouer sincèrement que nous n’avont point de poétes heroiques ni d’orateurs que nous puissiont comparer aux Virgiles et aux Ciceron; je conviendrois que nos plus habiles historiens sont petit devant les Tite Live et les Salluste; je passerois comdamnation sur la Satire et sur l’Elegie quoiqu’il y ait des satires de Regnier admirables et des elegies de Voiture,  de Sarazin, de la Comtesse de  la Suze, d’un aigrément infini. Mais je ferois voir que pour la tragedie  nous sommes beaucoups superieurs aux latins... que ... des poètes  comiques il n’en ont pas un seul dont le nom ait mérité qu’on s’en souvint...que si pour l’ode nous n’avont point d’auteurs si parfait qu’Horace, nous en avon neammoins un assez grand nombre qui ne lui sont guère inferieurs... Je soutiendrois qu’à prende le siècle d’Auguste... depuis Ciceron jusqu’à Corneille Tacite, on ne sauroit pas trouver parmis les latins un seul philosophe qu’on puisse mettre en parallèle avec Descartes, ni même avec Gassendi”.

Passa poi a parlare di eruditi quali Mignon, Scaligero, Sirmond da opporre a Varrone e Plinio; ricorda la supremazia moderna in astronomia, geografia, navigazione, architettura, scultura, pittura ecc.

Conclusione di tutto ciò è, quindi, la seguente frase: “Je suis bien sur au moins que je ne serois pas  fort embarassé a montrer que l’Auguste des latins ne l’emporte pas sur l’Auguste des François”.

Con questa lettera scritta proprio nell’anno 1700, mentre da una  parte si pone fine alla “Querelle” dall’altra ci si  prospetta il punto d’arrivo dello schema letterario nel XVII secolo.

La sfortuna di Boileau fu di sopravvivere al suo tempo e alla sua generazione, Negli ultimi anni della sua attività letteraria vide molti punti della sua poetica revocati e criticati; e dalla sua lettera a Perrault si intuisce che il critico avvertiva l’avvento di una generazione che stava per tentare di evadere dalla tradizione greco romana e che cercava di assegnare allo scrittore un altro ruolo nello stato. Ed è forse per questo che la sua intransigenza iniziale sulla preminenza dell’antichità cede nella sua lettera a Perrault.

Il successo di Perrault fu appunto dovuto al fatto di aver eliminato la grande arte classica. L’idea del progresso fu fatale a questa, fu l’argomento principale offerto ai moderni e divenne l’idea maestra del XVIII  secolo. Così, nel dibattito tra antichi e moderni, il XVIII secolo veniva a variare il XVII e a liberarsene.

Concludendo, l’evoluzione dello schema classico dalla sua formazione fino alla soglia del Settecento si è effettuata col passaggio attraverso tre distinti periodi.

Il primo inizia col manifesto di Du Bellay ed è tutto quanto occupato da Ronsard e dalla Pléiade; in esso si ha la ripresa dell’antichità, che però viene seguita troppo servilmente; e il principio dell’imitazione è il concetto predominante.

Il secondo inizia con Malherbe e termina con l’apparire di Boileau. L’imitazione che era servita al periodo precedente, viene qui a dimostrarsi inadeguata; si sente il bisogno di regole che insegnino di imitare i modelli, si sente il bisogno di un codice artistico.

Il terzo periodo è tutto quanto dominato da Boileau e solo in esso il classicismo può dirsi completo e definito in ogni sua parte: con Boileau è, infatti, il gusto che si forma, senza del quale la perfezione non avrebbe potuto essere raggiunta.

Alla fine del Seicento lo schema classico viene ad essere composto dai tre principi: l’imitazione, la regola, il gusto. Così formato lo schema classico viene ereditato dal Settecento che, pur accettandolo interamente, verrà tuttavia modificandolo sensibilmente in alcune sue parti; e tale schema si estenderà solitario sino alla  soglia del Romanticismo, fino a quando cioè all’ideale prevalente nello schema classico, si affiancherà un altro ideale di bellezza.

 

 

2) Accoglimento da parte del XVIII secolo dello schema letterario classico.

 

Nelle precedenti pagine si è cercato di dimostrare la funzione dello schema classico nel XVI e XVII secolo e si è visto come esso, nel Cinquecento, avesse considerato l’antichità greco romana come unico modello insuperato e insuperabile di bellezza artistica e come la  poetica del Seicento, oltre all’aver sfatato tale mito, avesse aggiunto che la considerazione che il Seicento è il secolo che in splendore superò tutti gli altri. Appunto quest’ultimo concetto divenne l’jdea maestra del XVIII secolo e la ”Querelle des anciens et des modernes”, considerata sotto questo punto di vista, altro non fu che l’apparire del XVIII  e la conclusione del XVII secolo.

Verso la fine del Seicento, senza che si manifestasse nessuna brusca rottura, senza rovesciamenti clamorosi ed imprevisti, ma in accordo col movimento generale delle idee si assiste all’avvento di nuove forze che influiscono sullo svolgersi dello schema letterario e tutto ciò che prima aveva contribuito a formarlo e a sorreggerlo  scompare  o cambia radicalmente.

La Chiesa, in Francia, subisce un grave arresto dopo le dispute teologiche, dopo gli avvenimenti di Port-Royal, dopo la revoca dell’Editto di Nantes; la reazione aristocratica degli ultimi anni del regno di Luigi XIV non fa che peggiorare le cose; lo stesso re che aveva cercato ed era riuscito ad essere l’ispiratore, il protettore di tutta la letteratura, viene d’ora in poi tenuto in poco conto, e l’attività letteraria si sviluppa lontano dal trono.

A ciò si aggiunga l’influenza filosofica e scientifica. Si sentiva ormai che la tradizione classica non poteva più sostenersi e che gli antichi avrebbero assai difficilmente potuto dettar legge; ma ci si ricorda ancora di essi perché ormai erano entrati a far parte del bagaglio culturale che ognuno deve avere. Però quando si tratta di cercare  modelli letterari non si va mai oltre il XVII secolo.

Da ciò, quindi, una imitazione servile che condurrà alla decadenza dei generi letterari e farà sì che nel Settecento raramente si manifesti la pura letteratura. Non che si debba considerare il Settecento un’epoca pallida, perché i soli nomi di Voltaire, Montesquieu, Rousseau ne fanno un’epoca grande; ma confrontandola col secolo precedente si sente la differenza. La poesia è quella che più colpisce per la sua poca importanza e nella tragedia non c’è nessuno scrittore che regga al confronto di un Corneille o di un Racine. Qualcosa di nuovo si è forse trovato nella letteratura comica, ma nessuno ha raggiunto le vette di Molière.

