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CAPITOLO SECONDO
EREDITA’ ILLUMINISTICA
1) Rapporti e differenze tra Settecento e Ottocento. 2) Importanza degli studi sui secoli medievali.
1) Rapporti e differenze tra Settecento e Ottocento
Durante gli ultimi anni del Settecento e ai primi dell’Ottocento interviene, in letteratura, un complesso di forze trasformatrici che influisce profondamente sullo sviluppo dello spirito e spinge per una nuova via la storia letteraria. Le nuove correnti del gusto letterario però non si dipartono, almeno nel primo Ottocento, dalle premesse, assai ricche d’altronde e fertili di contrasti, di spunti e di velleità moderne, che avevano caratterizzato la cultura alla fine del secolo precedente. Quelle cose che nell’Ottocento vennero ad acquistare grande importanza furono tutti quei sistemi politici, morali e irreligiosi che si erano formati nei secoli precedenti. Il Settecento col suo intraprendere ricerche, col suo preparare discussioni, abbozzare problemi e tesi aveva dimostrato una grande curiosità. In letteratura si vennero a poco a poco creando, o per meglio dire, risuscitando generi che s’erano lasciati estinguere. Il XVIII secolo ha quasi creato la scienza politica, ha indirizzato nella giusta via la storia civile, ha creato e lanciato assai avanti le scienze naturali, ma cosa strana, l’Ottocento, accogliendo tali idee le ha rivolte contro il Settecento stesso. In politica ha., infatti, dimostrato che tale scienza non si costruisce con astrazioni o sillogismi come il XVIII secolo credeva; la storia civile dell’Ottocento ha dimostrato che la tradizione ha la sua importanza ed è essenziale alla vita di una nazione, mentre le scienze naturali invece di basarsi sull’uguaglianza degli uomini sono nell’Ottocento venute a ristabilire le teorie dell’ereditarietà e della selezione le quali dimostrano come l’uguaglianza tra gli uomini sia un’utopia. Nonostante però l’avversione ottocentesca, il Settecento ha reso al Romanticismo un grande servigio che consiste nell’aver mutato il pubblico a cui il letterato è solito rivolgersi. Prima della Rivoluzione ogni scrittore sapeva che il suo pubblico consisteva in quella ‘élite’ che frequentava i salotti parigini e ad essa sola si rivolgeva. L’avvento di nuove idee e di una nuova forma filosofica venne a mutare questo stato di cose. Il sensismo del Locke occupò il posto che fino ad allora aveva tenuto il razionalismo cartesiano. Tale nuova filosofia aveva un carattere popolare che si appoggiava non su alcuni principi innati ma sull’esperienza mediante la quale ognuno poteva e doveva analizzare la mutevole e varia combinazione delle sensazioni che costituisce la nostra vita intellettuale. Ogni esperienza poteva dimostrarsi degna di diventare oggetto di indagine, ognuno poteva quindi collaborare con la propria esperienza all’opera di un pensatore. E ciò andava contro quegli uomini di mestiere che volevano opporre al giudizio schiettto della moltitudine non prevenuta, le loro regole, i loro canoni. Dopo la Rivoluzione il pubblico si allarga a tutta la Francia e non solo ai salotti parigini. Questa è una delle grandi differenze tra i due secoli; e da questa deriva un altro fatto e cioè che la letteratura diventa più personale. Ognuno scrive ancora per il pubblico ma scrive ancor più per se stesso, per soddisfarsi, per esprimere i suoi sentimenti, le sue passioni. La letteratura diventa così, oltreché elegiaca, anche varia, divergente, avventurosa ed è proprio in tale letteratura che la vera originalità può trovare il suo posto riconosciuto. Un’altra conseguenza della Rivoluzione Francese e di tutti quegli avvenimenti che ne derivarono, fu una maggior serietà ed una meditazione più profonda che si venne sempre più avvertendo in seno alla nazione francese. Il riflettere sul problema del destino dell’umanità e delle varie nazioni venne ad imprimere un movimernto assai vivo agli studi storici. Nel periodo precedente non si giudicava sempre con imparzialità ma ogni opera (vedi Voltaire) era un’opera di combattimento. Una cosa che distinse il XIX dal XVIII secolo fu lo studio della filosofia e della storia in se stesse, senza preoccupazioni, col fine di conoscerle e non con quello di consultarle, col fine di sapere come l’umanità cammina, con lo scopo infine di scoprire non nuovi enigmi ma l’inizio di una soluzione. E lo spirito filosofico del Settecento fu una grande eredità per il secolo successivo: basti pensare a quella “filosofia della storia” che si tentò nell’Ottocento; e il Faguet, a proposito di ciò, scrive “la poésie des romantiques eut des ambitions et de prétentions philosophiques que n’avait jamais eues, sauf de très légères exceptions, la poésie française depuis ses origines”. (1) Grande importanza ebbe anche il fatto che con la Rivoluzione Francese si venne ad abolire quella muraglia che esisteva tra i pochi cultori delle arti e la moltitudine; e in seguito a ciò, quello che venne a mutare completamente fu il gusto. Abbiamo visto che Boileau nel Seicento rappresenta il gusto, quel gusto a cui ogni scrittore cerca di avvicinarsi; anche nel Settecento tale gusto esiste ed è considerato come un qualche cosa che sta al di fuori, alla portata però di chi ha la capacità di raggiungerlo. Nell’Ottocento, invece, con l’allargarsi della letteratura, questo gusto viene a scomparire o per meglio dire ognuno non cerca di aspirare ad un gusto determinato ed esteriore, ma lavora seguendo il suo proprio e cerca di esprimere cose consone alla sua natura, di cercare e formarsi delle regole, di fare, in poche parole, della sua opera un lavoro soggettivo. Sensibilità e immaginazione vengono quindi ad occupare il piedistallo che la Ragione aveva avuto nel Settecento e le regole nel Seicento. Un’altra eredità che il Settecento lascia all’Ottocento è dovuta al fatto che la Rivoluzione francese ha tolto le barriere che esistevano tra popolo e popolo e all’aver mescolato le razze europee. Non che prima non vi fossero contatti fra le nazioni ma ora sono più solidi e ciò che ora si chiama cosmopolitismo letterario è un contatto assai più profondo che non quello di tutti gli altri secoli passati. Ciò è assai importante. Il contatto con altri popoli diversi da quello francese mostrò che esistevano autori stranieri stupendi, autori che erano ben distanti dal gusto francese; e questo diede il colpo finale al classicismo. Il gusto francese che in gran parte derivava da quello antico, non era il gusto esclusivo, il gusto, diciamo, ‘principe’ ma ne esistevano altri, molti altri ugualmente importanti e ugualmente belli. Il Settecento poi, e più precisamente Voltaire, ha lasciato al Romanticismo un dono assai importante: l’universalità. Voltaire fu il maggior rappresentante del Settecento e, pur non toccando sempre il vertice nel genere che considerava, nulla gli è rimasto estraneo dalla satira alla poesia, alla filosofia, alla storia. Ciò che egli lasciò dopo di sé, dal punto di vista letterario, fu l’introduzione di una prosa chiara e logica; in storia ebbe, invece, una influenza assai deleteria in quanto con lui la storia divenne oltremodo mondana e a causa di una eccessiva ‘plaisanterie’ essa perse quella gravità che tutti gli storici precedenti avevano sempre cercato presso gli antichi, specie Tucidide, e fu assai lontana dal metodo del XIX secolo. E, inoltre, dall’influenza dei suoi scritti – nota Brunetiére, deriva quella borghesia francese del tempo di Luigi Filippo, quei materialisti del Secondo Impero e gli indifferenti della fine del XIX secolo, tutti coloro cioè che a priori oppongono religione a ragione. Il Romanticismo, quindi, malgrado evidenti contrasti tendano ad escluderlo, si riattacca con legami numerosi e forti alla letteratura del XVIII secolo. E anche quello spirito lirico, che trova la sua più alta espressione nei primi decenni dell’Ottocento, affonda le sue radici in uno stato di spirito preesistente alla Rivoluzione e trova in esso uguali sensazioni, uguali espirazioni, uguali tendenze. Una liberazione dal Settecento l’abbiamo già con Rousseau. Egli emancipa la sensibilità dalla lunga soggezione in cui era stata mantenuta dall’educazione giansenista e dal razionalismo cartesiano; e da questo punto di vista si può dire che la sensibilità romantica trova in lui un valido precursore, tanto che tutti i Romantici l’hanno riconosciuto quale loro antenato. Oltre a ciò, sempre attraverso Rousseau, verso la fine del Settecento si andarono sempre più ristabilendo e rafforzando quelli che sono i diritti della personalità e la sovranità dell’Io. E’in questo periodo e più particolarmente nell’opera di Rousseau che il lirismo dell’Ottocento trova una sua sorgente. Oltre a ciò la maggior parte dei temi che vengono trattati dai Romantici con una adesione completa e con una notevole magnificenza, già da tempo erano stati trovati e osservati da scrittori del Settecento; l’unica differenza consisteva in questo: che il XVIII secolo non aveva dato completo sviluppo a detti temi, non li aveva organizzati ma erano rimasti come disgiunte melodie e non attendevano che di essere ‘orchestrate’ da una mano maestra. Nella seconda metà del Settecento già si risente un pressante stimolo romantico che cerca una via d’uscita per manifestarsi e per scrollarsi di dosso quegli impedimenti dei secoli precedenti e buona parte dell’opera compiuta da Mme de Stael, da Chateaubriand in letteratura, da Vico, da Heghel, da Herder in filosofia, da Winckelmann e da Mengs in arte, e dai loro successori, sono i risultati di questo stimolo. I mezzi di espressione, il sentimemto che mancavano al Settecento per mettere in armonia pensiero e forma, ispirazione ed arte cominciano a trapelare nei suddetti scrittori e nelle loro opere.
2) Importanza degli studi sui secoli medievali.
Nello studiare il passaggio della storiografia settecentesca a quella ottocentesca, si avverte una sottile differenza data dal fatto che mentre il Settecento si era indirizzato verso una ricerca sistematica dell’avvenire, l’Ottocento aveva cominciato a volgere ogni suo sguardo, ogni sua indagine al passato. Tale studio, però, guidato dalla forza dei critici ottocenteschi aveva evitato il rischio di incorrere in un errore: quello di accettare supinamente ogni insegnamento, ogni idea che venisse dal passato e aveva conservato sempre un chiaro e deciso contatto col presente. “Il 1815 – scrive De Sanctis nella sua Letteratura Italiana (2) - è una data memorabile come quella del concilio di Trento. Segna la manifestazione ufficiale di una reazione non solo politica ma filosofica e letteraria. Venne di moda un nuovo vocabolario filosofico, letterario, politico. I due nemici erano il materialismo e lo scetticismo e vi sorse contro lo spiritualissmo, portato sino all’idealismo e al misticismo. Al dritto di natura si oppose il dritto divino, alla sovranità popolare la legittimità, a’ dritti individuali lo Stato, alla libertà l’autorità o l’ordine. Il Medioevo ritornò a galla glorificato come la cultura dello spirito moderno e fu corso e ricorso dal pensiero in tutti i suoi indirizzi. Il Cristianesimo, bersaglio sino a quel punto di tutti gli strali, divenne il centro di ogni investigazione filosofica e la bandiera di ogni progresso sociale e civile”. Ma il lavoro compiuto dal Settecento è tutt’altro che una semplice passività nello svolgimento storiografico. Prendiamo,ad esempio, in considerazione il tema ampiamente trattato e dagli Illuimisti e dai Romantici, quello del Medioevo. La storiografia dell’Illuminismo giudica il Medioevo astrattamente in base ai principi di ragione e natura, in base all’ideale della contemporanea cultura cosmopolitica europea. Poiché sotto questi aspetti l’età del mezzo appare agli Illuministi l’età della rozzezza, della violenza, dell’anarchia, della superstizione, ecco che Voltaire si scaglia contro quell’età e polemizza, mettendola in ironia, ecco il Medioevo negazione di ogni sapere, negazione in certo senso di vera e propria costituzione non solo politica ma letteraria. L’elaborazione di questo schema letterario non viene però trattata in un’unica maniera nell’ambito stesso dell’Illuminismo. Contro l’idolatria del mondo classico – modello insuperato e insuperabile di bellezza e sapere - s’avverte in Europa una nuova concezione. A dimostrare questa