Si ha di conseguenza un decadimento delle lettere in questo secolo  che ci appare assai scialbo, posto  com’è tra “le Grand Siècle” e l’Ottocento, ma ci si può consolare data l’ascesa che ne derivò nel secolo seguente.

Lo schema letterario rimase tale e quale a quello nato dopo la “Querelle” e si imperniava cioè sulla grande importanza attribuita al secolo classico di Luigi XIV. Lo spirito antico era completamente dimenticato. Si era, forse, temuto nel Settecento di ricalcare troppo da vicino le orme dei predecessori e non ci si era accorti che si sarebbe meglio potuto penetrare in tale spirito solo che lo si avesse considerato sotto un diverso punto di vista. Il Settecento avrebbe potuto continuare il lavoro e l’opera del XVII secolo, avrebbe potuto risalire alla sorgente a cui avevano attinto i secentisti e che era assai lontano dall’esaurimento, avrebbe infine potuto compenetrarsi meglio nello spirito antico ampliando i lavori precedenti e ispirandosi a tutta l’antichità greca che il “Grand Siècle” (preferendole quella latina) aveva quasi taciuto.

Un tale stato di cose avrebbe reso più vivo e più fertile ed anche più nuovo lo spirito classico; ma il Settecento non ha tentato nulla di tutto ciò, ha incominciato nel 1715 coll’essere reazionario, poi innovatore ma solo per negazione e infine tradizionale attraverso una imitazione servile.

Nello svolgersi dello schema classico notiamo, dopo il 1715, un tentativo innovatore (cosa d’altronde assai logica all’inizio di ogni moto sia esso letterario o politico) e le innovazioni si manifestano assai cruente. (La Motte, ad esempio, a dispregio quasi degli antichi, trasporta Omero nella sua epoca e dà ai suoi eroi tutte le espressioni, tutti gli atteggiamenti allora in uso. Quanto ciò fosse considerato scandaloso lo si può arguire dalle accuse che Mme Dacier gli mosse in La cause de la corruption du goüt.)

Fontanelle, Montesquieu, Marivaux furono i principali rappresentanti di tale violenta reazione diretta contro tutta la scuola classica del  1660. La loro reazione non si spingeva, però, oltre il negare un valore letterario al secolo precedente e per riflesso all’antichità. Rimpiazzare con idee nuove ciò che essi venivano negando non era nelle loro intenzioni e la conclusione era che “cette premiére école, malgré un bon roman de mauvaises moeurs, deux ou trois jolies comédies et un brillant pamphlet, sent singulièrement l’impuissance et n’est pas la promesse d’un grand siècle”(27)

Riteniamo sia cosa assai giusta cercare altre vie per far progredire lo spirito verso nuove aspirazioni, anche a scapito di tutto il bagaglio precedente, ma notiamo invece in quei primi decenni del Settecento, che mentre le nuove esigenze cercano di accantonare i precedenti schemi, non si cerca affatto di sostituirli, di trovarne dei nuovi; ci si  ferma solo al disprezzo per la poesia degli antichi e per la poesia dei classici e dovremo aspettare Voltaire perché il secolo cambi aspetto e perché si abbia quello che può essere considerato il vero schema di tutto il XVIII secolo.

Il XVIII secolo si apre con il trionfo inconfutabile della letteratura francese in tutta l’Europa. La grande arte classica è ammirata dappertutto e la Francia alla fine del Seicento e nei primi anni del Settecento, viene ad occupare nelle lettere quel predominio che era stato vanto dell’Italia rinascimentale.

Ma mentre all’estero l’effetto del “Grand siècle” è lungi dallo smorzarsi, in Francia lo schema letterario  subisce un ulteriore mutamento e molti caratteri che il Settecento aveva ereditato dal secolo precedente incominciano a decadere. L’ideale che prevale è meno nazionale di quello del precedente ma più umano: ognuno sente ancora la forza della tradizione ma la curiosità del futuro, la fede nel progresso si dimostra più forte ancora. Anche la filosofia agisce in senso contrario all’ideale classico in quanto cerca con ogni mezzo di liberare la ragione da ogni  vincolo:  autorità o tradizione che sia. La ‘disintegrazione’ di tutto quanto l’ideale classico, avviene in modo lento e continuo e dà suoi frutti attraverso innovazioni tra le quali una assai importante: l’accoglimento cioè sempre più largo di mode inglesi e germaniche, in palese contrasto con la tradizione latina.:  .

Ed è forse a questo stato di cose che si riferisce  Nicolas Ségur quando scrive:”...à mesure qu’il [il Settecento] avance, les prémices du revirement de coscience et du deplacement de l’axe litteraire qui s’effectueront au XIX siècle, apparaissent”.(28)

Attraverso questi nuovi contatti con altri paesi si incomincia ad intravedere la limitatezza dello schema classico. Si scoprono infatti altri modelli assai dissimili da quelli latini e greci ma di uguale importanza; ed oltre a ciò i germi di una maggiore fiducia nelle nostre forze spingono l’uomo a comprendere che esiste la possibilità di sorpassare gli antichi e che tutto ciò dipende esclusivamente da lui. (29).

La trasformazione che nel Settecento si viene attuando nello schema classico deriva, oltreché dai fatti cui abbiamo accennato, anche dalla povertà in cui è venuta a trovarsi la letteratura propriamente detta. Opere importanti ne compaiono assai poche ed inoltre il concetto stesso di letteratura cambia. La letteratura non serve più come per l’innanzi, ad esprimere il bello ma ad esprimere in lingua accessibile a tutti ciò che fino ad allora era stato privilegio di pochi. In parole più povere la letteratura è rivolta all’istruzione e non solo al piacere.

La letteratura così come era intesa da Boileau e seguaci e la vita da essi descritta   in modo oggettivo e impersonale, cede terreno di fronte a nuove esigenze. L’aspirazione dello schema classico del “Grand siècle” era stata quella di mantenere l’equilibrio delle coscienze, equilibrio che solo il classicismo era riuscito a trovare e il suo sforzo maggiore era stato quello di imbrigliare, di mettere a tacere quei dubbi, quelle passioni che ognuno di noi ha; solo così l’ordine era stato mantenuto. Ma non appena il classicismo cessa in questo suo sforzo, allora ognuno avverte la costrizione, tenta di liberarsene  e cerca innovazioni che provochino una crisi, quella crisi del Settecento dalla quale uscì la corrente razionalistica e l’opposta corrente sentimentale che acquisterà importanza solo nell’Ottocento.

E forse sotto questo punto di vista quegli innovatori del 1715 che abbiamo biasimato appartengono alla schiera di coloro che avvertirono la costrizione  classica e tentarono di provocare la crisi solo negando tutti i valori che il classicismo voleva loro imporre, pur senza aver nulla da sostituirvi.

Ma più che ad altro la reazione della coscienza francese fu in gran parte dovuta all’opera di agenti che erano sempre stati presenti durante il “Grand Siècle” pur essendo soffocati, e cioè “ le plus anciens fu la tradition libertine, le plus puissant la méthode cartesienne” (30). Una simile idea, almeno per quanto riguarda la tradizione libertina, la si incontra in un articolo di F.Neri  (31) dove è scritto: “Il periodo classico può apparire ed è apparso a chi considera la storia della letteratura francese sulle linee direttive del pensiero e delle ‘idee generali’ come ‘un moment d’arrët”. Poiché all’inizio del Settecento, ecco “un retour au précieux”, un “retour au libertin”, cioè proprio a quei due caratteri dominanti dell’età di Luigi XIII, vinti ma non distrutti in quella di Luigi XIV, ch’essi  trascorsero sommersi e sotterranei  per affiorare di nuovo ed espandersi ... sotto le ali della reggenza”.

Il rovesciamento dello schema  seicentesco è dovuto inoltre anche ad un altro concetto, quello cioè che prende a considerare gli antichi non già i più saggi bensì i più giovani ed inesperti mentre i moderni venivano ad essere considerati i più maturi di mente; tuttavia continua a perdurare verso gli antichi una disposizione simpatica mentre il Medioevo viene ancor più aborrito e disprezzato.

Nonostante il fatto che il Settecento non riuscì a risolvere il problema Medioevo-Rinascimento ma spinse ancor più innanzi le difficoltà che v’erano per risolvere  tale opposizione, non bisogna vedere nello schema venutosi a formare un regresso, una decadenza rispetto a quello precedente in quanto quella storiografia di valori spirituali che il Cristianesimo aveva intensificata e che il Rinascimento aveva cominciato a trasferire dal cielo alla terra, il Settecento la innalzò al più alto grado “e il lavoro di Voltaire – scive B. Croce -- deve essere difeso nonostante i suoi errori, perché egli avverte in modo vivo il bisogno di riportare la storia dall’esterno all’interno”.(32)

L’erudizione del Settecento viene ad ampliarsi e ad assumere una notevole importanza.  Voltaire avverte la meschinità di uno schema che comprendesse solo la storia greco-romana e quella ebraica; e nella sua opera si avverte la necessità di ‘mettere in cantiere’ tutto il materiale che s’era venuto raccogliendo dal Rinascimento in poi.

Tale lavoro erudito non si volse solo all’antichità ma al Medioevo coi lavori dei Maurini (in Francia), del Muratori (in Italia) e di molti altri. Con l’accrescersi dell’erudizione la critica si raffinò e venne ad indagare sull’autenticità dei documenti e sul valore di testimonianza delle notizie. E attraverso questa critica promossa dall’erudizione si passò a riconoscere come impossibili certi fatti raccontati dagli storici superficiali e si cercò di ricostruirli nel modo giusto.  Ma l’erudizione accumulata dai filologi non andò congiunta con la storiografia illuministica in quanto gli eruditi furono incapaci di innalzarsi alla vera storia per poca vivacità di spirito.

 

Conviene ora aprire una breve parentesi sull’erudizione durante lo svolgersi dello schema classico fino ai primi decenni dell’Ottocento.

Fu solo l’erudizione settecentesca come abbiamo già visto, che diede un grande contributo alla ripresa degli studi dell’antichità medievale. Dacché l’Umanesimo aveva respinto da sé quei secoli che lo avevano immediatamente preceduto, s’era venuta a perdere quasi bruscamente la conoscenza del passato più recente, o più precisamente gli studi sul Medioevo, unico svago di qualche erudito, erano rimasti alla periferia della letteratura e tenuti in poco conto da essa.

Il Rinascimento non capì il valore del periodo che si chiudeva e perciò si vennero a poco a poco distruggendo e trascurando i monumenti di quel periodo. Il Rinascimento, però, rileva B. Croce (33), non ebbe modi violenti di manifestazione in quanto era dominato da un certo oscuro sentimento dell’importanza dell’età precedente; e fu durante il Rinascimento che si venne formando quella corrente erudita e filologica tutta volta ad indagare  le antichità medievali. Ma ‘gli eruditi sono eruditi’ continua Croce e se anche prendono parte alle lotte dei tempi, assai spesso giudicano secondo l’opinione volgare sicché perdono di vista sia l’importanza di un singolo scrittore sia quella di tutto un secolo. Fu solo in un secondo tempo che scaturì una fiamma di intelligenza da quella catasta di materiali eruditi venutisi ad accumulare in tanti anni. Ma a parte ciò, “nel Rinascimento, il Medioevo anche quando fu investigato, fu aborrito”. (34)

Fu precisamente con la Pléiade che, in Francia, si persero di vista tutti i secoli medievali e qualsiasi tentativo fatto per ristabilire i contatti rimase di solito circoscritto. Uniche indagini di un certo rilievo sui secoli medievali fatte nel Cinquecento e nel Seicento, furono quelle concernenti le questioni linguistiche e la Francia in queste ricerche, si venne continuamente orientando sugli studi italiani.

Al tempo di Ronsard si erano troncati assai nettamente i contatti con i secoli medievali e solo qualche erudito, per pura curiosità si era indirizzato verso i primi secoli della letteratura francese. Costoro si peritarono di fissare solamente ricordi forse perché avevano presentito che la Francia li avrebbe, per un certo periodo, dimenticati.

Jean de Nostredame si dedicò a raccogliere materiale sulla storia della Provenza dal 1080 al 1494; e nel 1575 compose l’opera Vies des plus célèbre et anciens poètes provençaux, che dedicò alla regina di Francia.

Claude Fauchet (1579-99) compose Les antiquités gauloises et françaises e qualche anno dopo nel 1581 pubblicò un Recueil de l’origine de la langue et de la poésie française, rime et romans, plus les noms et sommaires des oeuvres de cent-vingt-septe poètes avant l’ans 1300.