affermazione valga, in Italia, l’esempio del Muratori che, già nel 1750, veniva a dimostrare che noi non siamo figli dei greci e dei romani, ma del Medioevo e allo studio del Medioevo dobbiamo rifarci se vogliamo renderci conto del mondo contemporaneo. Nella maggior parte degli illuministi c’è l’incomprensione dei grandi motivi organici del Medioevo e il Medioevo, come periodo, come formazione, rischia di andare perduto se si segue l’ideale vagheggiato da costoro. Nonostante ciò, è da questa critica negativa del Settecento, dai colpi dell’ironia e della critica volterriana che si passa a quella prospettiva scoperta di quello che vorremmo chiamare antimedioevo (per antitesi al Medioevo settecentesco) cioè la scoperta di tutti quegli stimoli vitali che segnano il passaggio dal Medioevo all’età moderna. Il compiacimento del presente, una più complessa curiosità di uomini e di cose, l’incapacità di spiegare l’assurdo dei secoli oscuri, spingono a cercare i modi singolari e le ragioni di quel mondo lontano. Ed ecco come in una specie di preromanticismo si incominci ad esaltare la purezza, la nobiltà, le vergini energie dei popoli giovani. I valori affermati dalla storiografia illuministica vengono così ad essere invertiti, All’opinione settecentesca si contrappone la tradizione, all’astrattezza della ragione, con tutti i suoi diritti naturali, con i suoi meccanici equilibri, si contrappone il sentimento, alla storia considerata come scienza, come sintesi di causa ed effetti, si contrappone l’originalità, la libera creazione dell’uomo nei quadri misteriosi della Provvidenza Divina. Il disagio che avvertono i Romantici di fronte al XVIII secolo è dovuto all’ideale di quel secolo che voleva una storia mossa soltanto da spiriti politici e civili, una storia ‘filosofica’ e ‘ragionata’. “Les ecrivains du XVIII siècle – scrive Chateaubriand (3) – doivent le plupart de leurs défauts à un système trompeur de la philosophie qu’en, étant plus religeux il eussent approché davantage de la perfection”. Mentre il movimento dell’enciclopedismo ha un aspetto irreligioso, il movimento romantico ha un aspetto religioso e sviluppa largamente la vaga religiosità degli autori della Profession de foi du Vicarie Savoyard e di Paul et Virginie; e da Rousseau e Bernardin de Sant-Pièrre si arriva a Chateaubriand. La reazione del Romanticismo all’Illuminismo e alle sue idee si manifesta con un sentimentale ritorno al passato. La reazione romantica fu, lo si deve riconoscere, un po’ esagerata al suo manifestarsi. Voleva, infatti, quasi fosse stato possibile, cancellare con un tratto di penna alcuni secoli per potersi meglio avvicinare a quel Medioevo considerato un modello esemplare. Ma questa esagerazione è una cosa, direi, necessaria ad ogni nuovo movimento. Non era forse un’utopia che il Settecento volesse la Ragione alla base di ogni idea? Eppure la dea Ragione aveva spadroneggiato per tutto il secolo dei lumi. Leggiamo in Chateaubriand: “La littérature du XVIII siècle, a part quelque beaux génies qui la dominent, cette littérature placée entre la littérature classique du XVII siècle et la littérature romantique du XIX, sans manquer de naturel, manque de nature; vouée à des arrangements de mots, elle n’est ni assez originale come école nouvelle, ni assez pure come école antique” (4) Conseguenza logica di questo stato di cose era il rifarsi ad una storia nostalgica, il cercare di mantenere e di ristabilire tutte le vecchie istituzioni degne di essere difese: si trattava,quindi, di fare una storia nostalgica e allo stesso tempo restauratrice. La purezza, l’originalità che Chateaubriand nega al XVIII secolo vengono ricercati proprio in quei periodi che gli illuministi avevano avversato e abbattuto. Un grande palpito di tenerezza, una nuova gioia innondò i petti nel riprendere contatto con i vecchi usi, costumi, con le antiche idee nazionali, regionali, nel ricordare e rivivere le antiche leggende. Questo spirito nostalgico penetrò profondamente in quasi tutte le opere romantiche e lavoro inutile sarebbe stato cercare di sminuirne il valore, Come una linfa vitale passò dagli scrittori minori, meno ricchi d’ingegno, come un De Barante per giungere alla sua più alta manifestazione in Chateaubriand, nel suo Génie du Christianisme. Particolarmente importante per gli Illuministi fu il concetto di progresso, parola che nel Settecento diventò assai familiare. Esso era considerato come il metro per giudicare i fatti della vita, per costruire la storia, per indagare l’evoluzione dello spirito. L’idea di progresso servì agli Illuministi come misura del futuro e non indagine del passato. Al passato pochi pensavano e quei pochi, quando lo facevano, ne parlavano solo per lamentarsene e sorriderne. Nonostante ciò l’idea di progresso accrebbe, nel Settecento, l’erudizione, accrebbe quella immensa mole di documenti e di notizie che già si possedeva e l’erudizione andò di pari passo con la critica. Questa considerazione del progresso non solo viziò il Settecento ma ancora si risente nei preromantici ed in alcuni romantici i quali vogliono Virgilio perfezionatore di Omero, distinguono i poeti inventori dai poeti eleganti, continuatori dell’opera dei primi, ed hanno, infine, l’idea del poeta primitivo e ne affermano la sua importanza. Ciò che rese sterile tutta quella congerie di idee, di fatti, di notizie, che il settecento aveva raccolto, fu la mancanza del concetto di svolgimento. ”Il difettivo concetto di svolgimento – scrive Croce in Teoria e storia della storiografia (5) – e non già circostanze accidentali come le tendenze pubblicistiche, giornalistiche e letterarie di quegli storici, è anche la ragione profonda del mancato contatto e congiungimento tra l’immensa erudizione accumulata dai filologi settecenteschi e la storiografia dell’Illuminismo”. Così erudizione e critica, simili a due parallele, corsero per molto tempo affiancate senza mai incontrarsi e restando entrambe sullo stesso piano. Gli eruditi, pur conoscendo ogni cosa , non riuscivano a darne un quadro compiuto per mancanza di indagine critica, per poca scioltezza di spirito; i critici, pur avendo la possibilità di