Ma il lavoro e l’appello rivolto ai loro contemporanei non fu preso in considerazione e bisognerà infatti aspettare lungo tempo prima che i Benedettini con la  loro infinita pazienza mettano mano a l’Histoire littéraire de France

Nel volgere del XVIII e nell’affacciarsi del XIX secolo si poté risalire al di là dell’età umanistica e cogliere e ristabilire l’unità di cultura e di storia che lega i popoli latini. I primi investigatori del Medioevo si formano o si rivelano nella redazione dell’ Histoire littéraire  de France, ideata nel  1733 dai Benedettini di Saint-Maur. Costoro seguono la tradizione erudita del Settecento ma cercano di renderne più saldi i metodi con l’aiuto di una più viva coscienza storica. Alcuni di educazione prettamente umanistica, come Le Clerc, cercano di portarvi gli schemi classici e di applicarli ai nuovi studi; altri, invece, via via che si adeguano al pensiero medievale tendono a diventare romantici.

Tra gli altri rappresentanti dell’erudizione settecentesca, possiamo ricordare Freret “le veritable créateur de l’histoire de France” (35)  la cui opera Histoire de l’origine des Français ebbe vaste ripercussioni per la novità della tesi; Le Beau che compone  Histoire du Bas-Empire en commençant à Costantin le Grand, opera che per lungo tempo fece testo; Henault, letterato e storico, autore di un Abregé chronologique de l’Histoire de France”.

Soltanto nella prima metà dell’Ottocento gli studi sul Medioevo furono affrontati con vero entusiasmo e con fervore di idee.

Basterà qui ricordare qualcuno tra i primi investigatori del Medioevo e tra questi: P. Paris, che in tutta la sua opera si prefisse il compito di diffondere la conoscenza e il gusto del Medioevo, di cui intuì la grandezza ma senza quella disciplina critica e filologica che doveva essere raggiunta da altri specie dal figlio, G. Paris, i cui studi lo portarono a quell’opera, La littérature française au Moyen Age  che ha efficacemente prodotto in tutti i paesi civili lo studio dell’antica letteratura di Francia; J. Wailly, la cui attività ha portato luce su molti momenti e aspetti della storia della letteratura francese del Medioevo; L. Delisle, che collaborò attivamente ai lavori pubblicati dall’Institut de France, quale continuatore dell’opera dei Maurini e catalogò un numero infinito di manoscritti; e in ultimo C. Fauriel che per fervore di idee e per la portata delle sue sintesi, domina su tutti in quanto per tramite suo le teorie sull’epoca primitiva e sulla poesia popolare entrano nel dominio romanzo e ispirano per decenni la letteratura critica successiva.

Così a metà dell’Ottocento la vita letteraria dei secoli dall’ XI al XIV è virtualmente rivelata e in gran parte già edita.

 

Converrà ora esaminate lo schema letterario dei due maggiori critici del Settecento e cioè Voltaire nella cui opera si ha la sintesi delle idee del suo secolo e La Harpe che, posto alla fine di un secolo, lo riassume e apre nuove vie alla critica.

In mezzo a tutte le idee letterarie, incerte e contraddittorie che  si presentano alla lettura delle opere di Voltaire, l’idea classica è quella che riveste maggiore importanza. Tra gli esponenti della scuola reazionaria del 1715 non è certo da annoverarsi Voltaire. In tutta la sua opera letteraria egli altro non fece che tentare di ricondurre gli spiriti alla tradizione classica. Il difetto però del suo insegnamento fu dovuto al fatto di essere stato “un devot du grand siècle, qu’il ... aimait toujours”(36) e nel non aver ben compreso l’antichità.  Il suo gusto classico non consisteva nella conoscenza dell’uomo, nella passione del vero, in tutto ciò che avevano sostenuto gli  ideali della scuola del 1660;  per lui il classicismo significava chiarezza, ordine, nobiltà di idee e tutto ciò privo della vera base. Ed è, quindi, a questa mancanza di profondità, di sensibilità e di immaginazione che dobbiamo la sterile e infeconda poetica volterriana.

Il concetto poi di imitazione degli antichi che aveva permessola composizione di molte opere ottime durante il Seicento, fu ridotto da Voltaire, limitato e racchiuso entro confini angusti. Non si tratta infatti di comprendere gli antichi, di pensare come loro pensavano, di ispirarsi liberamente a costoro, ma si tratta, per Voltaire, di applicarsi a modelli seicenteschi che erano già essi stessi imitazioni. La letteratura divenne allora un mestiere e comporre un’opera, un lavoro meccanico. L’unica sua ottima qualità fu la curiosità, una curiosità che gli permise talvolta di sorpassare le angustie del classicismo con delle intuizioni assai felici.

Per vedere più da vicino quello che riguarda esclusivamente lo schema letterario di Voltaire bisogna rifarsi all’introduzione di un’opera assai significativa.

Nell’introduzione di Le siècle de Louis XIV Voltaire racchiude tutta la storia del mondo in quattro grandi epoche durante le quali le arti si perfezionarono e si imposero ad esempio per la posterità. Nella mente dello scrittore tali secoli si susseguivano secondo il seguente ordine: “Le premier de ces siècles (37), a qui la veritable gloire est attaché est celui de Philippe et d’Alexandre ou des Périclès, Demosthènes, des Aristote, des Platon, des Apelle, des Phidias, des Praxitèles; et cet honneur a été renfermé dans les limites de la Gréce; le reste de la terre alors connue était barbare.

Le second  âge est celui de Cesar et d’Auguste, designé ancor par les noms de Lucréce, de Ciceron, de Tite Live, de Virgile, d’Horace, d’Ovide, de Varron, de Vitruve.

Le troisième est celui  qui suivit  la prise de Costantinople par Mahomet II... Les Médicis appélerent à Florence les savants que les Turcs chassaient de la Grèce; c’était le temp de la glorie d’Italie. Les beaux art y avaient déjà repris une vie nouvelle; les italiens les honnorerent du nom de vertu; comme les premiers grecs les avaient caractérisés du nom de sagesse. Tout tendait à la perfection.

Le quatrième siècle est celui qu’on nomme le siècle deLouis XIV et c’est peut ëtre celui des quattre qui approche le plus de la perfection. Enrichi des decouvertes des trois autres il a plus fait en certains genres que les trois ensemble”. (38)

Ed ecco delineato in pochi tratti quello che è lo schema volterriano.

Sostanzialmente nulla è mutato  (39) e Voltaire altro non ha fatto che riprendere quello che era stato lo schema dell’ultimo Seicento, dopo avere superato quei tentativi innovatori e sterili di cui si è detto prima. La polemica Boileau-Perrault aveva concluso che in arte il secolo XVII poteva benissimo stare alla pari con quello di Augusto; e Voltaire per quello che concerne l’arte  non va più lontano: ”Tous les arts, à la verité, n’ont point été poussées plus loin que sous le Médicis, sous les Auguste et les Alexandre”. (40) Va oltre invece quando prende a considerare la ragione umana: “mais la raion humaine en géneral s’est perfectionnée” (41) l’idea del progresso non ammette soste e come in meccanica, dallo sviluppo di una parte meno complessa si passa alla formazione di un’altra parte più complessa, ma anche più completa, così in letteratura lo spirito si sviluppa ed acquista nuove forme raggiungendo punti più alti. E’ appunto seguendo questa evoluzione del progresso che Voltaire, proprio all’inizio della sua opera, non ha esitazioni nell’affermare: “On veut essayer de peindre a la posterité, non les actions d’un seul homme, mais l’esprit des hommes dans le siècle le puis éclairé qui fut jamais”. (42)

Un po’troppo azzardata pare questa affermazione proprio nel secolo dei lumi.  Viene infatti subito da chiederci: “Un periodo non è forse la conclusione di quello precedente e la base di partenza per il seguente? Quindi è logico e doveroso concedere che dovranno sopravvenire epoche in cui si avrà il superamento del “Grand Siècle”.in cui lo spirito farà assai lunghi passi nella via del sapere.

Forse con quella frase Voltaire aveva voluto solo affermare che il Seicento resterà modello importantissimo delle grandezze future e quest’idea è confermata da una frase che si legge nel corso dell’opera (43): “Il resterà le modèle des âges encore plus fortunés qu’il aura fait naitre”.

Anche Voltaire, come già Boileau, perdeva di vista e passava sotto silenzio il Cinquecento francese: “François I encouragea des savants, mais qui ne furent que savants”.  Con tale osservazione quel secolo veniva considerato solo dal punto di vista dell’erudizione mentre la poesia era immaginata come una favolosa Araba Fenice, Ecco, infatti, come considerava il XVI secolo: “Quelques epigrammes et quelques contes libres composaint toute notre poésie. Rabelais était notre seul livre de prose à la mode du temps de Henry II”. (44)

E poco più oltre: “ Avant le siècle que j’appelle de Louis XIV et qui commence à peut prés à l’etablissement de l’Academie française, les Italiens appelaient tous les ultramontains du nom de Barbares; il faut avouer que  les Français meritaient en quelque sorte cette injure”. (45)

A maggior ragione tutto quanto il Medioevo veniva da Voltaire considerato come il Cinquecento e cioè ’barbare’.  “Pendant neuf-cents années, le genie des Français a été presque toujours rétréci sous un gouvernement gotique... n’ayant ni lois, ni coutumes fixes, changeant de deux siècles en deux siècles  un language toujours grossier... Les Français n’eurent part  ni aux grandes decouvertes ni aux inventions  admirable des autres nations et il faisaient  des tournois, pendant que les Portugais et les Espagnols decouvraient et conqueraient des nouveauix mondes...(46)

Queste considerazioni su un Medioevo completamente  negativo servono però a Voltaire per la sua tesi e servono da introduzione al suo “siècle le plus éclairé qu’il fut jamais”. 

In conclusione lo schema volterriano può essere così riassunto. Dopo due grandi età, quella di Pericle e quella di Augusto, si ha una lunga stasi un periodo oscuro della durata di circa novecento anni. In Italia tale stasi è interrotta dal mecenatismo dei Medici, mentre in Francia continua ancora per un secolo e si interrompe con la formazione dell’ Academie Française. Quest’ultimo periodo è però la fusione e il coronamento dei tre precedenti.

 

Non molto diverso da quello di Voltaire doveva essere  lo schema del suo ‘luogotenente’ (come lo chiamava Sain-Beuve(47), La Harpe. Alla fine del Settecento, proprio con La Harpe la critica subisce un altro mutamento.

Secondo Brunetière la critica di La Harpe non è priva di gravi difetti. Si nota in lui una certa strettezza di spirito, la compiacenza di fare una critica pedantesca e volentieri denigratoria.

 Maltratta i suoi nemici e parla spesso di autori latini e greci senza conoscerli perfettamente e sovente la sua indagine letteraria manca di spirito, di larghezza, di portata. Ma bisogna riconoscere che le sue idee sul XVII e sul XVIII secolo sono assai fertili e offrono giudizi e spunti assai preziosi. “ Le Lycée de la Harpe (48) esprime ou traduit pour nous dans l’histoire le dernier état de la doctrine classique. Du milieu du XVII siècle a la fin du XVIII siècle, si vous voulez mesurer le progrés accompli, c’est a le Lycée qu’il faut lire et  c’est La Harpe qui’il faut interoger”. (49)

La letteratura deve a lui  il fatto di aver ridotto in un corpo unico tutta la storia e la valorizzazione delle opere; cosa questa di cui La Harpe stesso fu consapevole”, (50)

Questa è la sua importanza e in ciò il suo merito anche se il piano dell’opera è difettoso (51) perché troppo vasto e non perfezionato nelle sue parti. La Harpe ha avuto l’onore d’aver considerato la storia della letteratura nella totalità e nel suo succedersi e di averla trattata per se stessa e di averla considerata capace di spiegarsi da sola senza l’aiuto esterno e di aver aperto una via feconda di nuovi frutti.

Il giudizio di Faguet su La Harpe è identico a quello di La Brunetière: “Son cours de Lycée forma quelques volumes d’une très saine et assez fine critique ou se révèlent des grandes lacunes relativement à la connaissance de la littérature ancienne, mais beaucoup de savoir et de goüt pour ce qui regarde  le XVII  et le XVIII siècle, et qui tout compte fait, forme la prémière histoire suivie de la littérature qui ait paru en France”. (52)

Considerando ora più da vicino l’opera di La Harpe e lo schema di questa, si nota come l’ampiezza della parte riguardante la letteratura antica sia molto più ridotta di quella riguardante la letteratura moderna. La Harpe arriva infatti solo a dedicare quattro volumi alla letteratura greco-romana e si dilunga, nello svolgerla, a trattare i grandi tragediografi greci, a descrivere la bellezza della poesia latina considerata nel suo periodo aureo e a parlare dei più grandi fra gli oratori greci e latini.