oltrepassare la storia, si trovavano nell’incapacità di organizzarla per la loro esigua conoscenza erudita. Quesati i limiti della storiografia settecentesca, ma con ciò non si viene a dimostrare che la critica nel Settecento abbia segnato il passo. “Il trionfo e la catastrofe dell’Illuminismo (6) – continua Croce – fu la Rivoluzione francese ; e questa fu insieme la catastrofe e la catarsi della sua storiografia”. Il punto più importante che bisogna sempre tener presente nello studio della critica ottocentesca è il “pensiero nella forma di pensiero” e cioè ciò che determina il carattere scientifico dell’opera critica e non “il pensiero nella sua forma di sentimentale amore al passato o di sforzo per attuare un falso passato”. (7) La storiografia romantica, quindi, per attuare la sua tesi di “pensiero nella forma di pensiero”, dovette logicamente opporsi a tutto l’Illuminismo col contrapporre a questo il concetto di svolgimento. Non è certo questa la prima volta che nella storia della critica appare il concetto di svolgimento; lo si riscontra, ad esempio, nel Quattrocento (8) nell’interpretazione della storia come visione ciclica del Machiavelli di Pontus de Tyard e altri, in quella corrente filosofica panteistica che ha il suo migliore esponente in Giordano Bruno, il quale nella Cena delle ceneri dimostra di aver intuito l’attività progressiva dello spirito nella storia; ma la differenza col concetto di svolgimento romantico è evidente perché in ogni secolo tale concetto tende a riferirsi a certe forme di pensiero più che ad altre. Nel Settecento, ad esempio, esso si identificò e si annullò nell’idea di progresso, in una strada che pur essendo, sotto certi punti di vista, apportatrice di positivi effetti alla critica, la rese sterile. Di ciò ben s’avvide Giambattista Vico nella sua Scienza Nuova dove, precorrendo e anticipando quelle che saranno le idee romantiche, criticò le idee illuministiche. Errore dell’Illuminismo fu quello d’aver misurato tutto il passato col metro della ragione astratta, di averlo schernito, e di non naver capito che ogni età non fu mai nel torto, come esso voleva sostenere, e che ogni età aveva la sua forza, la sua bellezza, che era necessario effetto dell’età precedente e necessaria preparazione della seguente e che ciascuna età giungeva al momento giusto e come giustizia in quel momento. Merito fu , invece, l’aver riconosciuto gli studi, anche se negativi, sul passato specie sul Medioevo. Questo desiderio di indagare il passato, di criticarlo passò in eredità al Romanticismo che cominciò a concepire la storiografia come svolgimento, come storia di valori ideali i soli che siano soggetti a svolgimento. In seguito a ciò sempre più si svilupparono nell’Ottocento quelle storie di valori ideali che già avevano fatto la loro apparizione nel periodo precedente. La differenza che si nota con le storie precedenti consiste non tanto nel fatto che nell’Ottocento tali storie ebbero grande sviluppo esteriore, quanto nel fatto che tali storie avevano uno svolgimento interiore più profondo e non si componevano più, come per l’innanzi, in raccolte erudite, in notizie sconnesse, in giudizi condotti su motivi esterni e basati esclusivamente sulla ragione, su una cosa cioè arbitraria e capricciosa. In ciò quindi la critica e la storia letteraria non si misurarono più, come era avvenuto nel Cinquecento con l’ideale romano-umanistico e con quello classicistico del secolo di Luigi XIV o con l’ideale prettamente razionale del Settecento ma gradatamente riuscirono ad individuare il loro sistema, il loro metro attraverso i tentativi della Stael, di Schlegel, di Villemain, di Chateaubriand. In costoro si nota, - per usare una frase di Croce – “la ricerca è assai spesso felice attuazione di un organico congiungimento di tutte le singole storie di valori spirituali, col mettere in relazione tra loro, per ciascun popolo e per ciascuna epoca i fatti filosofici, religiosi poetici, artistici, giuridici, morali in funzione di un unico moto di svolgimento”. (9) Le nuove esigenze che si erano manifestate tra la fine del Settecento e i primi anni dell’Ottocento, s’allontanavano da una storia filosofica, ragionata, ideale dell’illuminismo e oggetto di generale disistima. I romantici avevano infatti attuato quel felice connubio tra erudizione e critica, mentre il Settecento, permanendo una disunione tra queste due parti, aveva segnato il passo. Conscio di questa conquista il Romanticismo aveva chiamato il XIX secolo “il secolo della storia” denominazione che in seguito è rimasta ma che – fa notare Croce (10) - sarebbe appropriatissima alla prima metà di esso, non può dirsi altrettanto meritata dalla seconda. Una riforma fu subito attuata verso quelle vaste storie erudite, prive di un soffio di vita, scritte per lo più da ecclesiastici o da gente che, vivendo al di fuori e al di sopra della società, non potevano comprenderne le virtù e i vizi. La loro più che storia letteraria era cronaca letteraria e l’indagine si volgeva a fattori esterni e non ai fatti intimi concepiti nel loro svolgimento e nei quali consiste la vera essenza della storia. Le esigenze si volgevano verso la ricerca di una storia che attuasse il pieno concetto di svolgimento e si veniva quindi ad ammirare il nuovo metodo con cui si trattavano scrittori e poeti: e i libri, scrive Croce, “ non erano più considerati come semplici azioni individuali, ma come espressione della qualità dei secoli; non più come un lusso lodevole delle nazioni ma come bisogno perpetuo dell’uomo sociale”. L’Ottocento si tuffò in tutto ciò che il Settecento aveva lasciato e non era poco. Si passarono in rassegna tutte quelle opere erudite, enciclopediche buttando via tutto ciò che vi era di superfluo e trattenendo solo cose utili. Il nuovo metodo con cui si trattarono quelle vecchie storie cominciò a dare sensibili, sicuri frutti sia in Italia, in Francia sia in Germania e in Inghilterra e in altre nazioni europee; gli autori e scrittori vennero tratti dalle nicchie più o meno dorate in cui gli eruditi li avevano chiusi, e vennero posti su un piano più alto, sul piano universale di una storia concepita secondo quelli che erano i canoni dei grandi moti spirituali. Tra tutte le vie che il Romanticismo poteva seguire quella scelta era l’unica che potesse dare buoni frutti. “Che cosa fu dunque – scrive De Sanctis (11) – il movimento del secolo decimonono, sbolliti i primi furori della reazione? Fu lo stesso spirito del secolo XVIII che dallo stato spontaneo e istintivo , passava nello stadio della riflessione e rettificava le posizioni, riduceva le esagerazioni, acquistava il senso della misura e della realtà, creava la scienza della Rivoluzione. Fu lo spirito nuovo che giungeva alla coscienza di sé e prendeva il suo posto nella storia”. Alcuni hanno tacciato quella critica di “vuote generalità” e non saremo certo noi a negarlo. Ogni movimento, da che il mondo esiste, sia esso letterario, politico, religioso non ha mai attuato in pieno tutti i suoi propositi e si sono sempre verificate deficienze ed esagerazioni, ma ciò che dobbiamo tener presente è il passo avanti che quel movimento ha fatto fare al suo genere. Il Romanticismo, scrive Croce, “fece compiere alla storia letteraria così grande passo che si potrebbe quasi dire che allora essa si formasse per la prima volta in quanto storia, raccogliendosi in un tipo che rimane duraturo, sebbene suscettibile di infinite determinazioni e arricchimenti e anche di correzioni più o meno radicali”. (12)
NOTE
1 Histoire de la littérature française des origines à 1900, a cura du L.Petit de Julleville, voll 8, “Introduction” tome VII et VIII, p.IV. 2) F.De Sanctis, Storia della letteratura italiana, Napoli, 1936, pp. 919-911. 3) R. de Chateaubriand, Génie du Christianisme, in Oeuvres complétes, Paris, Garnier, 1928, Libro IV, cap. V, p 351. 4) Chateaubriand, Memoires d’outres tombe, Voll. 6, Garnier, Paris, 1922-1925, Tomo II, Lib. XVIII, parte I, p. 160. 5) B. Croce, Teoria e storia della storiografia, op,cit, p. 238. 6) B.Croce, ibidem, p. 241 7) B,Croce, ibidem, p. 246 8) F.Simone, La coscienza della rinascita, negli umanisti, in “Convivium”,n° 2, Torino 1951. 9) B.Croce, Teoria e storia della storiografia, op. cit., p. 253. 10) B. Croce, ibidem, p. 257. 11) F.De Sanctis, Storia della letteratura italiana, op cit, p. 915. 12) B.Croce, Storia della storiografia al secolo XIX, 2 voll., Bari, Laterza, 1947, pp. 261-262.
IL PRIMO ORGANAMENTO DELLA STORIA LETTERARIA
CLASSICO OPPOSTO A ROMANTICO
1)Storia dei vocaboli ‘classico’ e ‘romantico’. 2) Differenza tra ideale classico e ideale romantico.
1) Storia dei vocaboli ‘classico’ e ‘romantico’.
Abbiamo continuamente messo in risalto nelle pagine precedenti, due movimenti letterari di grande importanza, quello classico e quello romantico, pur senza dare una adeguata valutazione non solo delle due correnti ma nemmeno dei due vocaboli. “Classique et romantique: deux idées – scrive P.Moreau – qui se sont précisées le jour où les deux mots se sont heurtés”. (1) “Classico” è un vocabolo che ci viene direttamente dai latini, presso i quali aveva diversi significati: “riguardante l’esercito”, “soldato di marina”, “cittadino della prima classe” o il significato “di prim’ordine, esemplare”. (vedi Gellio) E quest’ultima interpretazione – quella di Gallio-- è venuta sempre più prendendo campo. Opera classica sarebbe, quindi, un’opera scelta, un’opera a cui è congiunta l’idea di eccellenza e di perfezione. Il rinnovarsi, nel Rinascimento, degli studi sull’antichità aveva portato i lettori e i critici a contatto con molte opere che, pur piacendo loro per motivi particolari, piacquero anche nell’insieme per ragioni che erano comuni a queste. Fu la ricerca di queste ragioni comuni che portò all’affermazione di alcuni principi teorici, alla deduzione di una poetica che permetteva allo scrittore di procedere più sicuramente per la via segnata dai classici. Questo complesso di regole, di precetti dedotti talvolta cavillosamente dagli antichi, specie da Aristotile, formò uno schema che insegnò ad ognuno il metodo per comporre razionalmente un’opera d’arte. “Classicismo” quindi veniva a designare quell’insieme di studi che ricercavano il perché nei classici vi fosse vera bellezza, come fosse stata raggiunta e “classico” era colui che applicava lo schema ricavato sperando di eguagliare gli antichi”. (2) Ma abbiamo anche detto che “classico” significa perfetto e le opere che giudicate classiche assurgevano ad una gran dignità, erano considerate opere base di una letteratura. Nell’Europa non esisteva più solamente una letteratura latina ed una greca, ma molte letterature s’erano formate dopo l’abbandono del latino; oltre a ciò, al di fuori dell’ambiente europeo, si svolgevano altre forme poetiche di grande importanza. Il concetto di classico si estese allora a tutte queste opere e classica venne chiamata ogni opera che, facente parte dell’Antichità, del Medioevo o dell’Epoca Moderna, sia considerando l’Europa che tutto il resto del mondo, racchiudesse in se stessa “la rispondenza esatta del contenuto e della forma, del pensiero e dell’espressione” (Hegel). E ciò, beninteso, doveva avvenire al di fuori di ogni vincolo di scuola, al di fuori di ogni tradizione od esempio, La parola “romantico” ha, invece, una origine assai più recente. Il “Romance” nella letteratura francese, servì a definire una narrazione poetica in versi e in lingua volgare, di argomento cavalleresco preso specialmente da antiche tradizioni celtiche o da favole straniere. Ai primi del Settecento e per tutto il secolo la parola rimase come sinonimo di racconto fantasioso intessuto di descrizioni, di paesaggi selvaggi e pittoreschi. Nel Settecento poi l’Illuminismo cominciò a servirsi della parola (non più “romance” ma “romantique” come ormai si diceva oltre Manica) per parlare di animi sensibili, di cose irreali, morbose ma che ben si allontanavano dal razionalismo settecentesco. In seguito si venne, sempre più dando il nome di “romantico” a quel secolo letterario che, non soggiogato da schemi, da leggi, da canoni, s’abbandonava all’arbitrio della fantasia e della sua sensibilità. Per questa ragione a quei secoli che, invece, si mantenevano nelle vie tracciate dagli antichi fu per antitesi, dato il nome di “classici”.