Sainte-Beuve ha dato un assai esatto giudizio quando ha preso in considerazione questa parte del Ltycée, scrivendo: “Sur l’antiquité il ne fait que courrir sans doute, il est léger; pour un homme auissi instruit et dont c’est le metier de l’ être, il a des ignorances singulières et des oublis; il n’en a pas de moins fortes et des moins frappantes a nos yeux sur les époques intermediaires qu’il franchit rapidement et où son auditore ne lui demende du reste que des esquisses, très suffisantes alors”, (53)

Per quel che riguarda l’antichità, quindi, La Harpe ha seguito il solito schema; ma per ciò che riguarda le ‘epoche intermediarie’, invece, salta a piè pari un lunghissimo periodo, apre una piccola parentesi per poter così gettare un rapido sguardo a quei dieci secoli che erano sempre stati considerati un  tabù.

Il suo discorso, tenuto nel 1797, Introduction sur l’état   des lettres en Europe depuis la fin du siècle qui suivit celui de Auguste jusq’au règne del Louis XIV è assai significativo e segna l’inizio di quegli studi sul Medioevo che avranno grande incremento nel secolo  successivo.

In quei secoli in cui i critici precedenti avevano visto solo oscurità e barbarie, La Harpe rileva una grande conquista, anticipando così di qualche anno le Genie du Christianisme: “Cependant vers le milieux du quatrième siècle... une eloquence nouvelle naquit avec une nouvelle religion, qui des prisons et des échafauds venait de monter sur le trone des Cesars. Cette voix auguste et puissante était celle des orateurs du Christianisme”. (54)

Ma dopo questa scoperta a Harpe si ferma e, riprendendo la tradizione, torna a ripetere ilsolito ritornello: “depuis le cinquième jusq’au dixième sieclès ... s’étendent les ténèbre de l’ignorance et du mauvais goüt”.

Ogni tanto però affiora il tentativo di mitigare il giudizio su quei  secoli col riconoscere loro alcuni meriti: “Ont dois donc aux  ètudes des clercs d’avoir préparé le retablissements des lettres par la conservation des manuscrits, tresor unique avant l’imprimerie”.(55)

Il riallacciamento tra la letteratura antica e la moderna avviene con Marot. Ciononostante il rapidissimo sguardo di La Harpe su quei dieci secoli dimenticati è segno che lo schema letterario stava orientandosi anche verso il Medioevo.

Giova qui notare come già nel lavoro di La Harpe si abbina il sentore di ciò; infatti, il suo tomo quinto del Lycée inizia con una breve digressione sulla poesia francese prima di  Marot. si trattava solamente di una quindicina di pagine dove si accenna appena al sorgere di una poesia trobadorica, al formarsi dei ‘fabliaux’ (da cui –osserva La Harpe – “La Fontaine en a tiré plusieurs de ses plus jolies contes, Bocace un assez gran nombre de ses nouvelle et Molières même quelques scenes”(56), all’evoluzione delle “chansons provençales” con Thibault. Neanche il Roman de la rose (che ebbe una grande reputazione), è dimenticato.

Finalmente gli studi concernenti il Medioevo incominciano a fare la loro comparsa nelle storiografie letterarie, lasciando quel mondo erudito in cui avevano vegetato sterilmente per tutto il Cinquecento, Seicento e Settecento. Incomincia, quindi, con la parte assai esigua dell’opera dedicata al Medioevo da La Harpe, quella relazione, quella fusione di eruditi con gli storici, dei ricercatori dei materiali con gli uomini del pensiero.

Alla fine del Settecento, pertanto, con l’apparire di opere letterarie che vengono ad approfondire, a rendere più saldi i contatti tra eruditi e pensatori, perdono interesse le storie prammatiche, quelle storiografie che avevano caratterizzato i secoli precedenti, quelle storie cioè – come dice Benedetto Croce (57) – che ricercavano le ragioni dei fatti storici nell’uomo considerato in quanto individuo, reso astratto e contrapposto, in quanto tale, non solo all’universo ma anche agli altri uomini, parimenti resi astratti; sicché la storia appariva, in questa figura, una azione e reazione meccanica di entità chiuse ciascuna in se medesima.

Ma anche se a poco a poco queste storie si dileguano, nei primi critici ottocenteschi e nei loro schemi letterari, rimangono ancora quelle abitudini verbali, quelle divisioni schematiche che avevano spezzettato la storia letteraria nel “secolo di Pericle”, nel “secolo di Augusto”, “di Leone X” e “di Luigi XIV.”

 

Ritornando al Lycée ed esaminando lo schema da Marot in poi, balza evidente come La Harpe sviluppi eccessivamente il XVIII secolo a scapito del XVII. Il critico si era proposto di sviluppare la letteratura nelle sue tre grandi divisione: Antichità – Siècle de Louis XIV – XVIII  siècle, e alla prima parte dedicò i volumi dal I al IV; alla seconda dal V all’VIII ; alla terza dal IX al XVIII. La deficienza di indagine critica approfondita dell’antichità è dovuta – come nota Sainte Beuve – “ à des ignorances singuliéres et des oublis” (58), però quando giunge a toccare epoche a lui più vicine e da lui più conosciute “ses jugements se fixent e s’affermissent”.  Nel suo secolo poi, proprio quel XVII secolo a cui è dedicato più della metà della sua opera, domina da maestro. Osserva giustamente Sainte-Beuve; “cest le XVIII siècle surtout qui a été le théatre et comme l’arène de luttes et des combats de La Harpe... (59)

Altro passo in avanti aveva con lui fatto lo schema storiografico. Non dobbiamo però lasciarci ingannare dalla prolissa indagine sul Settecento per concludere che il critico considerava quel secolo superiore agli altri. Per lui era ancora valido lo schema volterriano solo che a questo aveva aggiunto quelle sedici significative pagine sugli scrittori prima di Marot, e alcune riflessioni su quei secoli considerati oscuri. Ed  è in questo che consiste il passo in avanti dello schema letterario.

Fino al 1793 quindi, possiamo considerare La Harpe ancora appartenente  a quel XVIII secolo rivoluzionario ma dopo la sua incarcerazione e dopo un  anno passato i prigione il critico cambia idea; e dal 1794 in poi lo si può considerare come un precursore di quel gruppo letterario al quale era affidato tutto l’avvenire delle lettere. (60)

L’esempio dell’arte classica non si era dileguato al XVIII secolo e lo schema letterario settecentesco riflette una dialettica di tradizione e rivoluzione sulla quale si svolge la storia politica e morale, e nello stesso tempo non si  può trascurare un nuovo movimento cioè il Romanticismo che dà i primi segni di vita.