2) Differenza tra ideale classico e ideale romantico
Con gli scritti della Stael, di Chateaubriand e di altri, la letteratura francese venne a trovarsi di fronte a due alternative: da un lato si trovarono le epoche delle grandi letterature greca e romana; l’epoca di Luigi XIV; la poesia imbrigliata da leggi e canoni. Dall’altro una nuova poesia sorta dal Cristianesimo, una poesia in cui sensibilità e sentimento si fondevano per dare una bellezza più viva alle opere d’arte. “Il merito di una forma scientifica – scrive Croce – si commisura a ciò a cui succede e non a ciò che le succede”; ed è cosa ovvia che se la forma precedente era scadente o manchevole in qualche parte, tanto più la nuova forma acquisterà meriti quanto più sarà riuscita a scoprire dove la vecchia forma aveva errato o deviato dal giusto cammino. Il Settecento aveva sbagliato in quel continuo appoggiarsi al Seicento, aveva sbagliato perché non aveva cercato un’originalità propria, una propria forma che permettesse al suo spirito di meglio espandersi ed esplicarsi. “V’è qualche secolo che, per tacere del resto, nelle arti e nelle discipline , presume di rifar tutto appunto perché nulla ha da fare “. Se questo pensiero del Leopardi può in parte applicarsi al Settecento, altrettanto non può dirsi dell’Ottocento. Il Romanticismo si era trovato di fronte ad un periodo classico compatto che dalla “Renaissance” giungeva sino a lui; ma si era anche trovato di fronte a nuovi studi, a nuove scoperte, a forme poetiche che, lontane dalle fonti classiche avevano tuttavia una loro bellezza che in nulla cedeva a quella classica. Fu allora che sorse il dubbio se il predominio sempre vantato dalla poesia classica di Grecia e Roma, i canoni letterari formatisi sugli studi dei migliori autori di quelle epoche, fosse legittimo; si cominciò, di conseguenza, a pensare che non vi fosse un solo unico filone di poesia vera, quello classico, ma che poesia v’era e nel Medioevo e in quei popoli che avevano avuto uno svolgimento letterario del tutto estraneo, o quasi, a quello classico latino. Si trattava di un gigantesco lavoro che bisognava iniziare, si trattava di riproporre una schematizzazione di tutta la letteratura francese. La Rivoluzione francese, se aveva avuto grande importanza nel campo politico, aveva anche avuto grande importanza in quello letterario. Un nuovo spirito tutto improntato a idee di libertà, era sorto. Tutto ciò che poteva far pensare ad una limitazione spirituale doveva essere spazzato via; ora i canoni estetici classici appartenevano a questa categoria. La lotta, quindi, si manifestò in due modi: il primo col far vedere che esisteva una poesia non classica ed altrettanto bella; il secondo col dimostrare errato il concetto dei classici che voleva un’opera composta applicando freddi schemi, e mostrare invece la potenza sovrana dell’ispirazione, dell’estro divino, del furor poetico. La reazione avvenne in due modi: l’uno spingeva i Romantici a comporre le loro opere seguendo schemi che differivano profondamente da quelli classici; l’altro li spingeva a cercar di riabilitare quei secoli che i classici avevano passato totalmente sotto silenzio e che gli Illuministi avevano denigrato. E ciò oltre a portare una nuova valutazione di quei secoli, valse anche a rimettere in luce una grandissima quantità di opere che, appunto perché appartenenti ai periodi oscuri, erano state dimenticate. La nuova critica si attaccò a queste opere ed esplicò tutte le sue possibilità per fissarne i pregi e goderne tutta la loro intima bellezza. La critica romantica, in definitiva, venne a spezzare ogni legame con quella precedente. Le storie letterarie del Seicento e Settecento si erano mostrate dogmatiche o erudite. I principi, le leggi, le idee che esse esponevano non erano fondate su una rigorosa dimostrazione della loro necessità logica, ma venivano accolte in virtù di una autorità (Aristotele) e di canoni già espressi, e di conseguenza lo scrittore rinunciava a discuterne il fondamento razionale. Questa critica dogmatica così angusta e retriva portò ad un movimento opposto del quale Hegel fu l’esponente maggiore. La storia cessava di essere considerata un qualcosa di statico e venne invece concepita come svolgimento e spaziò attraverso tutti i secoli e le epoche senza essere arrestata da alcun impedimento. Questo svolgimento libero della storia, giova ripeterlo, avveniva non alla luce di leggi promulgate in antecedenza che limitavano l’indagine critica dell’opera e lasciavano fuori la personalità dello scrittore, ma per giudicare si teneva presente l’uomo; la forza individualizzatrice si manifesta per la prima volta nell’opera critica ed acquista in poco tempo una eccessiva importanza tanto da portare Sainte-Beuve assai spesso ad esaminare più da vicino l’uomo che non l’opera. Si deve anche al Romanticismo se venne interrotto quel fluire di storie erudite, quella pesante filologia che faceva crescere di mole le indagini sui secoli studiati, ma non di idee. L’erudizione classica cessava il suo ciclo o per meglio dire, continuava ad esistere ma affiancata da uomini di pensiero; si veniva formando un rapporto dell’idea col fatto in contrapposizione al puro fatto appartenente allo schema classicista. L’errore dell’opera Le Siècle de Louis XIV di Voltaire era stato quello di non aver preparato, né spiegato il secolo di Luigi XIV e di non aver affatto indagato sulle cause che hanno così intimamente legato il monarca a quel secolo. L’errore di Voltaire era dovuto al fatto di aver voluto essere troppo erudito mentre, a differenza di lui, Villemain, scrivendo sui Luigi XIV assai meno del suo predecessore, aveva più profondamente intaccato il problema appunto per essersi chiesto ed aver cercato di risolvere ciò che il critico settecentista aveva passato sotto silenzio. Da questa opposizione al classicismo si sviluppò il tipo del filosofo-pensatore, tipo assai più fecondo che non quello che aveva caratterizzato la pura erudizione del Seicento e Settecento e che si fermava solo alla raccolta del materiale senza cercare di studiarne il valore. Le opere che seguivano gli schemi classici furono così abbandonate e nessun critico romantico osò più comporre una storia senza prima aver fatto un accurato e meticoloso esame dei documenti sui quali doveva basarsi, E’ per questo che molti critici, nuovi a tale lavoro, hanno dichiarato apertamente le difficoltà che via via venivano incontrando; basti ricordare Villemain. A poco a poco si dileguarono le storie prammatiche degli ultimi secoli e gli Illuministi e Voltaire cominciarono a cadere in discredito perché privi di senso storico. La storiografia dell’Ottocento ha avuto il merito di abbandonare la considerazione che le epoche storiche venissero guidate da visioni cicliche di splendori e decadenze e di considerare invece ciò che di più vantaggioso per il pensiero umano vi fosse in ognuna di esse. Ma non sempre – nota Croce – questo concetto fece da guida all’interpretazione storica, e là dove esso cessò di esercitare un fecondo influsso, l’erudizione settecentesce con tutta la sua sterilità prese il sopravvento; e accadde talvolta che la storiografia romantica, opponendosi decisamente a quella illuministica, ereditasse principi direttivi di cui quella si serviva. Ciò dimostra che l’erudizione settecentesca veniva assai spesso accettata, nella sue linee generali, dal Romanticismo. Nella poesia la partizione che i romantici fecero fu di considerare due classi distinte, due aspetti fondamentali: poesia classica e romantica; poesia considerata in se stessa e poesia considerata nel suo sviluppo storico. Il Romanticismo, dopo l’iniziale reazione all’epoca precedente, aveva abbandonato ogni accusa troppo forte, ogni critica eccessiva ed era rimasto con i suoi soli valori vitali. Attraverso questi il Romanticismo riuscì a cogliere e a riconoscere nella poesia la voce unica ed autentica dell’ispirazione, e tutte quelle opere che i classici avevano riguardato come strane od originali venivano invece dai romantici accolte nelle loro storie letterarie. Due diversi stati d’animo stanno alla base della distinzione tra poesia classica e poesia romantica: l’uno naturale in cui l’uomo si trova in equilibrio con tutto ciò che lo circonda; l’altro uno stato culturale in cui l’uomo cerca attraverso il suo Io di raggiungere un’armonia col mondo che sembra continuamente sfuggirgli. Sono due mondi che si polarizzano il primo nella ricerca della perfezione e l’altro nel tema dell’infinito. I caratteri essenziali che contraddistinguono uno scrittore classico possono così riassumersi: il classico ha per canone fondamentale la misura delle cose ed oltre a ciò, alla base di ogni suo slancio artistico pone l’uomo; di conseguenza ogni cosa entra a far parte della poesia, dell’arte soltanto se ha un rapporto necessario con l’uomo L’ideale artistico si commisura alla realtà delle cose ed ogni esagerazione provoca in un classico sdegno o rivolta. Il suo amore per le opere antiche non oltrepassa mai lo studio dell’uomo e non si allontana mai da esso perché un classico conosce come unica destinazione dell’uomo quella di essere uomo. Anche il classicismo, come ogni movimento, ha desiderio di indagare, di esplorare se stesso, ma tale indagine volta a riconoscere se stesso, non é per il classicismo una ricerca interiore ma si esteriorizza allargandosi a tutte le cose. In ogni opera classica si sente un non so che di unitario che racchiude l’opera in se stessa, si sente che essa è compiuta come microcosmo. In opposizione a questi concetti classici stanno quelli romantici. Colà dove la dottrina estetica classica poneva la misura delle cose basata sulle regole e sull’imitazione, il Romanticismo oppone una estetica nuova fondata su una conoscenza più giusta dell’arte, un’estetica priva di qualsiasi cosa che possa essere considerata una misura. L’uomo non è più un qualcosa vincolato da regole ma un essere libero, arbitro di se stesso; contro ogni tirannia di tradizione e di rispetti umani si propugna il diritto dell’artista di ascoltare solo e unicamente il suo sentimento. Contro la teoria del bello accademico che aveva dominato durante il Cinquecento e il Seicento, il Romanticismo sostiene il principio che ogni cosa possiede una bellezza propria e che essa si identifica con la vita, col divino che è in tutto. A quello che era armonia, equilibrio si contrappone una dissonanza, una disarmonia, il contrasto tra finito e infinito; per un classico guardare il Romanticismo è guardare il Caos. Ma è mediante questa divergenza di motivi che il Romanticismo restituisce l’opera d’arte al sentimento, alla fantasia, alle forze misteriose e profonde che costituiscono la personalità umana. Abbiamo detto che il classicismo, nella ricerca di se stesso, si esteriorizzava; un romantico invece ripiega in se stesso e attua tale ricerca in una contemplazione interiore. L’infinito che il classico ricerca fuori di sé, il romantico lo trova in se stesso perché la religione gli ha insegnato che l’anima dell’uomo è infinita. E’ di lì che nasce il misticismo romantico, l’aspirazione di un’anima solitaria alla comunione infinita in Dio. Se prima qualcuno poteva ritenere l’arte un gioco da farsi con determinate regole, ora l’arte diventa una religione. Uno dei più fecondi concetti del Romanticismo fu che l’arte, oltre ad esprimere ciò che vi è di più intimo e personale nell’animo dell’artista, debba anche esprimere ciò che esso ha di più tipicamente moderno. Il Romanticismo si afferma pure come modernità, diventa in letteratura ciò che il liberalismo era in politica: dottrina del movimento, del progresso contro la staticità tradizionale. S’era cercato di definire quali contrasti esistono tra Romanticismo e Classicismo opponendo continuamente l’uno all’altro, ma per alcuni critici, ricordiamo Vinciguerra e Fubini, tale opposizione è fuori luogo. Il primo (4), parte dal fatto che la cultura classica non rimase una cosa sconosciuta al periodo pre-rinascimentale, che non si affacciò tutta d’un colpo alla vita come “lazzaro quatriduano”, ma che essa si dissolse insieme alla società che l’aveva creata. Furono le epoche che seguirono - nessuna eccettuata – a raccogliere i residui di essa, ad interpretarli ed ad applicarli secondo la loro coscienza. Fu così che frammenti di cultura classica vennero applicati prima del Cinquecento, durante il razionalismo seicentesco, nel Settecento e anche nei romantici. Tenendo ora presente – conclude il Vinciguerra - che ogni opera di qualsiasi secolo possiede un frammento dell’era classica interpretato a modo suo, è a priori tolta ogni possibilità di stabilire un rapporto