Lo schema classico quindi si imbatte in due correnti avverse: la Rivoluzione e il Romanticismo.

Sembrò forse dopo l’opera della Stael, che esse avessero molto in comune quando la scrittrice pensò ad un progresso concorde di letteratura e istituzioni repubblicane, ma le distinzioni tra l’ideologia rivoluzionaria e il programma romantico diedero un aspetto diverso alle due correnti; e lo schema classico mosse su due linee: una che si opponeva agli errori del pensiero che avevano condotto alla Rivoluzione, e l’altra che si opponeva al sentimento che appariva la causa prima del Romanticismo. Ne derivò che, partendo dal secolo di Luigi XIV come periodo di unità organica dello spirito francese, si giungesse ad una reazione  all’opera del Settecento (Chateaubriand) o a una campagna antiromantica (Nisard).

Con La Harpe il XVIII secolo si concludeva. Dobbiamo convenire, però che la critica romantica anche se nega ogni suo contatto col Settecento, tuttavia per molti legami si riallaccia a quelle idee ed accoglie, forse inconsciamente, molto più di quanto non creda dell’epoca che l’ha preceduta.

 

 

 

 

NOTE:

 

1 B. Croce, Teoria e storia della storiografia, Bari, Laterza, 1920, p.219

2 C. Pellegrini, Relazioni tra la letteratura italiana e la letteratura francese, in “Letterature comparate”, Milano Marzorati, 1948, p. 57.

3 F. Simone, Le origini del Rinascimento in Francia e la funzione storica della cultura avignonese, in “Convivium” , 1951, n°2, pp 161-204.

4  I. E. Spingarn, La critica letteraria nel Rinascimento, Bari, Laterza, 1905, p.174.

5 ivi, p. 174.

6 A confermare tale giudizio, basta leggere ciò che della Defence scrivono alcuni critici, tra i quali il Brunetière che così si esprime “...c’est un livre où les mots sont plus grands que les choses, disproportionnés à l’interet de ces choses, et les choses traitées , êlles mêmes sans égards à la multiplicité des rapport quêlles soiutiennent avec d’aitres choses... c’est un livre quelque peut pedant... c’est un livre confus... c’est surtout un livre où les contradictions de toute sorte abondent”. (Brunetières, Evolutions des genres, p.42).

7 Da uno studio sulle fonti principale della Defence, si nota come l’influsso della cultura italiana fosse allora assai profondo. Il Pellegrini in un suo articolo, Relazioni tra la letteratura italiana e la letteratura francese così scrive: “Le idee del Du Bellay non erano completamente originali perché erano in buona parte un riecheggiamento – qualche volta addirittura una traduzione letterale- di quello che Sperone Speroni aveva scritto nei suoi Dialoghi, risentivano in genere dell’influsso italiano” (p-57).   Lo Spingarn invece nota un avvicinamento col De vulgari eloquentia di Dante, volgarizzato dal Trissino e pubblicato nel 1529, vent’anni prima cioè della Defence (p.177).

8  “Mais on ne saurait se dissimuler qu’en sobstituant l’imitation des anciens a celle mêmes de la nature, et qu’en prenent pour devises le f âcheux distique:

‘Rien ne nous plait hors ce qui peut déplaire

Au jugement du rude populaire...”

La Pléiade n’ait creusè trop profondément chez nous l’abime qui déjà partout sépare assez la littérature de la vie nationale, et qu’elle n’ait ainsi donné au classicisme en France quelque chose de plus savant, de plus compassé, de plus artificiel aussi que peut-être nulle part ailleurs”. (Brunetière, Evolutions des genres, p.45).

9  A riprova  di ciò Boileau, solo qualche secolo dopo, parlava del Medioevo (che non conosceva affatto) come di un periodo assai confuso

10  René Bray a tal proposito scrive: “...il y a trois choses à considerer dans la littérature classique, son principe qui est l’imitation de l’antiquité et que la Pléiade a introduit en France...,” (La formation de la doctrine classique. Avant propos,( p. I).    

11 A. Faguet, XVI siècle, Paris, Boivin, p.179.

12 ivi p.179

13  “Malherbe... inaugure une nouvelle période de la letteratura française, un deuxième moment de l’ âge  classique “. (R.Bray, la doctrine classique, Paris, 1931,p.7.

14  G.Lanson, Histoire de la littérature françaises, Paris , Hachette, 1946, p.360.

15  Così . Bray scrive di lui “Mais l’oeuvre essentielle de Malerbe ce n’est pas on oeuvre positive, c’est son oeuvre negative, En combattan Ronsard, il a rendu possibile un renouvellement nécessaire. Peu importe que sa leçon de style n’ait pas porté ses fruits immédiatement, peu importe même qu’il ait réformé la langue et les vers. Si ces réformes se sont imposées, si Chapelain a pu créer la doctrine classique, si Boileau plus tard a put instaurer le goüt classique, c’est parce que Malherbe a rompu aved Ronsard, le XVII siècle avec le XVI “. (La doctrine classique en France, op. cit, p.8.

16 R,Bray, La formation de la doctrine classique, Paris, 1931, p.355.

17  “Enfin Malerbe vint, et, le premier en France

        Fit sentir dans les vers une juste cadence...” , (Boileau, Art poetique, Lib. I , vv. 132-133).

18  C. Pellegrini. Relazioni tra la letteratura italiana..., op cit,p. 62 

19  R, Bray, op cit, p. 48.

20  R. Bray,  op. cit., p. 48..

21  R, Bray, op cit., p. 99.

22  Boileau, Art Poetique, Libro III, v. 108.

23  Boileau, ivi , v. 359.

24  R.Bray, op cit, p. 158.

25  F. Brunetiére, op. cit, p.112.

26  Boileau, Oeuvres completes, Paris, Hachette, 1867, Tomo II, Lettera XX, p. 212.

27  E. Faguet, op. cit p.XIX.

28  N. Ségur, Histoire de la letterature européenne,  5 volumi, Paris, 1951 , v. III, p. 115.

29  E già Boileau al termine della sua carriera e proprio nell’anno 1700 aveva espresso tale idea e così scriveva a Perrault “...je ferois voir que pour la tragedie nous sommes beaucoup superieurs aux latin...; je ferois voir  que bien loins qu’ils aient eu dans ces siècle-là des poètes comiques meilleurs que les nostres, ils n’en ont pas eu un seul dont le nom ait mérité qu’on s’en souvint;...   je montrerois que si pour l’ode nous n’avons point d’auteurs si parfait qu’Horace... nous en avons néanmoins un assez grand nombre qu’il ne lui sont guére inferieurs...” (Lettera XX da Oeuvres complètes, op cit. Tomo II , p.215). Ma Boileau non si era fermato solo a queste constatazioni in quanto aveva aggiunto: “Je montreroi qu’il y a pas des genres de poésie ou non seulement les latins ne nous ont point surpassés mais qu’il n’ont pa

même connus, comme, par exemple, ces poèmes en prose que nous appelons Romans... (ibidem p.216). Tale frase è assai significativa in quanto proprio l’esponente maggiore della dottrina classica viene a confermare che i moderni hanno generi che i latini non avevano e, conseguenza logica, in futuro vi saranno generi che noi non abbiamo, e da ciò deriva una certa relatività anche nelle cose letterarie; e tale relatività, già ai primi del Settecento incomincia a penetrare nella critica.

30  J.Bédier et Paul Hazard, Littérature française, 2 voll.Paris, 1948, vol II , p. 4.

31  F. Neri, La costruzione della storia  letteraria francese in “Miscellanea della Facoltà di Lettere e Filosofia di Torino” 2 voll., Torino, 1938, vol II , p.234.

32  B.Croce, Storia della storiografia, Bari, Laterza, 1920, p.231.

33  B. Croce, Teoria e storia della storiografia , op cit., pp 220-221.

34  B. Croce, ibidem p.221.

35  E. Faguet, Histoire de la littérature française, Paris, Plon librerie, 1900, p.264.

36  E. Faguet, Histoire de la littérature française depuis le XVII siècle jusqu’à nos jours, Paris, 1900, p. 201.

37  A, Voltaire, Le siècle de Louis XIV, , 2 voll, Paris, Garnier, 1947, vol I, p. 1 e segg..

38  Tale idea venne ripresa più volte nell’opera come ad esempio a pagina 129 (tomo II) dove Voltaire scrive: “Le siècle de Louis XIV a donc en tout la destinée des siècles de Leon X, d’Auguste, d’Alexandre”. Non solo in quest’opera Voltaire dimostra il suo attaccamento al XVII secolo, ma anche, ad esempio, nelle sue Correspondences générales dove si legge : “J’avois cru que Racine seroit ma consolation, mais il est mon desespoir. Cest le comble de linsolence de faire une tragédie après ce gran homme. (tomo VIII p. 465).  E in un altro punto: “La mode est aujourd’hui de mepriser Colbert et Louis XIV; cette mode passerà et ces deux hommes resteront à la postérité avec Boileau”. (ibid. tomo XV, p. 108). E in un altro ancora: “Je proverois bien que les choses passables de ce temps-ci sont toutes puisées dns les bons ecrits de Louis XIV. Nos mauvais livres sont moins mauvais que les mauvais que l’ont faisoit du temps de Boileau, de Racine et de Moliàre, parce que dans ces plats aouvrage d’aujourd’hui il y a toujours quelques morceaux tiré  visiblement des auteurs du règne di bon goüt”.(ibidem, tomo XIII, p. 219)

39  Il Brunetière a proposito dell’influenza di Voltaire, così scrive nella sua opera L’evolution des genres: “C’est pourquoi bienfaisante en plus d’un point, si fàcheuse et si regrettable en tant d’autres, l’influence de Voltaire, malgré les apparences à été  presque nulle en critique; ou pour mieux dire ancore, ses idées en se  compensant, se sont annullée elles mêmes; et pendant soixante ans tout ce quil’a fait ç’a été  en total de maintenir la critique au point ou il avail trouvée”. (p 153)

40  A. Voltaire, Le siècle de Louis XIV, op. cit., p.3

41  A. Voltaire. Ibidem.

42  A.Voltaire, ibidem.

43  A Voltaire, ibidem ,p. 137

44  A Voltaire, ibidem., p. 2

45  A. Voltaire, ibidem, p. 3

46  A.Voltaire, ibidem,  p.3.

47  Sainte-Beuve, Causeries du lundi, Garnier, Tomo V, p. 103.

48  F. Brunetière, L’evolution des genres, op cit,. p. 162

49  F.Brunetières, nell’Histoire de la littérature française ripete un giudizio analogo: “Le Lycée est une oeuvre considérable; il temoigne du derniér  état du classicisme; il est en matière de critique littéraire l’aboutissement de l’esprit du XVIII siècle”. (p. 603)

50  “Nous avons – scrive nella prefazione del Lycéeune multitude de livre didattiques.. mais içi, je crois la première fois, soit en France, soit même en Europe, quon offre au public une histoire raisonnée de tous les arts de l’esprit et de l’imagination, depuis Homère jusqu’a nos jours, qui n’esclut que les sciences exactes et les sciences phisiques.

51  La Harpe stesso nota le difficoltà e così scrive: “Je ne puis trop répéter combien je me senta au dessous d’un si grand sujet, et si l’on me croyait ici moins modeste que je ne le peut paraitre, c’est qu’on me croirait aussi plus ignorant que je ne le suis; car il suffit d’avoir étudié, comme je l’ai fait, quelques-uns des objets de ce cours, pour sentir, comme moi, qu’un seul peut  être demanderait toute la vie d’un artiste, et d’un bon artiste, pour avoir toute son integrité et toute sa perfection”. (Lycée – Preface p. 11

52  E. Faguet, Histoire de la littérature française, op. cit., p. 256

53  Sainte-Beuve, Causeries du lundi, op. cit., Tomo V, p. 117.

54  La Harpe  J.F., Lycée, voll. 18, Paris, Dufour et C., 1829, Tomo V, p. 17.

55  La Harpe J.F.,  ibidem, p.29

56  La Harpe J.F.. ibidem, p.68

57  B. Croce, Teoria e storia della storiografia, op. cit, p. 82

58  Sainte-Beuves, Causeries du lundi, op. cit, p. 117

59 Sainte-Beuve,  ibidem, p. 120.

60  Così scrive di lui Sainte-Beuve: “Avec tous ses defaut et toutes ses imperfections de nature, donnant en mourrant la main à Chteaubriand, à Fontanes, à tout ce jeune groupe littéraire en qui alors était l’avenir, il trasmit le flambeau vivant de la  tradition, et il justifia le premier pronostic de Voltaire à son égard: ‘Quelque chose qui arrive, je vous regarde comme le restaurateurs des Belles Lettres’. C’est ce mot magnifique, mai juste après tout (si l’on considère l’ensemble du rôle et de l’influence) qu’il  foudrait graver sur son tombeau”. (Causeries du lundi, Tomo V).

 

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