tra i due termini. Si può contrapporre l’epoca classica e l’epoca moderna, ma non si può contrapporre “classicità” e “modernità” in seno all’epoca moderna stessa perché il primo termine non è una cosa a sé stante ma è un elemento subordinato perché interpretato dalla coscienza moderna. Il Fubini (5) invece parte dalla divisione schilleriana di “poesia ingenua e poesia sentimentale” o contrapposizione di natura e società come voleva Rousseau. La partizione romantica della poesia in due parti: la classica, espressione compiuta e perfetta di un passato conchiuso; e di poesia romantica intesa come voce dell’animo nostalgicamente rivolto ad un mondo superiore, fu di ostacolo ai romantici quando tentarono di tracciare una storia di poesia. Non si potevano contrapporre due diverse poesie senza che fosse possibile attribuire all’una di esse caratteri che non fossero propri anche dell’altra. Ne derivava che poesia sentimentale e ingenua erano due momenti compresenti in ogni poesia e un rapporto quindi tra poesia ingenua (classica) e sentimentale (romantica) era escluso. E’ appunto l’aver sospettato ciò – dice Fubini – che spinse Federico Schlegel a scrivere: “l’armonia del classico e del romantico è il compito supremo di ogni poesia”.(6) Ma sia i Romantici che i Classici sentivano l’impaccio che loro causava la divisione di classico e di romantico e sentivano che l’armonia unica e indissolubile a cui accennava Schlegel non poteva essere scissa nei due quadri e subordinata ad essi. Per raggiungere l’essenza della poesia libera, della poesia non controllata da regole, si doveva cessare di parlare di arte antica e di arte cristiana, di cicli ricorrenti di poesia spontanea e riflessa, ingenua e sentimentale svolgentesi in quel particolare disegno detto a “spirale”. La divisione della poesia in concetti che si opponevano a due a due era assai limitata; non esiste solo un’arte classica o una romantica, una poesia spontanea e una riflessa, ma infinite forme di poesia. E’ errore assegnare agli antichi il solo finito e ai romantici l’infinito perché se il finito è sinonimo di perfezione in quanto privo di una luce ideale, l’infinito, pur possedendo al massimo grado tale ideale, deve, per manifestarsi, rendersi concreto e finito. Le due forme non possono di conseguenza essere distaccate. Quindi è dall’opposizione che è stata fatta nel periodi protoromantico e romantico tra “classico e romantico” dalla Stael, Chateaubriand ed altri che si sono prese le mosse per giungere a quella che è la più proficua storiografia della poesia e cioè uno studio unitario sulle cartatteristiche del singolo artista, sulla sua personalità, sulla sua opera. E’ vano parlare di poesia classica, poesia romantica, poesia orientale... in quanto tali concetti non risolvono nulla: la poesia è Una e non soggetta ad alcuna formula esterna. Pindaro, Dante, Shakespeare od Ossian, quantunque nati in epoche diverse e pur avendo scritto opere diverse, sono ugualmente poeti senza alcuna differenza fra loro. I due opposti concetti di classico e romantico non sono però privi né di interesse né di utilità. Ci servono come designazioni, idee generali per capire il contenuto di questa o di quell’opera o il perché di una polemica sorta tra esse. Ci servono per inquadrare i primi studi di un poeta, per vedere se la sua ricerca si volge al presente, al passato o al futuro; se il suo temperamento è concorde o discorde col suo tempo; ci serve infine per scrutare tutto il lavorio storiografico che la sua mente fa. E quando lo scrittore ha raggiunto il punto in cui capisce in che egli si differenzi dagli altri, nell’istante in cui intuisce la sua vera via, allora cessano d’aver importanza i concetti che fin qui l’hanno guidato e lo scrittore trova una sua produzione originale, una sua poesia. Il concetto, quindi, di classico opposto a romantico viene ad essere ridotto alla formula crociana di “poesia e non poesia “. Si è detto che classico tra i suoi molteplici significati ha anche quello di “modello perfetto di bello scrivere” ed è questo il significato accettato da Croce e non esteso solo agli antichi ma agli eccellenti scrittori di ogni secolo e d’ogni letteratura. Si potrà quindi dire che un Hugo, un De Vigny sono classici della letteratura francese. Si risolve così l’opposizione di due concetti in una visione che contempla tutta la letteratura ricercando e studiando in essa tutte le opere che hanno raggiunto una espressione artistica (classiche) e tutte le opere che, pur raggiungendo in alcune parti una bellezza artistica, non hanno però avuto una completa armonia interna. Una osservazione che si può fare a tale critica è che così si perdono di vista quegli elementi culturali di cui tali opere furono permeate e il tempo in cui tali opere furono composte. E la poesia intesa in tal modo viene posta in un mondo extraterreno, idealizzata, messa al di fuori della realtà. E’ per questo che pur tenendo presente l’idea di “classico”come di un qualcosa di perfetto, si dovrà tenere anche conto del concetto di classico, di romantico o di qualsiasi altro concetto, perché essi in qualità di cognizioni, di idee generali, impediranno di perdere di vista il tempo e la cultura in cui la poesia venne formandosi ed eviteranno che essa si astragga totalmente dalla realtà. Ma i critici del periodo protoromantico e romantico non giunsero a tanto. L’opposizione tra classico e romantico rimase per loro un periodo di regole, di freni contro cui si schierò la libertà assoluta. Il loro contributo, però e il loro merito furono tanto enormi che l’età in cui si cominciò a delineare tale storiografia fu celebrata come l’età “in cui fu addirittura creata la storia letteraria e artistica... e creatori furono Vico e Herder, Winckelmann e Schiller, Chateaubriand e la Signora de Stael... e altri filosofi e storici del periodo protoromantico e romantico”. (7)
NOTE 1) P. Moreau, Le classicisme des romantiques, Paris, 1932, p. 1. 2) P. Moreau, ibidem, p. 1 e segg. 3) G.B. Croce, Nuovi saggi di estetica, Bari, Laterza, 1920, p. 116. 4) Mario Vinciguerra, Romanticismo, Pisa, 1954, pp. 64-65 5) M.Fubini, Tecnica e teoria letteraria, Milano 1950, pp. 204-206 6) M. Fubini, ibidem, p.205. 7) B.Croce, Nuovi saggi di estetica, Bari, Latera, 1920, p.166.
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